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Autore: Adeia Di Elferas    25/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lorenzo il Popolano ringraziò il messaggero e spostò il piatto, in modo da poter appoggiare le lettere sul tavolo.

La moglie Semiramide lo guardò con severità, contrariata dall'informalità con cui il marito si comportava durante i pasti in famiglia, ma l'uomo non le diede peso. Da giorni lui e il fratello Giovanni erano sulla graticola per quello che stava accadendo in Romagna.

I loro interessi economici negli scambi con Forlì erano fortemente a rischio, soprattutto perché sembrava impossibile capire se e quando la Contessa Sforza Riario avrebbe ricominciato a comunicare con loro. Erano forse gli unici a Firenze, in quel periodo, a potersi vantare di avere una via di dialogo con la Tigre, ma anche loro, dalla morte del Barone Feo, si erano scontrati con un muro di pietre.

Per il momento, tutte le notizie che avevano ottenuto erano risicate e strappate quasi a forza da corrispondenti di fortuna e nemmeno la Signoria sembrava capace di sapere con esattezza che stesse capitando in quello Stato a loro così prossimo.

Quando i Popolani avevano saputo dell'omicidio di Giacomo Feo e della conseguente pronta reazione della Tigre, non avevano potuto fare a meno di restarne fortemente impietositi, seppur ognuno a modo suo.

Lorenzo, dopo un primo momento di comprensione, aveva condannato, almeno a parole, la condotta della Contessa, mentre Giovanni l'aveva scusata in modo fin troppo tollerante, dicendo che quello che le era stato fatto era il torto più grande di tutti e che quindi la reazione poteva essere benissimo quella più spietata di tutte, senza che per questo si dovesse biasimare la mano che metteva in atto.

Il Medici più vecchio lesse in fretta e commentò: “Nulla di nuovo. Solo una cosa, dicono che si sta muovendo di nuovo qualcosa, che Ottaviano Manfredi sia stato avvistato in Romagna, in questi giorni. In ogni caso, non ci ha fatto sapere nulla, quindi non vedo perché dovremmo credervi.”

“E della Sforza che si dice?” si informò Giovanni, che aveva davanti solo un po' di verdure fumanti in brodo e un calice d'acqua.

Lorenzo sospirò, rigirando una delle lettere per andare a rileggere un passaggio in particolare: “Si dice che ormai ha sterminato o comunque almeno arrestato gran parte della vecchia nobiltà del suo Stato e che nemmeno il papa si è ancora azzardato a muovere un dito per placare la sua ira.”

“Nulla di nuovo, quindi.” commentò Semiramide, chiamando uno dei servi affinché le versasse ancora un po' di vino.

“Deve averlo amato parecchio, per essere tanto implacabile...” fece tra sé Lorenzo, ripiegando tutti i messaggi e riprendendo a mangiare, dimostrandosi un po' più morbido rispetto alle sue prime invettive contro la Leonessa.

“Deve essere bello, amare tanto qualcuno, anche se si rischia di soffrire in modo così orribile.” si pronunciò Giovanni, prima di portarsi alla bocca una cucchiaiata di minestrone: “Voi due non trovate?” chiese al fratello e alla cognata.

Semiramide fece spallucce, ma i suoi occhi luminosi gli davano ragione, mentre Lorenzo ne approfittò per cambiare un po' argomento: “E tu? Quando te la trovi una bella donna con cui metter su famiglia? A noi fa piacere averti qui, ma tra un mese compirai ventotto anni. Cominci a essere vecchio.”

Giovanni incassò bene il neanche tanto velato insulto finale e promise: “Se mai mi dovessi innamorare, prometto che metterò su famiglia.”

“Dalle tue stanze è passata una quantità di donne più che rispettabile – lo incalzò il fratello, riprendendo a mangiare con gusto – possibile che in mezzo a loro non ce ne fosse nemmeno una degna delle tue attenzioni!”

“Ce n'erano, eccome, ma la mattina dopo tutto l'interesse era già andato via.” sorrise il Popolano più giovane, strappando una mezza risata anche alla cognata.

Lorenzo sospirò, apparentemente molto contrariato e scosse il capo: “Io ti ho dato il mio consiglio, poi fai come ti pare. E dovresti anche mangiare cose più sostanziose. Mangi peggio di un mendicante! Sei magro da far paura!”

L'altro tirò a sé il piatto di verdure con fare protettivo e spiegò: “Se mangio così, non sto male.”

“Ma se dovessi prendere in mano una spada, ti tirerebbe per terra da quanto peso hai perso!” lo rimbrottò il fratello maggiore, con tono paternalistico.

“Lascialo in pace...” lo difese Semiramide, allungando una mano verso il cognato e dandogli una pacchetta sull'avambraccio, incoraggiante: “Gli attacchi di gotta non sono uno scherzo, lo sai bene, dunque se trattenersi nel mangiare lo aiuta, lascialo fare, povero Giovanni!”

Lorenzo sbuffò, ma non osò contraddire la moglie e così intavolò un nuovo discorso: “Savonarola ha ricevuto una chiara accusa dal papa. Oggi in Signoria se ne parlerà. Mi raccomando, state sempre pronti a tutto. Di questi tempi non si può stare al sicuro nemmeno in casa propria...”

 

Caterina aveva chiamato a sé Paolo Bezzi, Cicognano Cicognani e Achille Tiberti – uno dei cesenati fuoriusciti giunti a Forlì in cerca di asilo politico all'epoca della guerra civile tra Guido Guerra e sua madre – e aveva chiesto che nessuno la disturbasse mentre parlava con i suoi comandanti.

Alla riunione riservata che si teneva al palazzo dei Riario erano stati invitati anche Luffo Numai, l'Oliva e il Capitano Calderini.

“Prima di tutto – disse la Contessa, appena tutti gli uomini ebbero preso posto attorno al tavolo che di solito veniva usato per le riunioni del governo – dobbiamo iniziare un reclutamento a tappeto.”

Luffo Numai sollevò le sopracciglia e fece un'espressione tanto sorpresa da attirare l'attenzione degli uomini d'armi che sedevano accanto a lui.

Dalle finestre lasciate aperte filtrava l'aria ormai fresca di un settembre inoltrato e dalla città giungevano rumori attutiti. Sembrava assurdo, ma da quando la Tigre aveva cominciato la sua vendetta, Forlì si era fatta stranamente silenziosa e immobile. Era come se nessuno osasse parlare a voce toppo alta, se non per accogliere con un'esclamazione si orripilato giubilo una nuova esecuzione, né pareva lecito muoversi troppo rapidamente, se non per accorrere in piazza a sentire la declamazione di un nuovo proclama.

“Che cosa avete in mente, di preciso?” chiese Tiberti, che negli ultimi tempi era stato il comandante più occupato con le coscrizioni.

Anche l'Oliva pareva curioso, tanto che si sporse in avanti e fissò la sua signora con vivo interesse, nemmeno spettasse a lui reclutare i giovani forlivesi.

“Che ogni famiglia dia almeno un soldato. Non importa di che età, basta che sappia reggere in mano una picca. E se la famiglia ha già degli uomini nell'esercito, non fa niente, dovrà comunque fornirne uno in più.” spiegò Caterina: “Abbiamo bisogno di rimpolpare al massimo le nostre fila e dobbiamo farlo molto in fretta.”

“Come mai?” chiese Luffo Numai, finalmente ripresosi dallo stupore: “Le guardie cittadine sono sufficienti per tenere sottocontrollo gli arresti di questi giorni e non mi pare che ci sia aria di guerra, attorno a noi...”

La Contessa non gli rispose, ma si rivolse espressamente ai militari: “Quanto tempo ci vorrebbe, secondo voi, per portare a termine questo tipo di reclutamento di massa?”

“Se non incontriamo problemi – iniziò a dire Tiberti, che in effetti era un po' perplesso sulla risposta della popolazione a una simile imposizione, soprattutto in ragione di tutto quello che stava capitando in quei giorni – potremmo farcela in un mese, massimo un mese e mezzo.”

Caterina annuì, pensosa, poi concluse: “E sia. Che si proceda con l'arruolamento. Le nuove leve verranno addestrate al quartiere militare e, almeno all'inizio, saranno solo la scorta dell'esercito che già abbiano. Voglio soldati più esperti sul campo. Quando saranno pronti, allora impiegheremo pure loro.”

“Che cosa avete in progetto di fare, esattamente?” chiese Bezzi, accigliandosi.

“Ogni cosa a suo tempo.” disse la Contessa: “Per ora fate quello che vi ho ordinato.”

I militari non chiesero altro e anche l'Oliva parve soddisfatto delle parole sibilline della sua signora.

Quando Caterina sciolse la riunione, bloccò proprio l'ex-ambasciatore milanese e gli sussurrò: “Voi dovete farmi un grosso servigio. Avete ancora delle valide spie sottomano?”

L'uomo annuì, così la Contessa riprese: “Raccogliete più informazioni possibile su Guido Guerra e su chi potrebbe o non potrebbe correre in suo soccorso nel caso in cui i suoi territori venissero attaccati.”

L'Oliva fece un brevissimo inchino e cominciò immediatamente a lambiccarsi su chi mandare e dove per indagare sul signore di Cesena.

Luffo Numai si attardò più degli altri, in modo da poter essere l'ultimo a rimanere nel salone con la sua signora.

Caterina aveva notato il suo comportamento e aveva deciso di assecondarlo. Quel Consigliere si era sempre dimostrato leale e spesso acuto e non era stato collegato in alcun modo alla congiura in cui era morto Giacomo. Meritava di essere ascoltato, se era ciò che voleva.

“Mia signora...” iniziò a dire l'uomo, lanciando uno sguardo alla porta, come ad assicurarsi che nessuno fosse rimasto indietro per origliare: “Che cosa sta succedendo?”

La donna sospirò e sentì un gran mal di testa attanagliarle la fronte. Le pozioni che sorbiva ogni notte con tanta disinvoltura cominciavano a darle effetti anche a distanza di ore. Se la sua mente ritrovava una discreta lucidità, una volta finito l'effetto acuto degli intrugli, il suo organismo non era altrettanto capace di fronteggiare gli inconvenienti di quelle assunzioni smodate. Aveva quasi sempre la bocca secca, soffriva a sprazzi di cefalea, spesso si sentiva accaldata e più di una volta veniva presa da accessi di tosse impossibili da placare.

“Volete iniziare una guerra?” provò a ipotizzare Numai, le mani nodose che si stringevano nervose sul bordo ricamato del giaccotto.

La Contessa cercò di tornare al presente, dimenticando per un momento i suoi tormenti fisici, e sospirò: “Devo morderli io, prima che siano loro ad azzannare me.”

Siccome gli occhi di Luffo avevano assunto una sfumatura di confusione, Caterina fece un paio di profondi respiri e decise che fosse giusto spiegare quello che aveva in mente, almeno a grandi linee, a qualcuno.

“Devo attaccare, prima di venire attaccata. Tutti quanti stanno solo perdendo tempo, perché non riescono a capire bene cosa sia capitato e come io stia reagendo. Devo dimostrare a tutti che la morte di mio marito non mi ha distrutta come pensano loro.” la Contessa fece una brevissima pausa, chiedendosi se Luffo credesse alla sicurezza che stava ostentando a suo beneficio, poi proseguì il discorso, con maggior concitazione: “Devo espandere i confini del mio Stato e devo farlo subito, mentre siamo ancora in tempo di pace e mentre sono ancora tutti quanti troppo scossi dal passaggio dei francesi anche solo per immaginare che qualcuno voglia iniziare una nuova guerra. Devo rafforzare la mia immagine adesso che sono tutti distratti e impreparati.”

“Una guerra è un grosso rischio.” intervenne Numai, il cui profilo parve a Caterina più affilato del solito, mentre rifletteva su quanto la sua signora aveva detto.

“Ma è l'unica cosa che posso fare.” insistette la donna: “Se non agirò immediatamente, mio zio o il papa, o chissà chi altro, alla fine si presenterà alle porte del mio Stato e ne reclamerà il possesso, e allora sì che ci sarà una guerra a cui non potremo sopravvivere.”

Luffo strinse le labbra e poi concordò, seppur visibilmente a malincuore: “Come sempre fate ragionamenti molto logici. Spero di cuore che abbiate ragione anche questa volta.”

A quel punto, Caterina lo congedò e andò a ritirarsi nelle sue stanze.

Non le restava che attendere i risultati delle indagini dell'Oliva e poi avrebbe deciso contro chi sferrare il suo primo attacco. Senza troppe dichiarazioni ufficiali. Doveva colpire prima che qualcuno si accorgesse dei suoi movimenti.

Come la vipera, profetico simbolo dei Visconti, doveva strisciare a terra, nascosta dai cespugli, e poi saltare fuori all'ultimo minuto e serrare le spire attorno al suo nemico, mordendogli il collo fino a farlo morire.

 

“Mi duole dover dire certe cose, giacché ella ha il vostro stesso sangue – continuò la spia, evitando lo sguardo di Ludovico Sforza – ma quello che ha fatto e che continua a fare non ha eguali e non ha mostrato pietà nemmeno per bambini in fasce.”

Il Duca di Milano sporse in fuori il mento e guardò verso Beatrice, in cerca di sostegno. Era stanco di sentirsi dire di continuo le stesse cose. Sperava sempre di ricevere qualche novità, invece le sue spie altro non facevano se non ripetere di continuo quanto sua nipote fosse gretta e spietata.

La Duchessa stava ascoltando con apprensione le parole del delatore, ma non sembrava molto scossa per la crudeltà ostentata da Caterina, quanto invece pareva oltraggiata dal fatto che il loro ambasciatore fosse scappato senza lasciar traccia di sé.

Anche Calco era rimasto deluso dalla fuga del loro fidato servo in Forlì, ma comprendeva, umanamente, la sua paura.

Ermes, invece, manteneva il suo solito distacco e fissava ora lo zio ora la spia con occhio a mezz'asta, senza aprir bocca.

“E suo figlio Ottaviano?” chiese Ludovico, spostandosi sul suo scranno: “Che ne è di lui? Alla fine l'ha fatto arrestare o no?”

“Lo ha rinchiuso nella rocca, ma sembra sia vivo.” rispose il delatore: “In ogni caso non possiamo escludere che il Conte prima o poi faccia il vostro nome.”

“Basterà negare.” tagliò corto il Moro: “Non ha elementi per incolparmi e non credo che mia nipote sia molto incline ad ascoltare suo figlio, dopo quello che le ha fatto.”

Beatrice si schiarì la voce e disse: “Teneteci informati, comunque. Ogni novità potrebbe essere importante, soprattutto ora che Faenza si sta avvicinando a Venezia.”

La spia fece un profondo inchino alla Duchessa e poi chiese il permesso di andarsene.

Il Duca glielo concesse e, appena l'uomo di fiducia fu uscito dal salottino in cui si erano radunati tutti per sentire le novità, Ludovico si alzò e si stiracchiò per bene: “Ora che anche questo è sistemato, me ne torno a Mortara. Posso sperare di avere compagnia?” soggiunse, guardando interrogativo la moglie.

La Duchessa annuì e seguì il marito oltre l'uscio, lasciando soli Calco ed Ermes.

“Ma che accidenti ha in mente, vostro zio?” chiese il cancelliere, rivolgendosi senza troppe cerimonie al nipote del Duca: “Da quando i francesi si sono ritirati, non fa altro che correre a Mortara per amoreggiare con sua moglie o nascondersi a Vigevano a parlare di gelsi e acquedotti con quel lunatico di un maestro Leonardo!”

Ermes non disse nulla, fissando placido l'altro, che, innervosito dall'atteggiamento sonnolento dello Sforza, perse la pazienza.

“Checché ne pensi vostro zio, l'Italia è tutto fuorché pacificata! L'assedio di Novara è ancora in corso e ci sta costando un patrimonio! Nel regno di Napoli continuano i tumulti! La Tigre di Forlì sta spazzando via metà del suo Stato! I veneziani stanno allungando le mani sulla Romagna! E Astorre Manfredi sta per...”

“Una cosa per volta.” lo interruppe Ermes, allungando una mano e facendogli segno di tacere: “Ora è necessario vedere che cosa accadrà a Firenze. Il destino di Firenze è la cosa più importante. Dopo, prenderemo le nostre decisioni.”

Calco dovette inghiottire il suo disappunto e rimangiarsi tutto quello che avrebbe tanto voluto dire contro Ludovico il Moro. Il nipote del Duca, con quella semplice frase e con il suo modo di parlare, apparentemente tranquillo, ma in realtà estremamente autoritario, lo aveva rimesso al suo posto, ricordandogli come il suo ruolo fosse quello del cancelliere: non spettava a lui prendere decisioni, né criticare quelle del suo padrone.

 

La notte era scesa su Forlì e Caterina stava ancora vagando come un'anima in pena per la rocca di Ravaldino senza trovare pace.

Si era imposta di non cedere alla tentazione di assumere ancora le sue pozioni, soprattutto quella per dormire, messa in guardia anche dal suo medico personale, che aveva insistito sul fatto che un simile intruglio altro non avrebbe fatto, nel tempo, se non toglierle l'appetito e la capacità di reagire a qualsivoglia malanno.

“E a quel punto – aveva intimato il dottore – se avrete un nuovo attacco di malaria, o anche solo un raffreddore, finirete nella tomba senza nemmeno accorgervene!”

A Caterina, in tutta sincerità, non sarebbe importato troppo di morire, se non fosse stato per quello che sentiva di dover ancora fare.

La vendetta per la morte di Giacomo le aveva riportato alla mente molti altri torti subiti nel corso degli anni e due in particolare avevano riacceso in lei il desiderio di rivalsa.

Fino a quel giorno era stata abbastanza restia a cercare di riscattare il torto subito alla morte del Bergamino, per mano dei faentini, e, grazie ai suoi Consiglieri, era perfino riuscita a prendere in considerazione l'ipotesi di legare sua figlia ad Astorre Manfredi. Tuttavia, ora, sentiva di non aver più motivo di tenere distesi i rapporti con Faenza.

In secondo luogo, le era tornata alla mente la morte sconsiderata e inutile di Gasparo Biondo, eccelso cittadino di Forlì, caduto, per futili motivi, per mano stessa di Guido Guerra.

Non aveva mai potuto punire quei crimini, sia perché sarebbe stato difficile agire fuori dai propri confini, sia perché, all'epoca, gli equilibri internazionali le avevano legato le mani.

Ora, però, si percepiva inspiegabilmente potente. Si era spinta così oltre al limite, senza che nessuno facesse nulla di serio per frenarla, che sentiva di poter andare anche più in là senza dover temere chissà quali ripercussioni.

Stufa di camminare su e giù per i piani della rocca, alla fine Caterina si ritirò nella sua stanza.

Si sedette sul letto e subito si fece forte il desiderio di obliarsi con le sue pozioni, o almeno con il vino, per quanto fosse meno efficace.

Si alzò e si versò un calice, prendendo un po' del vino nero che veniva lasciato tutte le sere nella sua camera dai servi.

Dopo un paio di sorsi, però, lo stomaco le bruciò tanto da indurla a smettere.

Tornò sul letto, ma non aveva sonno. La sua mente rimbalzava e inciampava di continuo, mescolando ricordi e congetture, mandandola in confusione e dandole la nausea, come se fosse stata un naufrago in balia delle onde.

Nel momento in cui di norma i suoi sensi venivano spenti dalle droghe, Caterina avvertì i suoi sensi farsi incredibilmente vigili, per via della ritrovata presenza a se stessa.

Si guardò attorno, smarrita, chiedendosi come avrebbe fatto ad arrivare alla mattina senza impazzire.

Quello che più la stava facendo soffrire – e si vergognava anche solo a prendere in considerazione quell'idea – era la sensazione di mancanza fisica dovuta all'assenza di Giacomo.

Attese per almeno un paio d'ore, nella speranza che passasse, ma quello che era iniziato come un vago sentore di desiderio si trasformò inevitabilmente in una brama pressoché impossibile da frenare.

Sapeva che, se avesse voluto, non avrebbe dovuto far altro che decidersi e avrebbe trovato all'istante un uomo con cui passare la notte. Era cosciente del suo potere e lo era altrettanto del suo fascino, quindi poteva dirsi certa che quasi nessuno l'avrebbe rifiutata, se lei si fosse imposta. Però non voleva farlo. Sarebbe stato come tradire suo marito. Non voleva, non voleva e basta. Era una cosa che le dava ribrezzo.

E che le faceva anche paura. Le violenze subite per mano di Girolamo Riario erano spettri tornati in vita nella sua mente, in quei giorni.

Il suo corpo cercava il sollievo che solo Giacomo era riuscito a fornire, ma Caterina temeva che, cercandolo in un altro uomo scelto a caso, sarebbero tornati solo il dolore e il panico che aveva provato ogni volta con il suo odiato primo marito.

La lotta con se stessa si dimostrò più dura del previsto.

I suoi occhi continuavano a correre alle bottigliette di pozione per dormire e per calmare i nervi. La sua volontà era scissa tra due opposti fronti e questa lacerazione permise al suo demone di ripresentarsi, forte quasi quanto la notte in cui Giacomo era morto.

Saltando da un pensiero all'altro, ricordò come anche suo padre avesse quel demone nell'anima, quel mostro sempre acquattato nel buio e pronto a sbranarlo. Lui la chiamava 'un'ombra', ma la sostanza doveva essere la stessa.

Caterina aveva sentito spesso dire le peggiori cose sul Duca suo padre e sugli eccessi che raggiungeva, quando la sua ombra lo coglieva, e non voleva essere come lui.

Tuttavia, quando l'istinto pulsò ancora dentro di lei con la forza di una tempesta, non resistette più.

Era sbagliato anche quello, forse, anzi, sicuramente lo era ancor di più, ma non sapeva che altro fare.

Lasciò la stanza e raggiunse le segrete. Scelse uno dei figli di Filippo Delle Selle, che ancora languivano in gruppo, assieme ad altri prigionieri in una delle celle, e lo fece portare nella sala delle torture.

Lo interrogò in modo sordo e inutile, sbeffeggiandolo e torchiandolo benché non ce ne fosse motivo, riversando su di lui tutto quello che le oscurava l'anima e le tormentava la coscienza.

Permise all'aguzzino che l'assisteva di indulgere in torture inutili e poi prese in prima persona in mano i ferri del mestiere.

Quando lasciò la stanza, a mattina quasi fatta, il ragazzo era morto.

Tornò nella sua stanza, si deterse via i segni di quella notte di follia dal volto e dalle mani e si cambiò d'abito.

Si sentiva svuotata e fredda come un sepolcro.

Era come se fosse pronta a scoppiare a piangere da un momento all'altro, ma poi dai suoi occhi non usciva nemmeno mezza lacrima e l'unica cosa che restava era il silenzio.

Si chiese come avesse fatto suo padre a convivere per tutta la vita con un'ombra del genere che gli rimordeva l'anima.

Poi si disse che, forse, se non fosse morto a trentadue anni per mano dei congiurati, sarebbe morto comunque poco dopo, divorato dal demone che albergava nella sua mente.

Con uno sbuffo a metà strada tra l'indispettito e il divertito, Caterina pensò al fatto che anche lei aveva trentadue anni e, almeno figurativamente, in quel finale d'estate era morta alla stessa età in cui era morto suo padre. Solo che, per lei, quella era già la seconda volta.

 
   
 
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