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Autore: Adeia Di Elferas    22/03/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina aprì faticosamente gli occhi e la luce del sole settembrino che entrava dalla finestra la rese cieca per qualche istante.

Sentì la voce inconfondibile di sua madre dire: “Si sta riprendendo... Grazie a Dio...” e subito dopo percepì anche quella del medico di corte che borbottava qualcosa, apparentemente molto contrariato per qualcosa.

Combattendo contro un fortissimo mal di testa e un altrettanto opprimente senso di costrizione al petto, la Contessa strizzò le palpebre e cercò di mettere a fuoco: “Che cosa è successo?” chiese, mentre la madre quasi la costringeva a bere un po' d'acqua, che scese per la sua gola secca come un elisir.

Non ricordava molto di quello che era accaduto prima di perdere conoscenza. Era tutto un confuso insieme di immagini e sensazioni a cui non sapeva ancora dare un senso logico. Sapeva solo di essere stata male, ma quanto tempo fosse passato o cosa le fosse capitato di preciso erano dei misteri insondabili, per la sua coscienza.

L'unica certezza che aveva, era il peso che le schiacciava l'anima.

A differenza di quando si era risvegliata la prima volta dopo la morte di Giacomo, una mattina dopo una notte di sonno, questa volta non aveva potuto godere nemmeno dei primi istanti di ingenuo obnubilamento, durante i quali le disgrazie spesso passano sotto silenzio.

Appena aveva schiuse gli occhi, spietata e palpabile, era arrivata subito la consapevolezza che l'uomo che amava non c'era più e che lei era rimasta sola.

“Potresti avere avuto un attacco di malaria – iniziò a dire Lucrezia, afferrandole una mano con materna solerzia – anche se è durato più del normale... Sono già quasi cinque giorni che temiamo per la tua vita... Ti abbiamo dato gocce di latte e miele, ma se non ti fossi svegliata, saresti morta, questa volta...”

“Per forza.” commentò il medico a denti stretti, allacciandosi le braccia sul petto: “Non mangiava da troppo tempo e tutte quelle misture che si fa da sola nel suo laboratorio non sono certo un toccasana!”

Caterina trasse un profondo respiro e quando espirò tossì con tanta violenza da provare un dolore trafittivo in tutto il torace.

Quando riuscì a parlare, disse con fermezza al dottore: “Vi ringrazio per i vostri servigi, ma per ora non mi servite più.”

“Non siete ancora del tutto in salute, mia signora...” la contraddisse il medico, avvicinandosi al letto e guardandola con occhio critico: “Potreste avere una ricaduta e comunque vi serve qualcuno che...”

“Non mi serve nessuno!” sbottò la donna, con tanta veemenza da sconcertare il dottore e far ritrarre la madre.

“Non fare così, Caterina.” la rimproverò Lucrezia.

In tutta risposta, la Contessa voltò il viso dall'altra parte e dichiarò, dovendo però ammettere con se stessa di essere ancora realmente stremata per via della febbre alta che doveva averla lasciata solo da poco: “Fate venire qui il Tommaso. Ho ordini importanti da dargli.”

Lucrezia si morse il labbro: “Tommaso è tornato a Imola.”

“Dunque è andato davvero...” sussurrò tra sé la Contessa, ricordandosi all'improvviso del loro ultimo scambio di battute.

La madre posò i suoi occhi color del ghiaccio sulla figlia, e la trovò estremamente fragile. Ci aveva messo giorni per capirlo e accettarlo, ma alla fine aveva compreso in parte il motivo del modo schivo e cruento con cui Caterina aveva rifiutato le mani tese da lei e dal povero Tommaso.

Come aveva fatto cento volte, anche in modo meno serio, quando era molto piccola, anche ora stava semplicemente testando – forse involontariamente – la resistenza del legame tra sé e chi considerava a lei più vicino.

Tommaso, ripartendo per Imola, le aveva dimostrato di non essere abbastanza legato a lei per sopportarla fino in fondo, ma Lucrezia non aveva intenzione di cedere.

“Allora portatemi qui il castellano, parlerò con lui.” si risolse la Contessa.

“Devi riposare.” rimbeccò Lucrezia, con minor determinazione, ma sempre decisa a restarle vicina.

“Devo fare quello che ci si aspetta da me.” ribatté in tono secco Caterina.

Il medico, a quelle parole, allargò le braccia, come a dire che lui ci aveva provato, e anche Lucrezia si spoetizzò in fretta, assicurando alla figlia che Cesare Feo sarebbe stato nella stanza nel giro di un minuto.

 

“Le hanno rotto il suo giocattolo preferito. Che si aspettavano? Un applauso?!” chiese retorico Alessandro VI, accigliato e contrariato.

Da quando in Vaticano erano giunte notizie più sicure circa quello che stava accadendo nelle terre della Sforza, il papa era diventato intrattabile. La verità era che nemmeno lui sapeva che pesci prendere, quella volta.

La sua indole iraconda gli suggeriva di dimenticare ogni legame con la Tigre e con suo figlio Ottaviano e sollevare i Riario in toto dal loro compito, scegliendo qualcun altro, qualcuno più malleabile e meno imprevedibile, da mettere al loro posto.

La sua mente razionale, però, gli imponeva di valutare prima tutti gli scenari possibili e di scegliere con cognizione di causa quello più vantaggioso per la sua famiglia e per Santa Madre Chiesa.

Di certo, infatti, la Tigre – o meglio, la Leonessa di Romagna, come la chiamavano ormai tutti nelle missive – non avrebbe accettato in modo pacifico la decisione pontificia di destituirla.

“Allora! Si può sapere quando arriva quel maledetto Sansoni Riario?!” sbottò Rodrigo, alzandosi dal suo scranno e sorbendosi le occhiate contrariate dei prelati presenti.

Raffaele, come se fosse stato evocato dal grido del papa, comparve proprio in quell'istante sulla porta e si fece avanti con passo calibrato ed espressione truce.

“Vostra cugina ha combinato un bel disastro.” iniziò il Borja, senza neppure scambiare mezza frase di cordialità con il Cardinale Sansoni Riario: “E lo stesso si può dire di suo figlio. Ma è vero che lo tiene in isolamento, ma non in cella?”

Raffaele annuì, le labbra serrate e la testa bassa. Non aveva potuto credere a quello che si era scatenato in Forlì alla morte di Giacomo Feo. Tanto meno poteva accettare con disinvoltura il fatto che Don Domenico fosse stato ammazzato come un cane, o che Pavagliotta, suo amico come il primo, fosse relegato in una prigione in attesa di essere giustiziato.

Nel suo intento, Raffaele aveva agito per il bene. Si era lasciato convincere da Ottaviano e non aveva avuto il coraggio di indagare in prima persona sulla validità delle accuse mosse dal giovane Conte. Dunque non poteva incolpare nessun altro, se ormai aveva perso il sonno e temeva di veder arrivare guardie della Leonessa alla sua porta da un momento all'altro.

Malgrado questa consapevolezza, però, il Cardinale non riusciva a non provare un profondo risentimento nei confronti dei congiurati, pensando che avrebbero anche potuto evitare di tirarlo in mezzo.

Rodrigo ragionò in fretta, ma con efficienza. Prima pensò di intimare alla Contessa di liberare il figlio e di permettergli di mantenere il potere. In fondo, Ottaviano sembrava un ragazzino spaventato e basta. Con le persone giuste a tenerlo buono, sarebbe stato una pedina come altre. E in più, così facendo, il papa avrebbe probabilmente scongiurato l'ipotesi di vedersi arrivare a Roma gli sgherri della Sforza in cerca di presunti congiurati rifugiatisi in Vaticano. Poi si rese conto che non sarebbe mai riuscito a far piegare la testa a quella maledetta donna. Dunque non gli restava che contrattare.

“Cosa intendete fare con vostro cugino, il giovane Cesare?” chiese il papa, alzando un sopracciglio.

Le sue spie avevano intercettato una lettera del cancelliere della Leonessa di Romagna che specificava come, in qualità di primo misero risarcimento per la morte del Barone Feo, il Cardinale Sansoni Riario avrebbe dovuto provvedere in toto al cuginetto Cesare, almeno fino alla sua maggiore età, sempre che per allora avesse trovato un modo per guadagnarsi da solo il pane.

Il Cardinale si schiarì la voce e poi rispose: “Gli lascerò il mio Arcivescovato di Pisa. Gli darà una buona rendita e una posizione. Io ho già abbastanza cariche per poter sopravvivere bene.”

Alessandro VI annuì, trovando la cosa ragionevole, tuttavia domandò: “Quanti anni ha, però?”

Raffaele fece un rapido calcolo: “Ne ha compiti da poco quindici.”

“Allora potrà prendere effettivo possesso dell'Arcivescovato solo tra quattro anni.” decretò il papa, più per dimostrare di avere il coltello dalla parte del manico, che non perché facesse davvero una qualche differenza: “Nel frattempo potrete foraggiarlo come vi pare. Tanto il mio problema non è lui.”

Raffaele ringraziò con un inchino e poi rimase in attesa di altre disposizioni.

Rodrigo, invece, si trovò di nuovo impelagato nei suoi ragionamenti e concluse che non era ancora tempo di prendere decisioni.

Per quel che conosceva sulla Leonessa, era probabile che alla fine quella strana donna cambiasse idea e uccidesse il figlio come tutti avevano pensato che avrebbe fatto subito. Magari, mentre lui parlava con il Cardinale Sansoni Riario, Ottaviano Riario era già morto.

“Per il momento è tutto...” fece Alessandro VI, meditabondo: “Ora devo sbrigare della corrispondenza.” aggiunse, ricordandosi solo in quel momento di un altro pernicioso problema.

L'aveva in programma da giorni, ma poi gli eventi di Forlì l'avevano distratto. Ora, però, non poteva più attendere. Doveva a tutti i costi redigere e spedire una breve a Savonarola, sospendendolo per eresia e false profezie, demandando il giudizio al Vicario Generale della Congregazione Lombarda, il frate Sebastiano Maggi.

Conoscendosi, ci avrebbe messo tutto il giorno e forse anche il giorno appresso per ritenersi soddisfatto del suo scritto, dunque era bene mettersi all'opera in fretta.

A Dio piacendo, qualcuno avrebbe fatto il lavoro sporco al posto suo e almeno il domenicano che stava infestando l'aria di Firenze sarebbe stato un capitolo chiuso.

“State all'occhio, Cardinale.” concluse Rodrigo, mentre Raffaele si congedava: “Se verrò a sapere di disordini o incidenti qui a Roma per colpa vostra, non esiterò a prendere provvedimenti. Non contate sulla mia protezione più di tanto, chiaro? Ottaviano sarà anche il mio figlioccio, ma la legge in questo caso è dalla parte di sua madre.”

Deglutendo a fatica, il Cardinale Sansoni Riario lasciò la sala delle udienze, inciampando nel suo vestone un paio di volte prima di raggiungere la porta.

“E ora, scusatemi tutti...” fece il papa, dedicando uno sbrigativo cenno del capo agli alti prelati presenti, diretto al suo studio, dove avrebbe dovuto trovare le parole più crudelmente concilianti per incastrare una volta per tutte il maledetto frate Girolamo Savonarola.

'Che bruciasse all'inferno anche lui...' pensò il papa, sedendosi alla scrivania e impugnando la penna.

 

Cesare Feo aveva ricevuto precise indicazioni su cosa fare nell'attesa che la Contessa si riprendesse completamente.

Prima di tutto, dopo aver chiesto se Ottaviano fosse ancora vivo – ed essendosi abbastanza stupita nel sentire che lo era nonostante i quasi cinque giorni passati ufficialmente senza bere – Caterina aveva dato disposizione affinché al ragazzo venisse portato del cibo un giorno sì e due no, per il momento, che si mantenesse l'isolamento, che gli venisse fornita la poca acqua sufficiente a restare vivo e cosciente e che le guardie fuori dalla sua porta facessero rumore a intervalli regolari, per impedirgli di prendere sonno in modo soddisfacente.

“Deve sentire i morsi della fame per capire il senso di vuoto e perdita – aveva spiegato – e deve restare sveglio, in modo da pensare a quello che ha fatto.”

Poi aveva chiesto notizie sui prigionieri e il castellano aveva dovuto metterla a parte del fatto che Pavagliotta ormai da giorni incolpava gente a caso, inventando spesso dei nomi, nella folle speranza di poter restare in vita più a lungo grazie a quell'espediente.

“Se non ha più nulla di interessante da dire – aveva intercalato la Contessa, dopo qualche colpo di tosse – allora è tempo che taccia per sempre.”

La donna disse poi di lasciare carta bianca agli aguzzini, ma di mettere in atto l'esecuzione di Pavagliotta quel giorno stesso, che era il 7 settembre, dimodoché nessuno avesse dubbi sul fatto che lei era ancora viva e ben decisa a punire tutti i colpevoli della morte di suo marito.

Così, quel lunedì, che era giorno di mercato, venne inscenata la condanna più suggestiva di quei giorni dopo quella eseguita ai danni di Don Domenico.

Legato alla coda di un cavallo imbizzarrito, coperto di cenci e sporco di ogni sorta di sudiciume, Pavagliotta rivide la luce del sole, trascinato fino in mezzo ai banchetti e alla folla di commercianti e acquirenti dalla bestia a cui era stato assicurato con una corda spessa quanto un braccio.

Dopo un po', uno degli aguzzini fece calmare il cavallo e lo condusse portandolo per le briglia.

Il suo viso era divenuto una maschera di sangue e croste e nessuno capì nemmeno mezza parola di quello che disse, mentre, a passo lento, il purosangue a cui era legato faceva tre evocativi giri di piazza.

L'Auditore attendeva davanti al palazzo dei Riario e quando il cavallo venne fatto fermare proprio dinnanzi a lui, egli lesse la sentenza scritta in fretta e furia pochi minuti prima che la condanna divenisse effettiva: “Tu sei all'ultimo punto della tua vita.” soggiunse, dopo le frasi di rito.

“Pentito...” biascicò Pavagliotta, alzando appena il capo della polvere, sputando due denti e del sangue, sotto gli occhi accesi di morbosa curiosità della folla presenta: “Sono... Pentito! Jesus! Jesus...”

Tra i vari forlivesi, era accorso subito anche Leone Cobelli che, carboncino alla mano, si appuntò con fare maniacale le ultime spizzicate preghiere del prete assassino.

Il carnefice, sperando di dare più spettacolo al suo pubblico, lasciò che Pavagliotta terminasse le sue lamentose orazioni quasi incomprensibili e poi lo slegò dal cavallo e lo fece salire sul patibolo.

L'infausta struttura di legno era ormai in pianta stabile da giorni in fronte al palazzo dei Riario e aveva già visto penzolare per il collo ben più di un condannato, eppure, quando vi salì il prete, in molti lo guardarono stupiti, come se lo vedessero solo in quel preciso istante.

Il boia fece passare il capestro attorno al collo magro e ferito del condannato e poi lo fece sistemare su un rialzo apposito.

Quando venne lasciato senza appoggio per i piedi, Pavagliotta cominciò a dimenarsi. Gli occhi sembravano gonfiarsi e il suo viso andava via via scurendosi, passando dal cadaverico bianco dovuto ai giorni di carcere, al cremisi, fino al rosso più scuro. La lingua uscì dalla rima delle labbra, turgida e ingombrante, e gli spasmi del corpo si fecero sempre più intensi.

Alla fine, come un pesce tirato fuori dall'acqua, il prete fu attraversato da un paio di violente scosse e poi restò immobile.

Il carnefice tagliò la corda e il cadavere cadde con un suono orrendo sul pavimento di legno.

Con un unico colpo secco, il boia recise la testa dal busto di Pavagliotta, tenendola per i pochi capelli, la mostrò al popolo che, infervorato dalla vista della morte e del sangue, scoppiò in grida di approvazione.

“Che il suo capo venga esposto sulla Torre del Po polo, assieme a quelle di Gian Antonio Ghetti e Don Domenico. Il corpo venga appeso alle mura della città, in ricordo della sua vile fuga.” decretò l'Auditore, che non resse più quella vista e si ritirò nel palazzo mentre ancora il pubblico esultava .

 

Raffaele si portò una mano al petto, incredulo, e chiese ancora una volta ai domestici che gli avevano appena dato la notizia: “Com'è possibile? Vi avevo detto di stare attenti... Come avete potuto lasciare che accadesse?!”

Quello che era successo, proprio nel cuore del suo palazzo di Roma, anzi, nel palazzo di Ottaviano Riario che il Cardinale occupava temporaneamente a titolo di parente, era gravissimo.

Filippo Delle Selle era corso subito alla dimora di Raffaele, appena era riuscito a scappare da Forlì, sapendo che nel cugino del Conte avrebbe trovato protezione e così, in effetti, era stato.

Eppure, adesso, i domestici avevano detto a Raffaele che il Delle Selle era scomparso.

“Ma avete visto qualcuno portarlo via?” chiese con apprensione il Cardinale, andando subito alle finestre, come aspettandosi di vedere svolazzare l'ultimo stralcio di un angolo di mantello.

I servi si guardarono tra loro incerti, poi uno osò aprir bocca per dire: “Io ho solo visto il vostro ospite parlare affacciato alla davanzale con qualcuno, ma poi non sono stato ad ascoltare.”

A quella confessione un altro prese coraggio e aggiunse: “Io stavo rientrando a palazzo e l'ho visto accostarsi a due persone in abiti da viaggio, giù sulla via, ma non volevo impicciarmi, per cui ho proseguito per la mia strada...”

Raffaele era incredulo. Gli unici servi non impiccioni della Terra se li era trovati lui! Per una volta che avrebbe voluto scoprire nei propri domestici degli inguaribili pettegoli, quelli si rivelavano essere degli integerrimi servitori.

“Chiamatemi il capo delle mie guardie personali...” fece allora il Cardinale, convinto di non poter più cavare un ragno da un buco da quegli smidollati e riservati servi: “Devo assolutamente scoprire che fine ha fatto Filippo... Gesummaria...”

 

Caterina cominciava a stare meglio. Il medico aveva ragione, però. Se avesse continuato a mangiare poco e male e ad assumere certe sostanze, probabilmente non si sarebbe mai ripresa del tutto e questo non poteva permetterselo. Non potendo rinunciare all'illusorio sollievo dato delle sue pozioni, avrebbe almeno cercato di nutrirsi meglio.

Sentiva che presto sarebbe arrivata la risacca di quei giorni di sangue e voleva essere pronta ad affrontarla.

Anzi, le sembrava molto strano che ancora nessuno avesse avuto l'ardire di scagliarsi contro di lei, riprendendola, oppure cercando di forzarla in qualche modo a smettere. Se ci aveva visto giusto, era probabile che anche gli altri potenti d'Italia, perfino quelli più direttamente interessati al suo Stato, non sapessero che fare, esattamente come lei.

Per quanto avesse fatto la voce grossa con il cognato, la Contessa si trovò a pensare a come avrebbe preferito avere Tommaso accanto a sé in quel difficile momento. Anche se poteva contare su di lui come Governatore di Imola, non era la stessa cosa, rispetto ad averlo a Forlì con lei.

Suo cognato era, da quando si erano conosciuti, uno dei pochi uomini a cui Caterina avrebbe affidato la propria vita senza alcun timore. Eppure anche lui l'aveva abbandonata al suo destino.

Sua madre era rimasta e Caterina, nel profondo, le era grata, benché non fosse in grado di dimostrarlo. Era più forte di lei. Appena incrociava gli occhi azzurri di Lucrezia, tutto quello che riusciva a esprimere era risentimento e aggressività. Si odiava per questo, ma non era capace di dominarsi.

Non aveva voluto vedere più Ottaviano, ma si era personalmente assicurata che le sue disposizioni venissero attese alla lettera, passando varie volte e in momenti diversi davanti alla porta della sua stanza.

Evitava Bernardino, perché ogni volta che il suo sguardo si posava sul frutto dell'amore che era corso tra lei e Giacomo, una nuova lama si piantava nel suo cuore e sentiva di non poter sanguinare più di un tanto, se voleva sopravvivere.

Sforzino e Galeazzo stavano a distanza, come se avessero paura che potesse capitare loro qualcosa di male, rimanendo nella stessa stanza della madre, mentre Livio aveva cominciato a soffrire di quelle che il medico aveva chiamato febbri nervose, ma che Caterina aveva attribuito, in modo più razionale, a una banale influenza.

Bianca era l'unica che cercasse di stare vicina alla madre, anche se, ogni volta che il castellano o l'Auditore o qualcuno di simile rivolgeva la parola alla Contessa in merito ai prigionieri e ai condannati, la ragazzina si rabbuiava e non riusciva a spiccicare parola per parecchio tempo.

La Contessa si era imposta di avere un atteggiamento normale, di non mostrare più in pubblico il proprio dolore se non avvalendosi della vendetta e del pugno di ferro. Aveva ripreso a mangiare e sembrava del tutto ripresasi dall'attacco di malaria, sempre che fosse stata davvero la malaria a stenderla per giorni.

La notte era il momento in cui si trovava più in difficoltà e allora non riusciva a evitare di cercare di alleggerire la propria coscienza. Provava con il vino e, quando il vino non bastava, passava ai suoi rimedi a base di oppio. Se anche quelli fallivano, cedeva alla sua pozione 'a far dormire'.

“E con Filippo Delle Selle com'è andata a finire?” chiese una sera Caterina, rivolgendosi a Mongardini, che sedeva al tavolo della cena assieme a lei, a Bianca e a un paio di soldati.

Come nei momenti di maggior agitazione, nella rocca di Ravaldino non si seguiva più quasi alcuna etichetta di convenienza e non era inusuale che le cucine dovessero preparare pranzi e cene a più riprese, a seconda di chi si liberava – e quando – dagli impegni della giornata.

“I nostri l'hanno trovato a Roma – spiegò il Capitano, azzannando con piacere un pezzo di carne salata – e da Roma non è uscito vivo.”

Caterina annuì, soddisfatta, mentre sua figlia, accanto a lei, deglutiva a fatica un po' di mollica di pane.

“E il Fiorentino?” domandò la Contessa, riportandosi alla mente il nomignolo del servo di Gian Antonio Ghetti.

Quel maledetto, che secondo le confessioni di alcuni carcerati era stato colui che aveva spiccato il primo colpo contro il fianco di Giacomo, era riuscito a scappare da Forlì la notte stessa dell'omicidio, ma Mongardini gli aveva spedito dietro dei soldati appena possibile, cercando di rintracciarlo in ogni modo.

“L'hanno pescato due imolesi, che lo conoscevano, a Castel Bolognese.” fece laconico il Capitano, strappando ancora un po' di carne con i suoi piccoli denti perlacei.

A Bianca passò la fame, sapendo che con quella breve frase Mongardini stava semplicemente dicendo che un altro uomo era morto.

Caterina notò con la coda dell'occhio come la figlia avesse allontanato da sé il piatto, ma non aveva intenzione di parlarne con lei. Sapeva benissimo che Bianca provava ribrezzo per quello che stava accadendo a Forlì e non solo, ma sapeva anche che prima la sua unica figlia femmina avesse imparato a vivere in quel mondo, meglio avrebbe potuto difendersi da sola.

“Nessuna notizia da Faenza?” indagò per ultimo la Contessa.

Monagardini scosse il capo: “Nemmeno un fiato, mia signora.”

A quel punto Caterina prese l'ultimo boccone di carne che aveva nel piatto e si pulì frettolosamente le mani, alzandosi: “Bisognerà pensare anche a loro, prima o poi.”

Anche Bianca lasciò la tavola assieme alla madre e la seguì fino alla porta: “Il mio matrimonio con Astorre verrà cancellato?”

Caterina sospirò. Non aveva intenzione di discutere il suo piano con sua figlia, almeno non prima di averne parlato con i suoi comandanti militari. Quello che aveva in mente non era semplice e ci aveva messo parecchio a venirne a capo.

Quindi rispose con delle domande: “Hai sempre tenuto a mente le mie raccomandazioni? Se ci fosse bisogno di una prova, per annullare le nozze, potremmo fornirla?”

Arrossendo come un tramonto, Bianca fece un cenno secco con il capo.

“Non è detto che serva – precisò Caterina, quasi tentata di aprire il discorso con la figlia, mentre attraversavano il corridoio – ma non possiamo escludere di poter risolvere la questione in modo pacifico, diciamo.”

Quell'affermazione fece saettare gli occhi di Bianca verso quelli verdi della Contessa e tanto bastò alla donna per capire che la figlia, dopotutto, non era ancora pronta per ragionare su certe cose con serenità o, quanto meno, con la fredda lucidità necessaria.

Così, rinunciando all'idea di rendere partecipe la ragazzina, Caterina concluse: “Ora ho da fare.” e si fermò.

Capendo bene quel che la madre si aspettava da lei, Bianca continuò a camminare, sparendo su per le scale, cosicché la Contessa potesse prendere una direzione qualsiasi, purché opposta alla sua.

 
   
 
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