Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |      
Autore: sonyx1992    26/03/2017    0 recensioni
Immagina, caro lettore, una città sporca, ma non nera, direi piuttosto unta che, quando pioveva, si vedeva l’acqua raggrupparsi in macchioline sui marciapiedi e sull’asfalto, proprio come succede quando sul fondo c’è dell’olio. Dovevi stare ben attento a ogni passo che facevi, altrimenti la scivolata con tanto di botta e conseguente livido non te la toglieva nessuno. L’acqua scivolava dappertutto in quel posto: scivolava sugli ombrelli, sui tetti; scivolava sui muri, sulle finestre; scivolava e scivolava e si raccoglieva in pozzanghere livide e di cielo sciolto. Lo sfondo era perennemente grigio e bianco a causa dello smog, mi racconta mia nonna, di quello smog che sfaldava il cielo, lasciandolo scivolare tra le dita con tetti marroni e tra le loro rugose grondaie, fino a che non si spezzava sull’asfalto e sui marciapiedi di marmo opaco. (...) Si ingobbiva così sotto un piccolo ombrello arrugginito il cui odore di muffa le faceva increspare il naso, mentre con le scarpe nere rompeva quelle macchie di cielo cadute per terra, che si raggruppavano poi in altre pozzanghere.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vicolo Cieco è una storia per me molto particolare. L'idea mi era nata ormai 4 anni fa e voleva essere il racconto della mia vita universitaria, durante la quale ho abitato per l'appunto in un vicolo cieco nella città di Verona. Bè, di quella storia penso sia rimasto solamente il titolo e un significato che piano, piano, è maturato dentro di me nel giro di questi anni e ora, finalmente, sta prendendo forma nei panni di una long che penso si meriti. Blu Angelo è la mia long "commerciale", nata ai tempi di Twilight con vampiri e altri sogni adolescenziali. TI Auguro Di Raggiungere I Tuoi Sogni è un'immancabile fase intermedia e, perciò, confusa. Vicolo Cieco è probabilmente una storia più matura, che quasi sicuramente lascerò in sospeso come mio solito. Ma non si sa mai. Per ora, buona lettura!


VICOLO CIECO

 
 

DUE ORE E VENTISETTE MINUTI

 
 
Tic tac tic tac tic tac.

L’orologio si muoveva lento e deciso negli anni 2000 in Italia, anche se non in modo perfetto: un mio difetto lo portava a incespicare al venticinquesimo secondo di ogni minuto, quasi come se ogni volta avesse bisogno di un attimo in più per poterlo vivere, quasi come se volesse fermarsi un attimo per riprendere fiato. Venti, ventuno, ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque, venticinque. Tic tac tic tac tic tic. Lasciami quel secondo in più per ogni minuto, affinché io possa avere l’illusione di avere un po’ più tempo.

Questo piccolo ritardo finiva per allungarsi sempre di più, distanziandolo dal presente e dagli altri orologi. Ma venticinque anni li si vivono solo una volta, una volta sola ogni minuto di vita. Perciò lasciami in pace, tempo! Almeno finché avrò sempre qualcuno che quando noterà il mio eccessivo ritardo mi riporterà in pari, muovendo in avanti la lancetta.
Era questa la base dei miei pensieri in quelli che furono i trecentosessantacinque giorni in cui ebbi venticinque anni, anzi trecentosessantasei per la precisione, dato che quello fu un anno bisestile; ottimo, 24 ore in più, 1440 minuti in più, 86400 venticinquesimi secondi in più. I miei venticinque anni durarono un’eternità.

L’Italia di quel 2080 era sempre più logora. Somigliava sempre più a un’arancia marcia, ma finché la bella buccia arancione la copriva, in pochi se ne accorgevano: in genere erano quelli col naso più fino che riuscivano a cogliere quell’odore acidulo e di muffa. Io, nei miei venticinque anni, ebbi costantemente il raffreddore. Niente poteva interessarmi di meno della situazione italiana, continuando a rimandare così quell’obbligato ingresso nella realtà sociale a cui ogni cittadino non poteva sottrarsi. Ma io mi sentivo diversa e credevo di avere un diritto in più: quello di poter restare giovane, di potermi permettere un secondo in più ogni minuto, senza rendermi conto che non avrei avuto per sempre qualcuno pronto a riportare in pari il mio orologio quando il ritardo diventava più visibile. Mia nonna mi racconta sempre che ai suoi tempi è stato peggio, che quando quegli anni 2000 erano appena iniziati avevano promesso tanto fino alla loro vigilia, ma che il giorno dopo capodanno ci si era svegliati solo con un forte mal di testa e una pesante sbornia da smaltire. I suoi venticinque anni erano stati spazzati via da uno starnuto che le aveva liberato il naso da ogni crosta di favoletta infantile che le era rimasta fastidiosamente incastrata dentro, lasciando solo il vuoto di un’età adulta che ti fa sentire l’asprezza di ogni odore.

Immagina, caro lettore, una città sporca, ma non nera, direi piuttosto unta che, quando pioveva, si vedeva l’acqua raggrupparsi in macchioline sui marciapiedi e sull’asfalto, proprio come succede quando sul fondo c’è dell’olio. Dovevi stare ben attento a ogni passo che facevi, altrimenti la scivolata con tanto di botta e conseguente livido non te la toglieva nessuno. L’acqua scivolava dappertutto in quel posto: scivolava sugli ombrelli, sui tetti; scivolava sui muri, sulle finestre; scivolava e scivolava e si raccoglieva in pozzanghere livide e di cielo sciolto. Lo sfondo era perennemente grigio e bianco, a causa dello smog, mi racconta mia nonna, di quello smog che sfaldava il cielo lasciandolo scivolare tra le dita con i tetti marroni e tra le loro rugose grondaie, fino a che non si spezzava sull’asfalto e sui marciapiedi di marmo opaco. Con questo non intendo che mia nonna avesse le mani ruvide e con le grinze già ai suoi venticinque anni, ma nei giorni di pioggia in quella città di olio e smog, a volte i polpastrelli le si increspavano e si sentiva appesantita da qualche anno di più. Si ingobbiva così sotto un piccolo ombrello arrugginito il cui odore di muffa le faceva increspare il naso, mentre con le scarpe nere rompeva quelle macchie di cielo cadute per terra, che si raggruppavano poi in altre pozzanghere.

Mia nonna non vedeva l’ora che i suoi venticinque anni finissero. Per questo motivo, quando era a casa si ritrovava sempre a fissare insistentemente l’orologio appeso alla parete. Una volta, mi confida avvicinandosi all'orecchio e sussurrandomelo, spostò pure la lancetta in avanti di qualche ora. Immagino che anche tu allora possa capirla, caro lettore, quando arrivò il momento della fine dei suoi venticinque anni e sopraggiunse, malvoluto, il rimpianto di quel gesto che la portò a perdersi ben due ore e ventisette minuti della sua vita (di due ore e ventisette minuti, l’avevo portato avanti. Esattamente di due ore e ventisette minuti). Non era un tipo molto paziente mia nonna, questo l’ho capito fin dal primo momento in cui ha insistito per raccontarmi questa storia (aspetta, nonna! Aspetta! Tic, tic. Ma lei si alza e sposta di nuovo quella lancetta che ha inciampato una volta di troppo). Al giorno d’oggi non è più così, nonna, le ricordo: nel 2080 i venticinque anni vuoi che non finiscano mai e quando osservi l’orologio speri solo di vedere quell’inciampo della lancetta (incredibile come cada sempre nello stesso punto). Ma no! Risponde lei, lasciami finire, dove eravamo rimasti? Ah sì, al cielo che increspava le mie dita e mi faceva sentire più vecchia. Nei primi anni del 2000 però, si preferiva la parola “matura”. Avevo l’impressione che il mondo volesse farmi sentire continuamente come una mela, una mela dalla buccia fine che nel momento della maturazione poteva essere mangiata, ma prima, bè, prima eri troppo acerba e al primo morso ti avrebbero sputato fuori con le labbra raggrinzite per il gusto aspro. Maturare prima che a qualcuno venisse l’idea di mordermi, era probabilmente un ansioso traguardo che abitava dentro di me.
“E ti hanno mai morsa, nonna?”
“Ma cosa dici? Ma mi stai ascoltando? Lasciami finire invece di interrompermi. Non devi andare a casa? Non hai altre cose da fare?”
“No, nonna, ho tempo. Continua a raccontare”
“Bè, finalmente, dove eravamo rimaste? Ho perso il filo del discorso un’altra volta, dove ero arrivata?”
“Parlavi di mele mature e di mele acerbe che ti fanno increspare le labbra, nonna.”
“Certo, certo. Me lo ricordo bene.”
Distoglie lo sguardo, mia nonna, e lo punta sull’orologio a muro che sta esattamente davanti alla sua poltrona, in linea diretta all’incurvatura dello schienale. Stringe le dita raggrinzite sui braccioli e il modo nervoso in cui lo fa mi porta a pensare che forse vuole alzarsi e spostare avanti l’orologio.
“Vuoi che me ne vada, nonna?”
“Ma che dici?”, ribatte lei. Libera la presa e le dita tornano pallide e molli, afflosciandosi come fossero gomma sulla sue gambe; ma la storia di mele e pioggia e città di smog non continua.
Fisso a mia volta l’orologio e la lancetta dei secondi inciampa, sempre su quel venticinque. Quanti sgambetti mi rimangono?
 
Due ore e ventisette minuti, torna a dire l’impaziente narratrice, che nel suo attimo di nervosa osservazione del quadrante rotondo, si è raccontata in silenzio il resto della storia. Ma è di quello che volevo raccontarti, di quel tempo perso, di quelle lancette che infantilmente spostai. Quelle furono le due ore e i ventisette minuti più lunghi dei miei venticinque anni. Ancora mi sembra di viverli oggi, in questo momento, esattamente adesso. Eppure so bene che in realtà non sono nemmeno mai esistiti. Dopo aver commesso quell’ingenuo crimine contro un quadrante innocente, uscii di casa e mi stupii di vedere come la notte apparisse ancora chiara e che le stelle non erano ancora spuntate.
“Ma nonna, è normale, avevi spostato l’orologio in avanti no? Perciò, nonostante fossero le 8 di sera, tu eri già passata alle 10.27, mentre il resto del mondo era rimasto indietro”. Mi fissa con lo sguardo un po’ perso e gli occhi un po’ opachi e mi domando se il cielo grigio della sua città di allora avesse quel colore accecante. Mi zittisco e la lascio continuare nel suo racconto, di come la sera, quella volta, si fosse schiarita e il giorno sembrava averle dato del tempo in più. Un tempo che, ironico! Lei non aveva mai desiderato. Voleva far correre i suoi venticinque anni, non avere due ore e ventisette minuti di giornata in più.
Camminando per le strade con la testa in aria e i pensieri persi, non si era accorta del frammento di cielo sul marmo opaco del marciapiede e con il piede ci era finita dentro, schizzandolo dappertutto, la maggior parte sui suoi pantaloni. Allora lo sguardo le cadde in quelle piccole pozzanghere che la città unta già aveva ricreato, e vide mille volte se stessa, sagoma nera su sfondo chiaro.
“E fu così che conobbi tuo nonno!”.
Nonna, questa storia non ha senso, le faccio notare.
Ma, ahimè, caro lettore! Già ha smesso di dedicarmi il suo tempo e i suoi occhi sono tornati a puntarsi su quell’orologio e su quelle due ore e ventisette minuti guadagnati in modo assurdo e illogico, mentre le lancette incespicano e inciampano per l’ennesima volta. Tic tac tic tac tic tic.
   
 
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: sonyx1992