I
ROTTAMI,
LE OSSA
E IL CUORE
“Quando
passi gran parte della tua vita a pregare perché vada tutto
bene, a
guardarti allo specchio senza riconoscerti, al chiederti il
perché
senza mai ricevere una spiegazione, a lottare e combattere e
stringere i denti... la normalità diventa questa. Sai in
cuor tuo
che questo normale non è. Sai in cuor tuo che vorresti un
cane,
svegliarti la mattina e baciare chi condivide il letto con te, che
vorresti farti la barba e scendere in cucina a preparare dei toast
che tanto verranno bruciati... però se tutto ciò
che hai avuto è
un enorme leone rosso robotico che spara fuoco dalla bocca e una
spada che si allunga da sola a causa del sangue di alieno che hai
nelle vene – il letto sfatto, un cane che ti sveglia la
mattina e
il toast bruciato non sono più le
priorità.”
Aveva
detto Keith un giorno a un Lance che l'ascoltava con le labbra un po'
dischiuse e un cipiglio profondo tra le sopracciglia. Durante il suo
discorso il coreano aveva lanciato qualche occhiata a Shiro, che
discuteva animatamente con Allura. Poi il paladino nero gli aveva
chiesto qualcosa – e così la questione era stata
chiusa.
A
discapito della volubilità, dell'energia, dello scoppiettio
del
fuoco – Keith sapeva apparire freddo e risoluto.
Così era apparso,
infatti, parlando con Lance. Aveva addirittura pensato di crederci,
per un periodo; di credere che gli andasse bene quel non avere mai
una casa dove tornare, non entrare mai da una porta la sera e sentire
la tv in sottofondo e l'odore di pizza da asporto. Il suo animo,
indomito, agitato e da guerriero, aveva trovato pane per i suoi denti
nella lotta interplanetaria contro i Galra. Aveva avuto Voltron, Red,
il sangue nuovo da affrontare... aveva avuto i paladini, Coran ed
Allura – ed aveva avuto Shiro. E per fortuna, altrimenti non
sapeva
dove sarebbe potuto finire in quel caos che era stata la sua vita
fino a quel momento.
“Allora, Red... siamo arrivati alla
fine, uh?” Aveva mormorato, seduto sul sedile del suo leone.
Le
dita lunghe che sbucavano dai suoi mezzi guanti in pelle erano
strette sulle leve dei comandi.
Voltron aveva vinto. I Galra
erano stati schiacciati. Morti perlopiù, alcuni prigionieri.
Pianeti
ormai consumati dalla follia dell'Impero avevano avviato progetti di
recupero, così da salvare il salvabile – e poter
ridare casa a chi
l'aveva perduta, molto tempo prima. I paladini avevano fatto il loro
corso; la loro leggenda sarebbe passata di bocca in bocca, di
galassia in galassia, ma non era più il loro momento, ormai.
E
quando Keith aveva visto i suoi compagni lasciarsi andare a risate
più rilassate, a scherzi e a progetti, si era chiesto quale
fosse il
suo posto. Lance sarebbe tornato dai suoi ed avrebbe ricominciato a
fare surf. Hunk avrebbe continuato a fare l'ingegnere alla Garrison,
ma nel tempo libero avrebbe seguito un corso di cucina. Pidge voleva
continuare a studiare, godersi Matt e prendersi un gatto da chiamare
Green. Coran... be', Coran sarebbe rimasto con Allura fino alla fine
dei suoi giorni, e la principessa avrebbe tenuto le redini politiche
di quel nuovo sistema appena nato, finalmente pacifico. Tutti loro
avevano dato il loro contributo alla fine della guerra, tutti loro
avevano perso ed ottenuto qualcosa e tutti loro avevano progetti da
avviare e la bellezza della calma a cui tornare. Tutti avevano una
collocazione – e se in un primo momento Keith si era sentito
annichilito al punto di considerarsi finito dopo la conclusione del
conflitto, si era costretto a rivedere il suo futuro. Fino a poco
tempo prima era sembrato troppo lontano ed incerto anche solo per
pensarlo, ma ora poteva toccarlo con mano – ed era una
scatola
vuota che doveva riempire lui.
Keith aveva finito di salutare il
suo leone. Ormai aveva un orecchio mozzato e un graffio enorme
all'altezza della coscia destra, ma il coreano sapeva quante
avventure quell'enorme bestia meccanica avesse vissuto. Sarebbe
rimasto nel castello di Allura, Red. Con gli altri quattro leoni
–
in attesa di una nuova minaccia o dei loro paladini successivi. Keith
era sicuro del fatto che né lui né Red si
sarebbero mai dimenticati
l'uno dell'altro, ma nei giorni precedenti, nell'abitacolo che fin
troppe volte aveva rischiato di diventare la sua tomba, si era
lasciato andare ad un pianto liberatorio e segreto, stringendo
convulsamente le mani sui comandi. Doveva chiudere il libro del
Paladino Rosso, chiudere in un cassetto fatto d'ossa in fondo al
cuore il suo leone e guardare dritto. Perché se c'era una
cosa che
aveva imparato, da quei suoi anni in prima linea, era proprio questa:
non c'era motivo di rimuginare sul passato. L'unica cosa da fare?
Andare sempre avanti.
“Ci vediamo, amico.” Aveva sussurrato
alla fine, passandosi una manica sugli occhi un po' gonfi e arrossati
e lasciando un paio di pacche sul metallo freddo. Certo che si
sarebbero rivisti. Perché Allura sarebbe divenuta regina e
custode
della pace dei mondi, ma tutti e cinque sapevano che sarebbero
tornati spesso al castello, per dare una mano ai due alteani
– e
per salutare i loro leoni, ovviamente. Per quanto la guerra fosse
finita, loro sarebbero sempre rimasti soldati. Dovevano solo imparare
ad essere altro, oltre che guerrieri.
Gli ormai ex Paladini
sarebbero partiti nel giro di alcune ore. Tempo di fare gli ultimi
bagagli, sistemare alcuni dettagli – e poi un grande wormhole
si
sarebbe aperto ed avrebbe inghiottito tutti e cinque, rispedendoli
sulla Terra. Da lì in poi sarebbe stato tutto da scrivere,
con la
strada non tracciata, enorme e sconosciuta davanti a loro. Keith
aveva paura, ma sapeva che avrebbe potuto sempre contare sulla sua
famiglia, ottenuta in mezzo al dolore, alle stelle e a risate un po'
disperate.
“Shiro?”
Keith era entrato nella sala d'allenamento, enorme e
completamente vuota se si escludevano il suo compagno ed alcuni
ologrammi che si muovevano agilmente. Shiro caricava a testa bassa
–
ed ansimava, rosso in viso. La gamba muscolosa del più
grande si
mosse e lo stinco impattò contro la testa di uno di quei
nemici. Poi
il maggiore, richiamato dalla voce di Keith, si volse verso di lui,
mentre il braccio robotico smetteva la luce violetta e le sagome
create dalla tecnologia alteana sparivano. Tirò un sospiro
mentre si
tergeva il sudore dalla fronte con l'avambraccio e si avvicinava a
Keith.
“Ciao.” Lo aveva salutato, sorridendo in quel modo
leggero, un po' sbilenco. Quel sorriso che non arrivava quasi mai a
sposarsi agli occhi e che facevano chiedere al coreano quanto i Galra
gli avessero tolto.
“Lo sai vero che non avrai nessun cranio da
fracassare, sulla Terra?” Chiese retoricamente, porgendogli
una
bottiglietta d'acqua che aveva raccolto al fianco della porta. Shiro
doveva averla lasciata al suolo quando aveva cominciato
l'allenamento.
Il maggiore scrollò le spalle ampie, distogliendo
il viso da quello di Keith e prendendo grosse sorsate dalla
bottiglia. Aveva bevuto talmente tanto e talmente velocemente che la
plastica si era accartocciata, delle gocce erano cadute sulla sua
canottiera già bagnata di sudore ed ora Shiro tossicchiava.
“Da
quanto sei qui dentro?” Indagò Keith, aggrottando
le sopracciglia.
“Da abbastanza tempo da aver battuto il mio record personale
di
ologrammi sconfitti.” Il ché, tradotto, era
decisamente molto
tempo.
Keith sospirò pesantemente, sedendosi a terra e facendo
cenno a Shiro di seguirlo. Questi obbedì, lasciandosi cadere
giù e
allungando le gambe davanti a sé.
“Hai già preparato i
bagagli?”
Shiro aveva tentennato un attimo, prima di scuotere
il capo in segno di diniego.
Era proprio stupido, Shiro. Pensava
che dopo tutti quegli anni Keith non lo leggesse come un libro
aperto. Pensava che fosse un buon attore, addirittura.
Al coreano
quasi venne da ridere, ma si trattenne: sapeva ciò che il
suo
compagno stava provando. Ed era suo compito e sua volontà
fargli da
spalla e aiutarlo, non certo affossarlo o prenderlo in giro.
“Posso
darti una mano, se vuoi.” Si offrì, facendoglisi
più vicino e
scostandogli il ciuffo bianco che gli era ricaduto molle sulla
fronte. I suoi capelli erano bagnati di sudore, ma morbidi.
Shiro
annuì, ma restò in silenzio. Keith
sollevò gli occhi al cielo
mentre la mano che gli aveva accarezzato i capelli scendeva verso il
viso; l'indice seguì con delicatezza il solco profondo che
sfigurava
il volto del ragazzo.
“In realtà...” cominciò
finalmente
Shiro, catalizzando all'istante l'attenzione dell'altro, che fece
scattare un sopracciglio verso l'alto con fare interrogativo.
“...pensavo che se chiedessi ad Allura di poter restare non
mi
direbbe di no...”
Fu una doccia fredda, per il più giovane.
No, Allura senza dubbio l'avrebbe accolto a braccia aperte.
Però se
Shiro fosse rimasto lì, che ne sarebbe stato di loro due?
“Tu
sai che io tornerò sulla Terra, vero?” Chiese
Keith senza nessuna
particolare inclinazione nella voce. Non era più il suo
posto,
quello. Non era più il posto di nessuno di loro.
Shiro prese un
grosso respiro prima di annuire.
“Se sai cosa fare una volta
tornato è giusto che tu lo faccia. Voi quattro siete
più giovani di
me – e se io non fossi fuggito dai Glara voi non avreste mai
dovuto
prendere i leoni. Ma io... Keith, che senso avrebbe tornare, per
me?”
soffiò Shiro, lo sguardo fisso sulla mano robotica della
protesi che
ancora stringeva la bottiglia un po' accartocciata. Shiro non aveva
mai ammesso a chiare lettere quel senso di inadeguatezza e
inutilità
che provava, ma Keith ne era sempre stato consapevole.
“Io
ricordo un bel ragazzo moro, un po' ingessato nella sua uniforme. Ed
a me questo sembra un buon senso.” Tentò il
coreano, incrociando
le braccia al petto. Non si metteva ad urlare solamente
perché era
consapevole del fatto che Shiro stesse rimuginando da giorni. E poi
perché i patti erano sempre stati chiari, tra loro: nessuno
dei due
insisteva a patto che l'altro, una volta pronto, gliene parlasse.
Avevano avuto la necessità di trovare quella via d'uscita,
perché
entrambi avevano talmente tanti scheletri nell'armadio, fantasmi e
demoni da potercisi perdere nel mezzo senza mai più
ritrovarsi. Ed
entrambi sapevano cosa volesse dire guardarsi intorno senza vedere
una luce, anche minuscola. Perciò c'era e sempre ci sarebbe
stato il
rispetto.
“Quello Shiro non esiste più, Keith.”
Aveva
mormorato Shiro in risposta, un sorriso un po' amaro sulle labbra.
“Io lo vedo ancora, invece. Quando ti ostini a bere solo
acqua
frizzante anche in mezzo ad un deserto, ad esempio. O quando cominci
a starnutire non appena senti l'odore della mimosa. Sono piccolezze,
ma questo è Shiro.” Fu la
risposta. Perché Keith,
nonostante le torture, nonostante la protesi, nonostante gli abusi
che il suo compagno aveva subito... Keith conosceva Shiro. E
continuava a vederlo. Negli occhi allungati, ora più
consapevoli ed
oscuri di un tempo, continuava a vedere il ragazzo di cui si era
innamorato.
Le parole del più giovane avevano strappato una
risata sbuffata all'altro, sforzata e non allegra.
“No, Keith.
Tu non sai cosa significa essere stato in mano loro. Hanno strappato
via tutto quel che ero, tutto quel che avevo... mi hanno lasciato
vuoto. Sono un soldato, Keith. So combattere: non so fare
nient'altro. Non sono nient'altro.”
Keith quasi si sentì
il fiato mancare per la crudezza assoluta delle parole dell'altro.
Perché era vero: lui non sapeva cosa significasse
sopravvivere alla
prigionia ed alla tortura. Avrebbe dato tutto quel che aveva per
poter tornare indietro e subire lui ciò che Shiro aveva
subito, ma –
non gli era possibile. Non aveva mezzi, se non se stesso – e
Keith
era bravo in tante cose, ma i rapporti interpersonali non erano tra
queste. Era certo solo di una cosa: Shiro era molto di più
di quel
rottame che pensava di essere. Keith aveva sperato, forse vanamente,
di poter sanare tutte le ferite che i Galra avevano inferto a quel
ragazzo. Attaccarsi ad esse come una sanguisuga, succhiare via il
veleno e tornare ragazzo solo per baciarne le cicatrici. Ma mai come
in quel momento comprese quanto Shiro si sentisse solo. Quanto Shiro
fosse solo, nonostante lui. Il peggio era che
entrambi ne
fossero completamente consapevoli.
“Hai ragione: non so cosa
significhi sopravvivere ai Galra. Però so cosa significa
guardarsi
allo specchio e chiedersi se c'è qualcosa che puoi
effettivamente
dare al mondo per uno straccio di felicità in cambio, o se
sei
solamente un involucro vuoto senza utilità. So cosa
significa
guardarsi allo specchio e non vedere se stessi – guardarsi
negli
occhi e non riconoscersi.
Io c'ho pensato, Shiro: non posso dirti
che andrà tutto bene, anche se vorrei. Non posso dirti che
non
cambierà niente, perché –
cambierà tutto. Tu dici che per me ci
sono speranze e possibilità, ma quando penso a me tutto
ciò che
vedo – tutto ciò che sento di essere –
sono un leone, un sangue
bastardo ed alieni morti. Però sto provando ad imparare a
fare
progetti. A chiedermi quel che voglio. E io non so
cosa
significhi avere una vita normale, ma mi piacerebbe provare a
capirlo. Forse siamo due macchine adatte solo a fare la guerra, ma ho
pensato che entrambi possiamo tentare – e
vedere come andrà.
Tentare insieme.”
Concluse Keith, gli occhi bassi. Perché la
paura era tanta e non aveva idea di cosa l'aspettasse, né di
cosa
potesse effettivamente volere e raggiungere. C'era un solo punto
fermo: Shiro. Shiro era tutto ciò di cui era sicuro, ma ora
pareva
star sgretolandosi tra le sue mani.
Keith estrasse allora una
cosa, dalla tasca del giubbotto: un portachiavi. Era un semplice
placca di metallo decorata con solamente l'incisione di una scritta
–
“home”.
“E'
per te. Ne ho uno uguale anch'io. Ancora non ci sono chiavi, ma basta
trovarle. Avevo pensato che potremmo cominciare da questo, insieme.
Non so cosa, né come, ma so che vorrei farlo con te.
Perché Shiro,
alla fine dei giochi, tu sei tutto quello che ho.
Tienilo,
comunque andrà. Se hai deciso di rimanere con Allura
– be', non ti
preoccupare: capirò.”
Consegnò al maggiore l'oggetto,
spaurito e vergognoso, ma comunque deciso.
Ti prego, resta con
me, sembrava recitare il ritmo del suo cuore come un mantra,
ma
non poteva pretendere niente. Non c'erano mai stati progetti tra loro
due; e come avrebbero potuto farne, se ti addormentavi con la
consapevolezza che l'indomani saresti potuto essere sotto terra? E se
da un lato Keith avrebbe voluto aggrapparsi all'altro, nascondersi in
lui, e pregarlo di rimanere insieme, dall'altro sapeva di non poterlo
fare. Dall'altro sapeva che ognuno doveva pensare al proprio bene.
Shiro aveva ascoltato completamente imperturbabile,
all'apparenza, ma con un crescente e diffuso sentimento di
ammirazione, panico e gratitudine dentro di sé. Keith aveva
preso il
toro per le corna. Keith aveva pensato anche a lui e gli aveva
offerto un rifugio sicuro anche quando lo stesso ragazzo non aveva
idea di come sarebbe andata a finire. Keith si faceva amare come
sempre: in silenzio, coi gesti, seriamente e disperatamente. Non era
certo tipo da indorare la pillola. Perché anche Keith era
consapevole che Shiro fosse rotto e che altrettanto fosse lui. Non
aveva una bacchetta magica in grado di aggiustare entrambi e non
faceva promesse: esponeva la realtà dei fatti ed offriva e
chiedeva
una via d'uscita.
Era sicuramente meglio di Shiro, in quei
termini, che si era limitato a macerarsi nell'incertezza, nel
sentimento di inutilità e nel disprezzo per se stesso.
La mano
meccanica si sporse verso l'oggetto che gli stava venendo offerto e
lo strinse – metallo su metallo. Keith non disse nulla mentre
si
alzava per allontanarsi. Era certo che non avrebbe ricevuto risposta
– almeno non per il momento.
Prima di allontanarsi e lasciare
Shiro da solo coi suoi pensieri, si chinò fino a posargli un
bacio
lieve sulla fronte, scostando con le labbra socchiuse i ciuffi
bianchi spettinati. Gesto di una dolcezza e di un'intimità
estrema –
gesto di cui Shiro fu profondamente grato, tanto da chiudere gli
occhi e godersi il respiro di Keith addosso ed il cuore che si
contraeva. Perché entrambi erano consapevoli che quello
poteva
essere il loro ultimo bacio.
***
I
paladini, allineati e un po' spauriti, erano quattro: Shiro non era
presente. Nessuno aveva osato proferire parola su quell'assenza,
mentre Keith faticava a non farsi prendere dalla rabbia e
dall'agitazione: aveva detto che l'avrebbe capito, ed era vero.
Però
il fatto di volerlo con sé, il timore di perdere tutto quel
che
avevano costruito nonostante il dolore della guerra, di sperare che
l'indomani mattina nello svegliarsi in un letto sconosciuto avrebbe
trovato i tratti famigliari di Shiro – quello non cambiava.
Continuava ad avere una paura fottuta ed a sentire il bisogno di
averlo vicino. Disperatamente.
“Paladini,” attirò la loro
attenzione la voce di Coran, soffermando su ognuno di loro uno
sguardo fiero e pregno di significato. I quattro si impettirono e gli
occhi di Keith smisero di indugiare sull'enorme porta davanti a loro,
che rimaneva ostinatamente chiusa. Shiro non sarebbe venuto.
Deglutì
rumorosamente, sforzandosi di restare imperturbabile.
Coran aveva
gli occhi lucidi e lo stesso Hunk.
“Avete servito
coraggiosamente l'idea di pace fortemente voluta e cercata da tutta
la galassia. Avete combattuto l'Impero Galra rischiando le vostre
stesse vite. E per questo vi ringraziamo.” Concluse Coran,
facendo
un cerimonioso cenno verso la Principessa, che compì un
passo
avanti: “Ricordatevi che in questo castello ci
sarà sempre posto
per voi e sarete i benvenuti. Custodiremo i vostri leoni con la
speranza che non dobbiate più usarli. Se così non
dovesse essere,
comunque, siamo consapevoli di poter contare su combattenti
eccezionali, servitori della pace e ragazzi dal cuore
enorme.”
Elencò Allura, splendida nel suo vestito bianco ed etera con
quel
sorriso puro. Parlare con lei era come parlare direttamente con una
stella rivestita di ghiaccio.
I saluti, personali e sentiti,
erano stati fatti la sera prima. Ora c'era bisogno di tornare
all'ufficialità ed alla rigidità militare.
Mentre
tutti e tre gli ex paladini avevano qualcosa da dire in risposta,
Keith aveva ascoltato con un solo orecchio, un ronzio sordo nelle
tempie ed il cuore che galoppava fin troppo furiosamente. Shiro
non sarebbe venuto. Keith doveva dire addio a tutto
ciò che
aveva voluto, sperato ed amato. Keith avrebbe dovuto imparare a
ri-vivere da solo. Forse... avrebbe potuto rimanere
anche lui
al castello, seguire Shiro, ma... sapeva che quello non era
più il
suo posto.
Aveva chiuso la sofferenza, la rabbia e la delusione
in un angolo ben custodito, tra cuore e costole. Non avrebbe permesso
a quelle emozioni di vedere la luce, perché erano sciocche,
un po'
bambinesche. Aveva già perduto Shiro, prima. Aveva creduto
che fosse
morto. Se non altro, per quella volta, avrebbe avuto la certezza che
in qualche parte della galassia, vivo e vegeto e magari felice,
esisteva ancora.
“Keith?” Si sentì chiamare; era Pidge,
che
gli aveva delicatamente messo una mano sul braccio, riscuotendolo dai
suoi pensieri. Riavendosi, si accorse che tutti stavano fissando
lui.
“Io... vorrei solamente chiedervi di prendervi cura di
Shiro.” Sussurrò, gli occhi che svicolarono
rapidamente verso un
punto imprecisato alle spalle degli alteani: non aveva nient'altro di
significativo o degno di essere pronunciato da far rotolare fuori
dalla lingua, che troppe volte gli sembrava incatenata e impacciata.
Forse ciò che aveva confessato al suo compagno quel
pomeriggio non
era stato sufficiente. Forse avrebbe potuto insistere od essere
più
chiaro – dirgli quello che non aveva mai avuto il coraggio di
dirgli, ossia che l'amava.
Non recepì la risposta di Allura,
mentre si caricava in spalla il suo borsone e voltava le spalle
all'ambiente bianco e pulito del castello. Non ne avrebbe sentito
così tanto la mancanza: non era tipo da affezionarsi alle
cose
materiali, lui. Forse era anche per questo che aveva solo cinque o
sei foto di tutti quegli anni, con sé.
Fu il primo a salire le
scalette della navetta che gli avrebbe ricondotti sulla Terra.
Sarebbero stati scaricati alla Garrison – il ché
era assurdo,
perché davvero non aveva il minimo senso. Da quella, poi,
ognuno
avrebbe preso la sua strada.
Keith attese pazientemente che anche
gli altri tre montassero a bordo, l'espressione vacua fissa davanti a
sé.
“Keith... non pensi che sarebbe meglio andarlo a cercare?
E chiedere?” Tentò Lance, lanciandogli un'occhiata
in tralice. Il
coreano sbatté un paio di volte le palpebre, voltandosi
verso
l'altro con aria interrogativa: “Perché dovremmo?
Ha fatto la sua
scelta.” Tagliò corto, allacciandosi la cintura
davanti al petto e
posando la nuca sul poggiatesta. La verità era che non aveva
neanche
idea se l'avrebbe mai più rivisto – ed era certo
del fatto che
scendere, andarlo a cercare e domandare avrebbe sortito due effetti:
tirargli un pugno tale da sbriciolargli i denti e non partire
più. E
non poteva (e non voleva) nessuna delle due cose.
Non notò gli
sguardi che gli altri tre paladini si lanciarono, troppo concentrato
a non cominciare ad urlare. Raramente si era sentito così
impotente
e solo, ma doveva imparare a farci i conti.
“Okay, allora...”
mormorò Lance, che premette qualche tasto del quadro dei
comandi. Il
portellone si chiuse con uno sbuffo di vapore, mentre la capsula
cominciava a vibrare sotto di loro e i motori a scaldarsi. La voce
robotica, dopo un attimo, cominciò a parlare loro: diede il
benvenuto, comunicò la loro destinazione e
cominciò il conto alla
rovescia.
Keith non si azzardò a guardare fuori dalla loro
navetta. Non si azzardò ad ascoltare i suoi stessi pensieri,
perché
li sentiva ardere in fondo alla testa. Chiuse gli occhi ed era
talmente tanto concentrato a non pensare, che inizialmente non si
rese conto di Coran che dal finestrino, dietro le sue spalle, urlava
qualcosa di incomprensibile.
“Ferma! FERMA TUTTO, LANCE!”
Gridò Pidge, seduta davanti al coreano, mentre si agitava
sul sedile
e scattava verso i comandi. Lance la precedette e mentre urlava
qualcosa sbatté le mani su alcuni pulsanti e
riuscì a bloccare il
processo di partenza, facendo spegnere i motori. Keith, allarmato (e
si diede dello stupido quando si trovò a sperare), si
voltò
rapidamente, cercando di capire cosa stesse succedendo. Era andato
Hunk ad aprire il portellone, solo la testa fuori dalla navetta. Poi
Hunk si spostò e dentro venne lanciato con malagrazia un
borsone,
non dissimile nelle dimensioni da quello di Keith.
Dopodiché, al
lato dell'apertura, una mano metallica si chiuse, annunciando
l'ultimo passeggero. Keith deglutì, prima di dischiudere le
labbra e
osservare dal basso Shiro che entrava. Era serio in viso, mentre
prendeva posto al fianco dell'ex paladino rosso senza dire una
parola. Il sorriso era presente sul volto di tutti gli altri, ad
eccezione di Keith, che lo fissava un po' con un'espressione un po'
istupidita.
“Be', Lance? Non partiamo?” Chiese retoricamente
Shiro, lanciando un'occhiata al cubano, che ampliò il suo
sorriso.
“Certo! Allora – signori e signore, benvenuti a
bordo della
Lance-is-cool-air. Reggetevi forte, non amoreggiate e non vomitate.
Per il bagno – be', vedete di tenervela, perché mi
sa proprio che
non ce l'abbiamo.” annunciò Lance, col suo solito
tono scanzonato,
mentre riavviava il processo di partenza e la voce robotica
ricominciava il suo annuncio.
Keith era stoico, solo le labbra
strette in quella linea dura e retta tradivano il suo stato d'animo:
aveva Shiro vicino. Aveva il suo odore con sé, la sua
presenza forte
e rassicurante, il ginocchio che di tanto in tanto sfiorava la sua
stessa gamba. Non avrebbe dovuto rinunciarci – non
avrebbe
dovuto dire addio.
“Pensavo che avessi scelto di rimanere.”
Gracchiò ad un certo punto, dandosi del miserabile mentre
era
costretto a deglutire per schiarirsi la voce. Lo faceva sembrare
debole. Ed era sicuro che se fossero stati soli gli avrebbe prima
sputato in faccia il suo disprezzo, per poi baciarlo fino a perdere
il fiato e morire. Un Keith di alcuni anni prima non avrebbe esitato
a fare una cosa simile. Però ora? Ora Shiro gli aveva
insegnato la
pazienza.
“Ho scelto di provare a darmi una seconda
opportunità. E non potrei averla, se ti avessi raggiunto.
Perché di
una sola cosa puoi essere sicuro, Keith: sceglierò sempre
te.”
Aveva sussurrato in risposta Shiro, osservandolo in tralice.
Keith
si sentì morire un po'. In modo dolce, cullato dalla
stucchevolezza
un po' sciocca dell'amore in cui lui aveva sempre creduto, ma in
termini molto pragmatici. Non era tipo da “farfalle nello
stomaco”,
Keith. Era tipo da prendere una persona e baciarla, in mezzo ad una
folla intera, se ne aveva voglia. Tuttavia con Shiro aveva scoperto
la bellezza delle parole – forse superflue agli atti, ma
fondamentali per fare da balsamo a vecchie ferite che ogni tanto
tornavano a spurgare. Lui, che di certezze non ne aveva mai avute
né
cercate, fu grato per quel fantasma di garanzia. Era segno che poteva
permettersi di pensare che nei successivi tre giorni quel ragazzo
sarebbe rimasto al suo fianco. Poteva permettersi di pensare che quei
portachiavi avrebbero tenuto delle chiavi – appartenenti solo
a
loro.
Fu grato ai paladini che fecero finta di niente, mentre si
voltava verso Shiro e sorrideva in modo improvvisamente impacciato,
un'espressione così inusuale per lui. Sorriso che era
specchio di
tutte le sue paure, di tutti i “no” che si
aspettava di ricevere
prima di un singolo, magro “sì”. Nella
sua vita, in fondo,
spesso era stato “no”. Era sempre stato Shiro, il
suo unico,
traballante, rotto “sì”.
(ti amo)
(ti amo anch'io)
Non detti e saputi. Voluti e temuti. Taciuti.
Keith gli
prese la mano. Mentre intrecciava le loro dita, la navetta dei
paladini lasciava il Castello dei Leoni.
***
4
mesi dopo,
Seoul, Corea del Sud – Distretto Jung
“--ith!”
In risposta Shiro ebbe solo un mugugno indistinto proveniente
dalla minuscola, caldissima e perfetta camera alle sue spalle.
“E'
domenica! Forza, muovi il culo, ché ho preparato la
colazione.”
O
quanto meno ci aveva provato, dato che i toast che tirò
fuori dal
tostapane erano quasi carbonizzati. Cominciò a spalmarli di
burro,
mentre fischiettava la sigla della serie originale di Star Trek.
“Maia mi ha lavato la faccia--” sentì
provenire da dietro di
sé, mentre una zavorra gli si appoggiava alla schiena e gli
circondava la vita con le braccia. Shiro nascose una risatina mentre
appoggiava il toast nel piatto e con una forchetta voltava le fettine
di bacon che sfrigolavano in padella.
“Dovrei offendermi dato
che sembri preferire i baci del nostro cane ai miei?”
E la
cucciola, bianca ed enorme, cominciò a zampettare
allegramente
intorno ai suoi due padroni, annusando l'aria per via dell'odore di
cibo di cui la stanza era pregna.
Avvertì Keith stringersi di
più contro di lui ed allungarsi sulle punte dei piedi. Shiro
si
voltò, stampando un bacio dolce e casto sulle labbra del
ragazzo. Si
soffermò anche sulla punta del naso, che sfiorò
delicatamente con
la sua, mentre osservava il coreano aprire gli occhi ancora pesti e
gonfi dal sonno interrotto un po' bruscamente.
“Ora siete
pari.” Soffiò il più giovane,
nascondendo nuovamente il viso tra
i pettorali ampi (e – per la misericordia di Dio –
nudi, dato che
quel capolavoro di ragazzo aveva cominciato a dormire con solo i
boxer nella loro nuova casa, essendo un po' asfissiante e senza aria
condizionata) di Shiro e sospirando a fondo il suo profumo. Il
più
grande allungò un pezzo di wurstel alla cucciola che aveva
continuato a uggiolare in cerca di attenzioni prima di affondare il
naso nella matassa che si era impossessata dei capelli di Keith.
“Quali sono i piani per oggi?” Sussurrò
Shiro, rapito nella
pigrizia del giorno festivo e nel calore del corpo del compagno.
“Anzitutto dobbiamo farci la barba, perché
sembriamo dei
senzatetto... da quanto non te la fai? Va be' – non fa nulla.
E poi
pensavo che potremmo ordinare d'asporto, portare fuori Maia, vederci
un paio di film e restare nudi sul divano e poi passare il resto
della giornata a scopare. Vorrei vederti addosso i vestiti giusto per
evitare una denuncia per atti osceni in luogo pubblico. Pensi di
poterlo fare, Shiro?” Gli aveva sussurrato con fare
provocatorio
Keith, lanciandogli un mezzo sorriso sornione.
Shiro aveva
deglutito, perché conosceva abbastanza quel ragazzo da
capire cosa
quell'espressione anticipasse.
“Be'... posso pensarci, a patto
che tu faccia altrettanto e che dopo la barba mi faccia tu da
colazione.” Disse il più grande – ed era
incomprensibile come
riuscisse a mantenere il massimo controllo anche nel promettere del
sesso. Osservò Keith ridere – evento
più unico che raro e che
Shiro si conservò gelosamente in fondo al cuore –
e poi venne
coinvolto in un bacio un po' caotico, caldo e confortevole ed
entrambi vi si crogiolarono senza ritegno. Era quello
quello
che avevano cercato senza mai trovarlo. Era il poter indugiare in una
carezza in più senza temere in ogni istante per la propria
vita. Era
il poter collezionare attimi e vederne il quadro completo a fine
giornata. Un po', di nascosto, si annoiavano di quell'improvvisa
normalità che avevano ottenuto, ma – entrambi non
sarebbero
tornati indietro per nulla al mondo.
“Hai dormito bene?”
aveva sussurrato poi Keith, sporgendosi fino a posare la fronte
contro quella di Shiro. Lui sbuffò un mezzo sorriso,
stringendosi
nelle spalle: no. Non dormiva mai, bene. La risposta era sempre
quella, alla solita domanda di ogni mattina. Eppure anche quella era
routine: il poter essere sinceri senza temere niente, il poter
svegliarsi nel bel mezzo della notte, sudati ed impauriti, e
stringere di più l'abbraccio sul corpo più
piccolo del compagno e
sapere di trovare comprensione, pazienza e conforto. Entrambi avevano
fantasmi che non se ne sarebbero mai andati, nonostante tutto. Erano
sopravvissuti e lo sarebbero sempre stati. Avevano demoni e sempre li
avrebbero avuti. Però ora mancava una cosa – ed
era quest'assenza
a farli andare avanti, in uno stato molto prossimo alla
felicità:
Shiro e Keith, grazie all'altro, non avevano più paura.
Walking_Disaster's corner:
Salve!
Nuova ship, nuova FF. Come al solito è strano infilarsi in
una
sezione nuova, in cui non hai messo piede prima, ma sono
moderatamente soddisfatta di questa FF. Probabilmente ne
scriverò
altre – sempre rigorosamente Sheith (oppure... un po' di
badwrong,
che non guasta mai *winkwink*).
Vi sarei grata se mi faceste sapere cosa ne pensate! Spero vi sia
piaciuta,
WD