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Autore: PawsOfFire    26/03/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Avvenne un fatto piuttosto curioso.
Quello che all’inizio pareva uno strano scherzo iniziò lentamente a concretizzarsi.
Un pezzo grosso delle nostre linee, immagino quel porco del colonnello Von Bauer, aveva giocato tutte le carte del suo mazzo per far approdare in questa terra dimenticata da Dio la famosa cantante radiofonica Anita Blume, elegante sogno erotico che affollava le menti di intere generazioni di soldatini disperati.
Figlia di madre iberica e padre tedesco, un facoltoso banchiere viennese*, Anita era spesso la dolce melodia dell’appuntamento radio quando, stancamente, riuscivamo a captare i segnali della madrepatria.
I ricordi sono vividi e rampanti. Con il cassone sottomano ed impegno certosino spesso ci apprestavamo a girare rotelline ed antenna alla ricerca della sua nobile voce, spesso interrotta sul più bello da una sovrapposizione di onde sovietiche. Dolci canti d’amore mutavano in una sbieca voce maschile russa che distribuiva gratuitamente propaganda comunista tra le nostre linee. Alcuni di noi, tra cui il capocarro Joseph, cugino di Klaus, gioivano nell’ascoltare quella patetica propaganda. Noi cercavamo di farlo desistere: il suo fervore rosso avrebbe potuto mutare in una fucilazione se qualcuno se ne fosse accorto.
I russi erano consapevoli della nostra passione per la musica, per questo progettarono un attacco mediatico ad hoc.
Una sera, mentre ascoltavamo trasognati la dolce voce di Anita, una gracchiante voce maschile fece capolino, coprendo di intensità la bella melodia fino a farla scomparire. Questa volta si rivolse a noi in un terribile tedesco.
“Compagni!” strillò la radio, riportandoci tutti alla realtà.
“Deponete le armi, cessate la guerra. Non vedete che i veri nemici sono quelli che vi danno gli ordini? Alzate le mani e correte a noi: sarete liberi! Ribellatevi ai soldati di Himmler, quei porci sanguinari, venite a noi, o coraggiosi! Vi accoglieremo come fratelli. Un treno oggi stesso parte per Mosca. Visiterete i migliori bordelli e berrete i vini migliori! Spezzatini festosi di carne vi accoglieranno, compagni!”
Queste parole suscitavano in noi diverse sensazioni. Klaus e Martin sembravano alquanto attratti dalla proposta dei russi. Mentre il primo si limitata a figurarsi gli ottimi vini ed i prelibati piatti di carne che quasi sentiva in bocca, il secondo desiderava anche l’accoglienza esperta delle graziose pulzelle dell’est.
Un giorno si avvicinarono a me, tremolanti, la mano destra appena sollevata per chiedere la parola.
“Capitano...” Era Klaus che parlava. Piccolo e goffo, giocherellava con le dita nervosamente, lo sguardo basso e colpevole.
“Non crede che...insomma...sono proposte davvero allettanti, io...”
Risi.
Eravamo al sicuro, quel giorno. Avevamo montato alcune brutte tende di fortuna al limitare di un bosco, non molto lontano da un edificio adibito ad ospedale. La terra era silente, il cielo limpido, privo del caratteristico ronzio dei ricognitori russi. Forse quel giorno avremmo potuto riposare.
“Achen, per favore.” Gli poggiai una mano sulla sua spalla e mi chinai alla sua bassezza.
“Mi rivolgerò a te come compagno d’armi, non come capitano. Davvero ti fidi di quei porci?”
L’uomo esitò, senza mai sollevare lo sguardo da terra.
“Hai presente quel bastardo del pittore? Il tipo senza nome, che tutti chiamano Chagall. Si è fatto sei mesi in una miniera di zolfo russa. Ecco perché è pazzo.”
Un brivido scosse la piccola e goffa figura di Klaus. Anche Martin, la sua lunga ombra, tremò forte al sol pensiero.
“E comunque” mollai la presa, erigendomi in tutta la mia magnificenza dinnanzi a loro “Dovreste essere onorati a lavorare con me. Nessun altro può vantare un Capocarro così magnanimo, coraggioso, leale, immaginifico, geniale e tremendamente bello, così affine agli ideali della nuova Germania...”
Non ebbi tempo di concludere il discorso che i due erano già scappati. Si congedarono con un volteggio del cappello, incespicandosi tra i loro piedi fuori dalla tenda, verso l’infinito.
Nel frattempo l’agitazione nel campo si faceva sempre più fervida e fremente. I pensieri di tutti noi erano proiettati all’unisono e prendevano il nome di Anita Blume.
Uomini che tornavano con i propri piedi, uomini che non tornavano. Tutti speravano di avere un giorno in più per lei, per quella nota di rosso vivido del quale immaginavamo stretti gli abiti, le spalle scoperte e la pelle rosea e liscia che viziava da molte notti i nostri sogni delicati e puri di una donna angelica, la cui voce sapeva rasserenarci anche durante la furia della battaglia…
Quel porco del colonnello Von Bauer si lisciava i baffi unti e grigi al pensiero di poterla incontrare. Si sarebbe seduto grassamente in prima fila per lasciarsi guidare dalle peggiori fantasie.
No! quel dolce fiore di primavera andava protetto da quei mascalzoni, mani lerce e violente, bocche affamate che volevano intaccarne la sua bellezza.


Ne parlai con Tom. Eravamo sistemati abbastanza vicini al suo ospedale, riuscii a strappare un permesso per andarlo a trovare. Nel suo lettino, semi-sdraiato, leggeva un giornale vecchio di qualche mese.
L’aveva vista brutta. Aveva perso molto sangue ed in un primo momento temetti che non ce l’avrebbe fatta. Mi sorprese piacevolmente la sua riabilitazione, che si stava rivelando più veloce del previsto. Doveva essere lieto di tornare a lavorare per me. Era un legittimo diritto.
“Capitano.” nella sua voce mi parve di udire una nota di sollievo, quasi gioiosa.
“Weisz” Mi levai il cappello, sedendomi ai piedi del letto. La stanza era di pietra cadente e muffita. Dalla finestra si intravedeva la fitta boscaglia che si estendeva verso l’infinito.
Non era solo. Vi era almeno una decina di letti a castello impilati malamente l’uno sopra l’altro, ospitanti fortunatamente pazienti con ferite in via di guarigione. Ricordo ancora quando mi piazzarono sopra un ferito grave che dopo poco tempo spirò. Inizialmente non fu un problema fin quando, data la mole di lavoro a cui infermiere e dottori erano esposti ogni giorno, finirono per dimenticarsi di liberare il letto. Ricordo ancora i fluidi corporei che gocciolavano dal materasso, sopra di me.
Fu disgustoso.
Tom prendeva la sua condizione con spirito. A torso nudo, col busto completamente fasciato, mi sorrise energico, chiedendomi come stavano gli altri.
Quei perditempo? Vivono.” Il pilota era l’unico con cui riuscissi davvero a relazionarmi. Maik era diventato un pericolosissimo sciamano anticomunista. Preferiva passare le sue giornate a bruciare ossa e cacciare bolscevichi con Fiete, anziché rispettare la mia autorevole figura. Klaus e Martin stavano progettando una fuga (definitiva, dicevano) nelle linee russe.
“L’ultima volta hanno provato ad integrarsi nelle linee nemiche” gli raccontai “Sono scesi dalla Furia per abbracciare la causa rossa quando, dopo dieci passi, decisero che era troppo pericoloso e tornarono indietro correndo. Dall’altra parte si incazzarono come belve ed aprirono il fuoco. Avresti dovuto vederli, come correvano! Sembravano ballare sotto i proiettili saltellanti. E’ stato quasi divertente.”
“Oh, si.”
rispose, appena turbato. Poi cambiò discorso.
“Senta...”
“Si...”
Si avvicinò a me, mugolando. Tesi l’orecchio.
“E’ vero che stasera Anita Blume canterà per noi?” nei suoi occhi si leggeva la speranza di una vita.
“Certamente. Sarò in prima fila” Ghignai.
Non rispose. Fece spallucce e si abbandonò in un lungo sospiro.
“So come ti senti.” Nella tasca interna della giacca custodivo delle riviste di dubbia moralità ma di eccezionale bellezza. Le lanciai sul suo letto.
“Questa è la collezione segreta del Capitano. Dovresti esserne onorato. Non guardarmi con quella faccia. So che sei un po’...confuso, ma guardale. Che splendori.”
In effetti lui non disdegnava le belle pulzelle, ma nemmeno i commilitoni prestanti che volevano vivere una fugace avventura.
“Sappi che è difficile per me separarmi da Monika ed il suo costumino blu.”
Tom inarcò un sopracciglio, confuso.
“Ma sono in bianco e nero”
“Appunto, Weisz. Ma se la immagini, con i boccoli color miele che ricadono lungo le spalle ed il costumino azzurro, leggermente sfumato in blu...oppure...aspetta...eccola, Sophie, con il suo bellissimo costumino che immagino essere rosso, invitante...”


La sera arrivò. In verità era un tardo pomeriggio incredibilmente luminoso. In uno spazio d’erba avevano allestito alla buona un palchetto dal quale cadevano a cascata trecce di fili, ben di dio tecnologico oramai alieno ai nostri occhi. Tecnologia che profumava di casa e, allo stesso tempo, puzzava di polvere e vite dimenticate. Esisteva davvero qualcosa di diverso?
Per l’occasione i conflitti erano cessati, almeno da parte nostra. Se Ivan era davvero generoso come lasciava intendere alla radio, forse in questa bella giornata nessuno sarebbe morto.
Mi ero preparato per la grande occasione. Non potevo presentarmi dinnanzi ad una visione così angelica con i crostoni di sporco addosso. Nonostante puzzassi come una capra, l’odore altrui copriva il mio. Eravamo una manica di puzzoni in un ambiente lercio.
Il campo era provvisto di alcuni doccioni stranamente affollati. A quanto pare non ero l’unico a cui era venuta questa brillante idea.
Ciononostante, data l’immensità della coda, usai l’ingegno.
“Ehi!” Gridai. Qualcuno si voltò.
“Sono un Capitano! Lasciatemi passare o vi porto tutti davanti alla corte marziale per insubordinazione nei confronti di un ufficiale (inferiore)”
Qualcuno rise di gusto.
“E come facciamo a sapere che non sta mentendo? Ci faccia vedere il grado...ah no, è nudo!”
Mi feci dunque largo a spallate. Erano quasi tutti ragazzetti di truppa. Maledissi l’impossibilità di utilizzare il mirabolante bagno degli ufficiali superiori saggiamente rubato al grosso edificio di mattoni e mi accontentai di quel gelido getto a spruzzo che andava e veniva, esattamente come la mia pazienza.
Quando finalmente fui pulito e profumato come le chiappe di un neonato, indossai la divisa in miglior stato e riuscii perfino ad acchiappare un barbiere. Da pulcino arruffato mi tramutò in un’affabile capitano d’affari da manifesto di propaganda.
Quel pover’uomo ne avrebbe dovuto sistemare centinaia, di soldati. Lo pagai adeguatamente. Sono un dio generoso.
Adesso, pulito come un libretto di congedo, ero veramente un boccone appetibile.
Mi stavo sistemando il cappello in testa quando, per puro caso, incontrai nuovamente quell’insolente soldatino di stagno che aveva messo in discussione il mio grado. Lo salutai con un enorme sorriso. Alla manica portava un’unica “V” bianca.
Inutile dire che improvvisamente, quando mi riconobbe, divenne dapprima bianco come un velo e successivamente rosso come un peperone. La parlata sfacciata divenne tesa e le parole iniziarono a sfuggirgli di bocca.
“Sono...sono davvero rammaricato. Io, cioè, signor Capitano. Io...le chiedo il permesso di...”
“Negativo, qualunque cosa si tratti. A terra! E mi baci gli stivali, ogni volta che si china.”
Il ragazzetto non fu l’unico a sbiancare. Mentre mi crogiolavo in un delirio di onnipotenza Klaus&Martin decisero disgraziatamente di fermarmi.
“Capitano! È abuso di potere!” Le loro voci, strette in un inspiegabile ed unisono acuto, mi colpirono alle spalle, facendomi trasalire. Per errore mi partì il piede e colpii il povero malcapitato sotto il mento mentre faceva le flessioni, facendolo ruzzolare dolorosamente all’indietro. Il soldatino si mise a sedere uggiolando, pulendosi la bocca schiumante di saliva e sangue.
“La lingua! Mi sono morso la lingua!”
“Avrebbe dovuto mordersela ben prima, soldato. Adesso vada e non osi mai più mettere in discussione mia parola!”
replicai, gonfiando il petto come un piccione in amore.
Si alzò maldestramente e con un certo timore, fuggendo dalla mia imponente figura a gambe levate.
“E’ stata un’esperienza istruttiva.” Sospirai malinconico, rivolgendomi questa volta ai miei uomini.
I due si scambiarono alcune occhiate intimorite, borbottarono un “Assolutamente, ha indubbiamente ragione...” ed infine si dileguarono a passo maldestro.
Non credevo che la mia ritrovata magnificenza facesse questo effetto alla persone.


Presenziai in anticipo.
Sotto a quell’allestimento di fortuna le prime file e le poche sedie erano già occupate da un nutrito gruppo di ufficiali superiori, seguiti dalle SS sbucate chissà dove e che sistematicamente prendevano il meglio che questo porcile potesse offrire: che si trattasse di un letto o di un pasto caldo vi era poca differenza. Arrivavano sempre nei momenti meno indicati per fare cose decisamente poco opportune e spesso avevano autorità per farlo. Erano insopportabili.
Dopo non molto tempo Martin e Klaus mi raggiunsero, trafelati come al solito. Avevo trovato un angolino strategico dove piazzarmi e dal quale, se tutto fosse andato secondo i miei piani, cosa di cui ero certo, avrei goduto di una bellissima visione.
Ben presto fummo circondati da una massa di uomini. I loro volti erano sempre più puliti, sempre più giovani. Quando partii, oramai tre anni addietro, le file erano colme delle età più disparate, certo, ma mai troppo giovani o troppo vecchi. Adesso vivaci visi diciottenni rimpolpavano la folla: molti non dovevano avere più di un mese di servizio. Ma adesso non è il momento di perdersi in futili riflessioni! Piuttosto, mi chiedevo che fine avesse fatto Maik.
“Preferisce rimanere in vedetta.” rispose Martin, facendo spallucce. “Dice che tutte queste cose servono solo per distrarre la truppa e fornire ai russi una buona occasione per attaccarci.”
“Comprensibile.” borbottai. “E’ molto...da lui.”
Riuscivo ad immaginare la scena. Sdraiato sulla Furia, col fucile carico, Maik a malapena respirava per non essere udito dai nemici. Vicino a lui quel prostituto del mio cane gli teneva compagnia. Fiete è un venduto, sta con chi gli dà più cibo. Un silenzio struggente, allietato dalla dolce voce di cantante che, nonostante tutto, riusciva malapena ad intaccare la sua anima.
Quando Anita si presentò a noi era avvolta in un meraviglioso vestito rosso, sensuale e mai volgare. I capelli corti e castani, retaggio delle sue origini spagnole, ricadevano sulle spalle in dolcissimi boccoli scuri.
Dimenticammo la guerra, almeno per un po’.


Dato che quegli idioti si stanno offrendo volontariamente in pasto al nemico io, Maik Gerste, racconterò la versione reale dei fatti.
Me lo aveva raccontato il vento, spirando tra le fronde degli alberi. Il tramonto rosso come Mosca giungeva malinconico su di noi, delineando il profilo del magnifico Tiger al quale chiedevo riparo.
Sapevo che, se quei bastardi ci avessero scoperto, per noi la morte sarebbe giunte su grandi ali nere. Il mio Capitano-capobranco è un idiota così io, Beta, devo proteggerlo. E’ un lavoro sporco ma qualcuno deve pur farlo.
Mentre la fastidiosa musica giungeva alle mie orecchie, distraendomi dall’udire i passi del nemico, intravidi qualcosa muoversi tra le fronde. Sparai.
Qualcuno urlò.
Compagno!” una voce proruppe dal cespuglio. Il suo accento era palesemente russo, così sparai un altro colpo.
Siamo disarmati, amico! Vogliamo solo ascoltare anche noi una bella voce...”
Ringhiai. Assieme a lui centinaia di uomini si erano acquattati tra gli alberi, pronti ad attaccare.
Moriremo tutti.
Mentite” affermai, ricaricando il fucile. Il russo si fece avanti, uscendo allo scoperto. Non aveva armi con sé.
Gli unici russi buoni sono quelli morti! Avanti, mio teutonico segugio, proteggiamo il branco!”
Urlai, lanciandomi verso di loro. Il mio Capobranco non meritava il mio sacrificio, ma questo era il mio dovere da Beta.
Mi voltai per cercare il cane. Era scappato.


Torniamo a me, alla voce della ragione di Bastian Faust, Capitano della Furia Nera, intramontabile sole del fronte orientale.
Anita ci deliziò a lungo con la sua voce. Il silenzio attorno a lei era talmente pieno e solido che poteva essere toccato. Nessuno osò interromperla, nessun colpo venne sparato quella sera.
Applausi fragorosi la ricoprirono alla fine mentre lei, con grazia angelica, scendeva dal palco per essere scortata nella sua stanza, un piccolo alloggio ricavato in una casupola fatiscente utilizzata dagli ufficiali superiori. Giustamente non lasciavano che girasse libera assieme a centinaia di soldati dagli ormoni instabili.
Ciononostante, riuscii a strappare la possibilità di conoscerla dal vivo. Il mio grado venne d’aiuto.
Mi scortarono nella sua stanza. Gentilissimo, bussai. Decise di accogliermi con un sorriso.
“Cinque minuti” disse una sottospecie di carceriere, sbattendo la porta alle mie spalle.
Improvvisamente fu come tornare ragazzino. Un ragazzino particolarmente stupido, oltretutto.
La stanzina era stata sistemata alla meglio. Quella che un tempo doveva essere una bella carta da parati rossa era stata strappata in più punti, lasciando intravedere la pesante muratura grigia. Un tappeto masticato dalle tarme giaceva impolverato davanti ad un caminetto nel quale scoppiettava un ceppo acceso. Il letto, un baldacchino dalle pesanti coperte incredibilmente nuove, era ammassato in un angolo. Un tavolo con due poltrone campeggiava al centro della stanza. Una bottiglia di champagne aperta ed un cesto di frutta secca completavano l’arredamento.
“Santo cielo” disse la donna, accendendosi una sigaretta. “Prima ho visto un ratto passare. Non c’è nessuno in grado di pulire questo posto?Oh, non faccia caso alle mie lamentele. Faccia come se fosse a casa sua.”
Non si preoccupi, gentil dama. Darò la caccia personalmente al topo. Ma lasci che mi presenti. Capitan Bastian Faust, croce di ferro 1942…
Uh” Più o meno questo è tutto ciò che riuscii a dire. La mia attenzione era focalizzata tutta sulle labbra rosse che soffiavano nel lungo bocchino dorato, la sigaretta al profumo di vero tabacco…
“Vuole una sigaretta? È pallido. Sicuro di stare bene?” Anita mi porse una sigaretta ed un sottile bicchiere di champagne, di quelli dal gambo sottile che pareva spezzarsi sotto le mie dita disabituate alla delicatezza.
“La ringrazio, non vorrei essere inopportuno.”
“Si figuri. E non rimanga imbambolato come un cretino. Si sieda, assaggi la frutta! Questi datteri egiziani sono superlativi.”

Eseguii i suoi ordini mansueto come un cagnolino.
“Lasci che mi presenti...Capitan Bastian Faust ma non si preoccupi, mi chiami semplicemente Basti.”
E la croce di ferro?
“Ah si, dimenticavo. Guardi che bellina. l’ho vinta l’anno scorso.”
Come i peluche alle fiere. Che figura di merda. Lei si complimentò con vago interesse, masticando lascivamente un dattero.
Deglutii rumorosamente quando accavallò sensualmente le gambe. Le conosco io, le donne! È un segnale chiarissimo!
“Sono sciocchezze, queste. Mi chiedevo...”
“Si?”

“Insomma, io sono cittadino tedesco, lei cittadina tedesca...perfettamente compatibili da questo punto di vista...quindi...mi chiedevo se voleva adempiere al dovere della nazione, ecco...sono un ottimo partito e magari domani sono anche morto e lei rimarrebbe col rimorso di non aver potuto adempiere al dovere della nazione...sa no, cosa intendo...”
Mi arrivò uno schiaffo in pieno viso. Fu inaspettatamente forte.
Decisamente, avevo fatto colpo. L’avevo conquistata!
“Ma lei è un porco! Vada via!” La donna afferrò una bottiglia di spumante ancora chiusa, incitandomi a prendere la porta.
“E’...un no? Ne è sicura? Guardi che sono inaspettatamente portentoso!”
“Se ne vada!”

Uscii dalla stanza a gambe levate, seguito da una scarpa volante. Il tacco si piantò contro il muro, prima di ricadere con un tonfo a terra.
“E’ andata meravigliosamente” dissi all’uomo accigliato che mi aspettava fuori dalla porta.
In risposta le sue sopracciglia si avvicinarono fino a toccarsi in un arco di perplessità. Ghignai, massaggiandomi la guancia rossa.
Mi invidiava, sicuramente. Raccolsi la scarpa come fosse un trofeo e mi avviai fuori dall’edificio fischiettando.


Il mattino seguente Maik venne ritrovato all’interno dell’accampamento. Mani e piedi erano state legate con una corda. Accanto a lui vi era una cassa contenente sei bottiglie di Vodka ed un biglietto in un tedesco elementare, recante le seguenti parole:
“Compagni tedeschi, grazie per averci permesso di ascoltare la vostra bella musica. Siamo molto grati, ricambiamo! Ma questo pazzo tenetevelo per voi!”

Note:

*La storia, essendo ambientata nel 1943, definisce l'imprenditore viennese "tedesco" in quanto l'Austria, all'epoca, era stata annessa alla Germania e bandita dalle carte geografiche.
Di fatto, dunque, era tedesco.
 

   
 
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