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Autore: Once_Again    21/03/2017    1 recensioni
Sægärth, la Terra ad Est, un continente stracciato da secoli di soprusi e malefatti ad operta dei potenti; un continente destinato a sparire.
Il caos domina le sue terre, con governatori che abusano dei propri poteri, nobili che nelle loro case soccombono alla morte misteriosamente e senzatetto che popolano le strade e ricorrono a scorribande per vivere da un giorno all'altro.
Da questo caos emerge lei, la figlia di un ignoto profeta, che dopo secoli di duro addestramento si accinge a salvare la terra natia, ritrovandosi a dover combattere contro la propria famiglia e le lande che l'avevano a lungo ospitata.
In questo mondo, in mezzo a questa tempesta, Shalila raggiungerà finalmente la consapevolezza della vera amicizia, della fedeltà, dellamore e del sacrificio.
Ma, sopratutto, imparerà che l'eredità di suo padre non è cio che sembra.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I
Darsi alla pazza gioia





《Scriba Hannet》, disse una voce avvicinandosi da oltre l'angolo del balcone. L'uomo al quale tale voce apparteneva, con una piccola genuflessione professò un breve inchino, dopodichè, alzatosi e raddrizzate le spalle, continuò. 《Il consiglio ha stabilito la sentenza. Permettetemi di…》 disse questi mentre si voltava e prendeva dalle mani del suo accompagnatore una pergamena, che srotolò e avvicinò agli occhi, 《permettetemi di comunicarvi personalmente la loro conclusione》.
Qui il corriere si schiarì la gola un paio di volte e riprese, con tono grave:

– Nel giorno dieci e quattro della ottava luna dell'anno del mago Humaşakh, Noi, il Supremo Consiglio di Sua Signoria Osfan D'Oubli, ci siamo radunati già dal giorno che precede per una importantissima questione: la dimissione dello scriba Hannet.
Lo scriba Hannet, venuto in Consiglio il dì venti e sette della quarta luna dell'anno del mago Jonah, nella data sovra indicata ha dichiarato la fine del suo mandato. A questo proposito sono state condotte varie inchieste circa gli incassi del periodo di mandato dello scriba Hannet. Come materiale utilizzato per le indagini si enumerano: fonti orali di teste, annali e cronache della Città del Porto, dichiarazioni scritte ed orali delle orecchie del re. In seguito a queste indagini, sono state rilevate le seguenti accuse: frode nei confronti dello stato, frode nei confronti della Città del Porto e della regione dei Galvani, alle quali si aggiungono l'accusa di malasanità e traffico di persone.
In conformità con le quattordici tavole, il Supremo Consiglio ha decretato la sentenza dettata dalla quarta tavola, secondo paragrafo, terzo punto: l'esilio con successiva pena capitale nella Sardahia. Tale decisione entrerà in vigore dal momento in cui l'accusato ne verrà a conoscenza.
I dettagli circa l'espatrio saranno concordati con il querelato a data da destinarsi.

A Sua Signoria Osfan D'Oubli,
mago Gulgaşan–


Il portalettere si schiarì ancora una volta la gola e ripiegò la pergamena che porse all'accompagnatore. Questi a sua volta la inserì nell'apposito contenitore e si voltò per andare via.
Anche il messaggero si apprestò ad andarsene, inchinandosi un'ultima volta dinanzi allo scriba ed entrando di corsa nel palazzo.

Hannet stette per lunghi istanti lì, immobile nel mezzo del balcone, il volto abbassato e gli occhi fissi sulle punte degli stivali. Le braccia erano tese lungo i fianchi e le mani erano strette a pugno con tanta forza da fargli sbiancare le nocche.
Digrignò i denti con un rumore acuto e d'un tratto esplose, non potendo più contenere la rabbia che gli ribolliva nelle vene ed il cuore che batteva nel petto con prepotenza.

Un ruggito selvaggio, animalesco, proruppe dalle sue labbra sottili e le sue mani corsero ad afferrare e scagliare qualunque oggetto gli stesse davanti agli occhi. Si mosse per tutta l'area del balcone, aggrappandosi a ringhiere e colonne, scalciando, dimendando i pugni all'aria, incendiando con le torce le tende di seta e nel frattempo urlando frustrato.
A chiunque si fosse azzardato di fare capolino oltre gli angoli, i colonnati oppure fuori dalle finestre, lui gridava e mandava contro bestemmie e minacce talmente terribili e dettagliate da non poter essere riprodotte.

Proseguì in tale modo per ore, finchè il sole calò e tutto divenne dello stesso colore. Diede in escandescenze, smaniò per la stanza e fuori da essa e aggredì tanti abitanti del palazzo; tanto che lo dovettero portare di peso nelle segrete e vi fu bisogno di sette uomini forti per poterlo contenere e rinchiudere dietro il vetro della prigione, dove continuò il suo spettacolo, turbando gli animi degli altri imprigionati.

Non a caso lo chiamavo Hannet il Pazzo.


La luna aveva ceduto il posto al sole e la notte al giorno; così si susseguirono il giorno e la notte per tre volte, finchè una guardia inserì la chiave nella serratura, la girò per quattro volte ed infine aprì la porta con uno sinistro cigolio.
Tenne fissa la mano sulla maniglia e fece un cenno con la sinistra ai compagni che gli stavano dietro di tenere pronte le armi.
Questi si misero in posizione e lui spalancò la porta entrandovi.

Lo stretto cubicolo, occupato dal solo letto ed un secchio per… non ha senso precisare per che cosa, si capisce da sè, era sprofondato nella semioscurità, l'unica fonte di luce un timido raggio di sole che andava a colpire una piastrella al centro della prigione.

La sentinella entrò e con una torcia passatagli da uno dei compagni, guardò a manca e a destra, ma di Hannet il Pazzo nessuna traccia, neanche l'ombra.
Questi corrugò la fronte, unì le sopracciglia e assotigliò le labbra, girandosi verso i camerati.
《Dov'è quella canaglia? Fanne!》 disse la guardia, alzando un braccio e puntando l'indice contro l'appellato. Questi si scosse dal pensiero che gli turbava la mente e alzò gli occhi da terra, puntandoli sul capitano. Sbiancò ed incominciò a sudare copiosamente, un sudore freddo che gli scendeva lungo la schiena e gli provocava violenti tremiti. Fanne congiunse le mani e le strinse tra di loro con forza per rendere il meno visibile possibile il tremore, dopodichè, all'ennesimo richiamo della guardia, rispose con voce che preannunciava uno scoppio di lacrime irrefrenabile:
《M-mio signore… vi prego… non… v-voglio dire…》 il sorvegliatore inspirò a fondo, dilatando la cassa toracica e costringendo l'aria ad entrarvi. Mandò fuori il respiro e chiuse gli occhi, le palpebre tremolanti. Infine riprese con un tono che voleva dirsi più pacato:
《S-signore… io... io il mio dovere l'ho svolto. Sono stato dì e notte a guardia di quel pezzo di… insomma, avete capito. Non l'ho mai abbandonato e persino quando sono andato ai bagni mi sono assicurato che ci fosse qualcheduno di guardia. Con tutto il rispetto, non sono responsabile se la bestia è fuggita.》
《Basta!》 gridò con voce soffocata il generale, muovendo con stizza le braccia lungo il corpo.

Si girò un'ultima volta per assicurarsi di vedere bene, dopodichè, impartiti gli ordini circa la conseguente ricerca del fuggiasco, si accinse ad uscire.
《Signor' generale!》 lo fermò la voce di uno degli accompagnatori. 《So che non è una cosa che mi riguardi ma… avete guardato in alto?》
《In alto?》 chiese allibito l'uomo, seguendo il gesto della mano del camerata. E fu proprio in quel momento, quando alzò il capo e puntò gli occhi sulle travi di legno, che vide tra di esse il corpo di Hannet il Pazzo, con quegli occhi infuocati che lo guardavano stralunati. Le pupille sembravano danzargli e le labbra si dischiusero a poco a poco, rivelando dei denti aguzzi da carnivoro.
Rise come uno sciacallo ed in men che non si dica, prima che il generale avesse potuto dire alcunchè oppure che i soldati si muovessero, la bestia fu calata con tutto il suo peso sull'uomo sotto le travi, uccidendolo di colpo.

Impauriti ed orripilati, i soldati se la diedero a gambe levate, chi scappando di qua, chi di là. Le porte della prigione si chiudevano con tonfi sordi, come per non disturbare gli incarcerati già inferociti, e le guardie proseguivano la loro fuga annunciando a chiunque incontrassero di salvarsi la pelle. Mentre il caos dominava tutto ciò che si trovava al di fuori delle prigioni, lo scriba Hannet tirò la salma del generale in un angolo buio della cella, rintanandovisi anche lui.





Le posate picchiettavano fastidiosamente contro i piatti di porcellana e il rumore del vino versato nei bicchieri di cristallo le graffiava le orecchie. L'intero tavolo di mogano era imbandito di varie cibarie e l'odore di carni, formaggi, brodi si mescolava a quello dei dolci appena sfornati in un vortice nauseabondo, riempiendo il piccolo salotto.
E certamente il calore del fuoco acceso nel camino non aiutava a dissipare quei profumi tanto sgradevoli a Shalila.
L'intera situazione le stava nella gola come un magone: i servi che dietro le loro sedie aspettavano che finissero i primi piatti, fissando gli sguardi sulle loro nuche come felini pronti a saltare sulle gazzelle, i domestici che facevano il loro ingresso con le portate e professavano inchini pomposi e parlavano con voci stridule ed espressioni come《Madama, a Voi》,《Signorina Léverïn》,《Signorini, che cosa desiderate questa sera?》
E come se quegli schiavi di sua madre non bastassero, a loro, che erano la panna, si aggiungeva la cigliegina sulla torta: la sua cosidetta famiglia.
Dalla estremità del tavolo la sua vista spaziava sul piccolo salotto; suo fratello, il maggiore dei quattro figli di suo padre, si stava ingozzando selvaggiamente di fagiano e budino; gli altri suoi fratelli mangiavano con il minimo di decenza richiesto dal loro statuto sociale, non senza giocherellare con il cibo e sporcarsi. Perfino sua madre e sua sorella minore sembravano non curarsi della situazione nella quale si trovavano, sembrava non importasse loro alcunchè di ciò che sarebbe seguito alla morte di suo padre.
Tutti continuavano a conversare allegramente, versando quintali e quintali di vino nei delicati bicchieri di cristallo, macchiando la tovaglia una volta candida, adesso sporca di grasso.

Ma come potevano essere felici? Come potevano anche permettersi di rallegrarsi quando al sorgere del sole suo padre sarebbe stato costretto a salire su una carrozza e portato nella regione più pericolosa del continente?
Erano veramente tanto ignoranti da non dare il minimo peso alle conseguenze che questa morte avrebbe significato per loro? Per lei?

Sua madre veramente non temeva che, una volta saputa la morte di Hannet il Pazzo, avrebbe seguito suo padre nella tomba solo perchè era sua figlia e doveva ereditare i suoi averi?
Così poco si interessavano di lei?

Questo era qualcosa che superava il suo limite intellettuale e le dava un mal di testa talmente forte che, poggiati con delicatezza forchetta e coltello, e alzatasi dalla sedia imbottita che scricchilò sul pavimento di legno, chiese il permesso di ritirarsi e scappò nei propri appartamenti come se le dessero la caccia.



Con gli occhi bagnati dalle lacrime salaci, chiuse la porta dietro di sè e vi poggiò la schiena, lasciandosi scivolare a terra. Come potevano? Come potevano disinteressarsi delle faccende di famiglia? Le lacrime continuavano la loro disceca lungo le sue guance pallide, gocciolando dalla punta del naso sugli stivalli di camoscio. Alzò le ginocchia al petto e le circondò con le braccia, poggiandovi la fronte.
《Perchè? Perchè, papà? Perchè noi dobbiamo soffrire soli, senza che nessuno si interessi di noi? Perchè, papà mio caro, qual è la mia colpa?》

Continuò a piangere, soffrire e crucciarsi nel proprio dolore per un tempo che non seppe ben definire. Quando rialzò gli occhi dal grembo s'avvide però che le tenebre avevano reclamato il monopolio sulla Città del Porto e che le lampade delle strade giacevano accese, imitando la luce naturale.
Si asciugò le lacrime con il dosso della mano e si rialzò, andando verso il letto e tirando da sotto di esso un borsello di cuoio. Vi mise dentro ciò di cui pensava che necessitasse durante la sua assenza, legò in vita la spada regalatale dal fratello e per ultimo prese tra le mani sottili e affusolate il grande tomo che suo padre aveva custodito con egoismo; tomo che lei avrebbe, a sua volta, guardato come la cosa più preziosa che ci fosse.

"Devi essere pronta a morire per questo libro, Shalila. Ricordatelo! Qui dentro" le disse una volta suo padre, battendo il dito sulla coperta "sono scritte le formule che pochi conoscono ancora, formule capaci di sterminare qualunque essere vivente sul raggio di miglia e miglia. Fai attenzione" le disse, mettendole la mano sulla spalla esile, stringendola con una forza che la fece quasi piegare su sè stessa "e non lasciare, a nessun costo, che questo volume cada tra le mani sbagliate. Proteggilo a costo della tua vita! Mi fido di te!" le disse ancora suo padre, chinandosi e posandole un dolce bacio sul capo proprio il giorno in cui andò via dal palazzo.
Sì… sapeva quello che sarebbe successo quando avrebbe messo i piedi oltre la soglia della casa.

Shalila calò le palpebre sugli occhi ambrati e lasciò che le ultime lacrime scorressero lungo i solchi già tracciati.
Strinse infine i pugni e accarezzò un'ultima volta la coperta prima di metterla nella sacca; una coperta rigida, di pelle nera come l'ebano, nella quale vi erano incrostate quattro gemme ai quattro angoli ed al centro, la stella. Splendente smeraldo incastonato in una figura con sette punte, e sopra di essa vi si potevano leggere le seguenti lettere:

P.H.P.L.F.(il Profeta Hannet il Pazzo Lascia alla Figlia)

Una lacrima solitaria cadde dal mento di Shalila, finendo sul smeraldo che assorbì l'acqua con un sibillo e splendette per pochi istanti, illuminando la stanza.


《Madre, sicura che Lila stia bene? Sono giorni dacchè mi preoccupa il suo stato.》
La voce proveniva dal fondo del corridoio. Shalila, alzandosi in piedi, volse il capo verso la porta come se potesse penetrare il legno e spinse sotto il letto la sacca.
《Non ti preoccupare, Mýrtas, penso sia soltanto la preoccupazione per suo padre. Lei ci tiene tanto; la sai, la storiella del cucciolo abbandonato?》
C'era anche sua madre quindi; ed i loro passi sembravano procedere verso la sua stanza. Restò in piedi, al centro della camera da letto, attenta e con le orecchie ritte a sentire il minimo rumore.

Lo schricchiolito delle travi di legno si fece più vicino così come le voci di suo madre e di suo fratello fino a che non si sentì più nulla. Allora Shalila sospirò, pensando di essere scampata al pericolo.
Si sbagliava però.
Non appena si fu chinata per riprendere la borsa, la maniglia della porta prese a girare finchè divenne un movimento vano e frenetico. Sua madre incominciò a spingere contro la porta e accompagnò quei gesti con la propria voce.
《Lila! Apri la porta! Lila!》

Il cuore della giovane partì al galoppo, nelle orecchie risuonava il sangue che scorreva nelle vene, il cuore che martellava contro il torace.
I palmi presero a sudare e a pizzicarle, così l'intero volto e sulla schiena le scorrevano piccole strisce di sudore.

Una ventata entrò dalla finestra e si fece strada tra le tende di seta fino alla pelle lasciata scoperta dalla sua tunica.
Tremò.

《Lila!》
All'ennesimo richiamo di sua madre andò ad aprire e per poco non finirono entrambe sul pavimento, a causa della spinta di sua madre.
《Lila!》 disse ella con il fiato corto, il petto che si alzava e abbassava e gli occhi sbarrati; quella venuzza alla tempia che si dilatava quando suo padre la faceva arrabbiare, adesso Shalila pensò stesse per scoppiare e, da buona figlia, le si avvicinò con cautela, la prese per il braccio e la condusse sul divanetto.
《Mamma, scusami…》le disse porgendole il bicchiere d'acqua《non intenzionavo spaventarti ma… sai che i miei fratelli tendono a giocare qualche scherzetto a tutti noi… e non desideravo che entrassero nelle mie stanze quando mi preparavo per il bagno》.
《Sì, hai ragione, Lila》rispose sua madre, protendendo la mano per afferrare quella della figlia e stringerla con forza.
Shalila abbassò il capo sulle dita sottili e affusolate, proprio cime le sue, di sua madre e rialzò lo sgurado, puntandolo nel suo, quando la sentì reprimere un singhiozzo.《Non voglio, mia cara Lila,》disse sua madre, interrompendo il silenzio che si era creato tra di loro, toccandole con il palmo la guancia, che lei poggiò nella mano di sua madre, come ad affidare la sua stessa vita a lei《non volevo che soffrissi a tal punto. Sapevo che presto o tardi la morte di tuo padre sarebbe sopraggiunta per le tante colpe che ha. Non interrompermi, Shalila.》la apostrofò la donna quando vide le labbra della figlia distanziarsi l'una dall'altra《Non desideravo, invece, che le sue colpe si riflettessero su di te, non avrei mai desiderato, per nessuno di voi, che foste messi nella situazione nella quale tu, adesso, ti ritrovi. Dover scappare lontano dalla tua famiglia, abbandonare la tua casa e la tua terra solo perchè tuo padre ha fatto quello che ha fatto…》la nobildonna sospirò e chinò il capo, sfuggendo allo sguardo incriminatorio di sua figlia.
《Tu non capisci. Tu credi tuttora che papà abbia fatto quelle cose delle quali è stato accusato, non è vero?》
《Sei tu a non capire, Shalila; sei tu a non voler vedere ciò che succede dinanzi i tuoi occhi: tuo padre è pazzo! Lui non è più consapevole di quello che fa ed il suo operato ne è la dimostrazione. Capiscimi, una volta per tutte》.
《Non posso comprenderti, mamma, senza vivere ciò che tu hai vissuto. E credimi, non desidero una vita come la tua》.
A quelle parole Shalila si alzò e rientrò nella propria stanza. Indossò gli stivali e tirò da sotto il letto la sacca; legò in vita la spada e prese la catenina regalatale da suo padre, nascondendola in una delle pieghe della camicia.
《Una cosa è certa. Che papà viva o muoia, che io abbia una vita come la tua o meno, io, questa notte, sono costretta a rinunciare alla vita che ho condotto in favore di un'esistenza spericolata》.
《Lila…》disse la donna con un mormorio alle sue spalle, reprimendo a stento le lacrime. 《Perdonami, perdonami tanto. Ma con il passare del tempo capirai tante mie scelte e comprenderai anche il perchè della tua fuga, credimi. Fidati》.

Tra Shalila e sua madre non aveva mai corso buon sangue. Ogni volta che avevano l'occasione, si faccevano le vite infernali. Nonostante ciò… sentire la voce spezzata di sua madre, quel mormorio straziato che le sopraggiungeva debole, fioco come non mai… quella disperazione di essere compresi… le suonava tutto così famigliare che non potè non sentirsi legata a quella donna che per anni aveva ritenuto una vipera.
Una lacrima riprese a scorrere, solitaria, lunga la guancia, seguita da altre, innumerevoli lacrime.
Tirò su col naso e, dando lo stesso le spalle a quella donna che da straniera era divenuta l'unica in grado di infonderle coraggio e forza, si portò una mano agli occhi e li strofinò con forza, arrossandoli.

Fu il tocco di sua madre a farla girare, i suoi occhi imploranti a farla piegare fino a circondarla con le braccia, le sue parole a farla dire per una volta, forse l'ultima, 《Ti amo, mamma》.
Non sapeva se avrebbe fatto ritorno a quella casa nè le importava più. Tutto ciò che le stava a cuore era fuggire, tentare di scappare, nascondersi e lottare per proteggere sè stessa e sua madre.
Avrebbe fatto di tutto per la sua famiglia.

《Non credere che le mie risate sgorghino dal cuore, non credere alle apparenze, mai, Lila mia! Fidati di me, una volta per tutte!》le disse sua madre, quando si aprì la porta e sgusciò furtiva nelle ombre della notte. Le era stato proposto di dire addio ai suoi fratelli ma sapeva che non avrebbe retto una simile separazione. Per quanto fossero insopportabili, altrettanto le erano cari.

Così si divise dalla sua famiglia, si ruppe come un foglio a metà, una parte con la famiglia e l'altra con sè stessa; adesso era sola e tutti erano contro di lei, perfino la natura.





Aveva deciso, una volta arrivata ad una biforcazione della strada maestra, di proseguire per la foresta, poco desiderosa di incontrare chiunque ed intrattenersi in chiacchere sconfortevoli.

Si sistemò meglio la sacca sulla spalla, volse lo sguardo a sinistra e a destra per assicurarsi che nessuno la stesse seguendo -o che almeno non fosse in vista-, dopodichè si inoltrò nella fitta foresta di querce e cedri.

Aveva a malapena percorso un centinaio di metri, quando, nel bel mezzo della foresta, alle sue orecchie arrivò uno scricchiolio ed un frusciare, come se più persone corressero nel bosco.
《Eccola, Hunni!》

Quella voce. Quella voce stridula, profonda e gracchiante come una serratura rotta si innalzò nell'aria stantia della foresta, si congiunse all'alito umido del vento e le inondò le orecchie, tappandole.

Simile ad una cerva dinanzi al leone, Shalila divaricò le gambe, innalzò il meno alla coronda di foglie e annusò l'aria.
Est. La voce proveniva da est.

Girò su sè stessa e, intravedendo tra i tronchi un lucicchio, con un saltello si lanciò in una fuga frenetica contro i suoi inseguitori.



Stava correndo.
Era passato oramai tanto tempo dacché aveva iniziato a correre; aveva perso la cognizione del tempo e le pareva di stare correndo da giorni, settimane, mesi. Invece, Aster e Lena si erano inseguiti l'un l'altra una sola, unica, volta.

Stava correndo.
Correva a perdifiato, il petto che si dilatava e contraeva irregolarmente, la fresca aria che le pizzicava le narici, il dolore bruciante dei muscoli delle gambe che si contraevano, del collo sottoposto a feroci torsioni alla ricerca del nemico.

'Ce la fai, ce la fai' ripeteva tra sè e sè, chinando la testa per fare attenzione a dove avrebbe posato i piedi scalzi.

Calpestava ramoscelli e scivolava sul terreno fangoso. Cadeva, si rialzava e continuava la sua corsa frenetica. Si imbatteva in alberi dalla corteccia ruvida e lì lasciava come segno del suo passaggio tracce di tessuto.

I cani da caccia ululavano e lo scalpitio degli zoccoli sul selciato ricoperto da fogliame sembrava farsi sempre più vicino.
Rigirò la testa e si fermò per pochi attimi dalla corsa.
Il respiro era affannato, il seno le si dilatava e contraeva, la gola le ardeva ed il cuore palpitava.

《Prendetela! Hunni, prendetela!》
Il grido selvaggio del capo di quegli scagnozzi le perforò i timpani come quel tanto fastidioso clangore di acciaio che schiaccia altro acciaio e si dovette alzare le mani a coprire le orecchie, nella folle speranza di non sentire più quella voce.
Un fischio, seguito da un sibillo, fece ammutolire le belve e perfino il tempo sembrò ubbidire a quel breve richiamo: il vento smise di alitare tra le brune chiome degli alberi; le foglie non frusciarono più ed i rami avevano smesso di percuotersi.

Si fermò.
Si fermò, le mani lontane dal corpo, aperte e con le dita ricurve simili ad artigli; il respiro veloce, le orecchie che si muovevano a seconda del rumore della natura e gli occhi che correvano a manca e ĺpp destra, seguiti dalla testa.

Annusò l'aria con quella maestria tipica dei muta-pelle.

Chiuse gli occhi, le iridi marroni cosparse di piccole stelle gialle velate dalle palpebre. 《Hunni! Eccola lì!》
Il grido proveniva da nordest, ad un centinaio di metri da lei.
Come la Cerva che era, aspettò fino all'ultimo momento l'avvicinarsi dei cacciatori, le loro slitte trainate da cani e le guardie a cavallo.

Il sangue le ribolliva nella vene e le orecchie si tapparono: nessun suono vi penetrava.
Sentiva, però, il cuore palpitare contro il torace, la mente contorcersi alla ricerca di una via di fuga, gli occhi girare nei loro incastri in cerca di una strada tra quei fitti e possenti tronchi.

Eccoli!
Da oltre il tronco abbattuto di una quercia sbucò uno stallone bianco come la neve ed in groppa a lui il cacciatore con l'arco teso e la freccia incoccata. A ruota lo seguirono gli altri suoi compagni, spade e lance e balestre alzate al cielo e baciate dai timidi raggi del sole.

Il tempo ricominciò a scorrere, non più fluido come un fiume, bensì veloce ed impetuoso come una cascata che scroscia dalle cime della montagna; frecce scoccarono dagli archi tesi, traversarono l'aria con un sinistro sibillo e si conficcarono a raffica nei tronchi degli alberi.
Quelli erano i cacciatori e lei era la preda. Se non avesse cominciato a scappare, sarebbe diventata il loro pasto.

Correva. Ancora, con più forza, con più paura, con più terrore.
Le gambe le dolevano, i muscoli urlavano, i polmoni ansimavano e la testa esplodeva. Gli occhi ardevano, le orecchie sbuffavano e la vista s'andava offuscando.

Eccola lì, immersa corpo e anima nella foresta, immersa in quella caccia selvaggia, correndo alla cieca, le mani protese in avanti a strusciare sulle cortecce degli alberi.
I palmi sanguinavano e lei si sentiva sempre più sfinita. Tanto sfinita, al limite delle forze.


Si fermò di colpo, le frecce che penetravano l'aria intorno a lei, le grida che la assordavano.
Calò le palpebre su quelle iridi violette e si accasciò a terra, le ginocchia strette al petto, il capo tra le braccia.

《Hunni! Veloci!》
Le grida si facevano sempre più vicine però lei aveva sonno.
Strinse il libro di suo padre al petto e si abbandonò alla sorte.
"Se è questo ciò che la Madre ha voluto per me, allora sia".

Un paio di stivali si fermò accanto al suo volto, una mano si tese verso di lei e delle dita ruvide le carezzarono la pelle setosa. Non sapeva chi fosse, non aveva la minima idea nelle cui mani fosse caduta; unna cosa era certa: aveva sonno, tanto sonno, e quella mano calda e stranamente rassicurante la invitava a lasciarsi andare.

Dalle labbra socchiuse uscì un breve sospiro e con un tocco sul capo sprofondò nel mondo delle ombre.



Angolino autrice


Saaaalve a tutti ! Eccomi qui con la prima fanfiction, ma non per la prima volta (lo so, suona strano e contorto) in questa categoria.
Avevo tutto un discorsetto pronto ma, per l'emozione (?), ho leggermente dimenticato ciò che volevo dire. Per questo non posso fare altro che augurarvi "buona lettura" e sperare mi scusiate per eventuali errori di ortografia e morfosintassi… l'ora non è una delle migliori per scrivere e/o pubblicare.
Ma… bando alla ciance!
Vi aspetto al prossimo aggiornamento (che non vi garantisco avverrà così presto come lo vorrei).
   
 
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