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Autore: Adeia Di Elferas    28/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Che si impicchino con un metro di corda...” borbottò Francesco Gonzaga, mentre impilava le ultime monete necessarie a pagare l'ingente quantità di botti di vino con cui era alla fine riuscito a sedare la rivolta: “Sembra che non abbiano mai visto una donna in vita loro! Come se non ce ne fossero abbastanza tra il seguito! Proprio di una di queste parti dovevano incapricciarsi..!”

L'oste che aveva provveduto, in cordata con altri di paesi vicini, a rifornire il Marchese di Mantova, fece un sorrisetto accomodante e ricominciò a contare i quattrini, pensando che, se a ogni rissa scoppiata per una donna contesa lui avesse guadagnato così tanto, avrebbe volentieri fornito la materia prima di persona un giorno sì e l'altro pure.

Gonzaga gli chiese se il compenso fosse adeguato e l'uomo annuì, soddisfatto, lasciando ricadere con uno scroscio musicale tutte le monete nel sacco che si era appositamente portato da casa.

Il Marchese gli fece segno di andarsene e, non appena l'oste fu lontano, Francesco sbuffò e si chiese che avrebbe detto di lui sua moglie Isabella, quando avesse saputo della sua folle spesa.

Forse l'avrebbe capito. Isabella era una donna pratica e poco incline a scandalizzarsi per le coese del mondo.

Per una stupida donna del luogo che si era ritrovata incautamente a passare proprio accanto alle tende dei soldati, italiani e tedeschi avevano trasformato il accampamento di Francesco in un vero e proprio campo di battaglia.

Se il Marchese avesse dovuto dire esattamente chi avesse cominciato e perché, non avrebbe saputo dirlo. L'unica cosa che gli era chiara era che quando lui e gli altri comandanti erano riusciti a placare gli animi dei fanti, i morti si potevano contare già in numero considerevoli, tanti da riempire almeno quattordici carretti.

Con Novara che non accennava ad arrendersi, al Marchese tutto serviva fuorché un simile contrattempo.

Così aveva speso parole accorate e scelte con cura e pareva essere riuscito nella tragica impresa di far ragionare uomini per lo più analfabeti, affamati e frustrati dalla lunga e inutile campagna militare.

Verso la fine dell'arringa, però, quando Francesco aveva provato a parlare di colpe e punizioni, si era riacceso lo scontro e c'erano stati altri morti.

L'unico modo non cruento per chiudere in fretta la questione era stato mandare qualcuno a comprare del vino, parecchio vino, e far sì che i contendenti annegassero i loro dissidi nel nettare di Bacco.

Per fortuna aveva funzionato, ma ora Gonzaga si trovava ugualmente dei corpi da sotterrare e dei soldati tanto ubriachi da non stare più in piedi.

Lanciò uno sguardo alle mura di Novara, che si stagliavano ancora inviolate davanti al suo campo base.

Quanto avrebbe voluto poterli mandare tutti a quel paese e tornarsene a Mantova, tra le braccia della sua Isabella...

 

Virginio Orsini spiegò con cura il foglio su cui avrebbe scritto la sua lettera e si domandò se potesse sperare di avere fortuna.

Già aveva assicurato l'appoggio dei Baglioni e di Giovanni Bentivoglio, e non era poco, ma chiedere un sostegno anche a Caterina Sforza forse non era una mossa saggia.

La verità era semplice: gli sarebbe stato comodo sapere di avere una possibile via di fuga attraverso le terre della Tigre e magari anche qualche aiuto in termini di uomini, foraggiamento e artiglieria, e quindi non poteva astenersi dal chiederle una mano.

Aveva già raccolto seicento uomini d'armi esperti e tremila fanti. Stava per partire alla volta di Siena, attirato dai mille ducati promessi dal nipote Piero Medici, ma avrebbe preferito non farlo.

Benché si trattasse del figlio della sua defunta sorella Clarice, Virginio non provava per lui alcun trasporto, alcun affetto, men che meno rispetto o stima. Era sempre stato uno sconosciuto per lui e la sua manifesta incapacità di certo non gli avevano fatto guadagnare punti agli occhi dello zio.

Però, erano tempi di magra, quelli. La partenza dei francesi aveva lasciato nelle signorie italiane il desiderio di pace e per un uomo come Virginio – che aveva di recente rifiutato di partecipare all'assedio di Novara, senza per altro pentirsene – la pace equivaleva più o meno alla fame.

Il Fatuo rivoleva Firenze e aveva chiesto aiuto proprio a Virginio, in riguardo al legame non solo con lui, ma anche con Paolo Orsini, che non aveva mai abbandonato l'esiliato fiorentino.

'Bisogna agire adesso che Savonarola è messo in discussione – aveva scritto proprio Paolo, per convincere Virginio – e che i Popolani non sono ancora abbastanza forti. Restaurare Piero sarà possibile, se agiremo in modo accorto e ben ponderato.'

Paolo, secondo Virginio, aveva agito da stupido. A fine agosto, dopo la lunga assenza, era corso a Firenze, protetto da un salvacondotto, a lamentarsi delle perdite che aveva subito difendendo il Fatuo al Mugello e in tutta risposta i membri della Signoria lo avevano quasi minacciato di arrestarlo, malgrado il documento che gli garantiva la salvezza.

Così, in uno slancio di rabbioso orgoglio, Paolo era tornato da Piero e aveva deciso di dedicarsi anima e corpo a quella difficile impresa.

Il primo passo sarebbe stato assediare Gualdo Cattaneo, ma Virginio tergiversava ancora. Non gli piacevano i maneggi veneziani in Romagna né l'apparente immobilismo del papa. C'era qualcosa di strano nell'aria e, malgrado i segni smentissero questa ipotesi, almeno per il momento, l'Orsini non era convinto che i francesi avrebbero lasciato perdere l'Italia tanto facilmente. Se n'erano andati, ma non per questo bisognava credere che non sarebbero tornati.

Si accomodò sullo sgabello da campo, facendolo cigolare e diede uno smarrito sguardo alle pareti di stoffa del suo padiglione. Il vento, forte in quei giorni, scuoteva la tela, ma almeno non faceva ancora freddo.

Si sentiva ormai troppo vecchio per quel genere di vita. Avrebbe preferito potersene tornare a Bracciano, con la sua famiglia, e lasciare in mano tutto quanto a sua sorella Bartolomea. Non che lei fosse giovane...

Con un breve gemito di riluttanza, Virginio intinse la punta della penna nell'inchiostro e poi cominciò a scrivere il suo messaggio per la Tigre.

'Vi porgo le mie sentitissime condoglianze per la morte di colui che sapevo essere a voi caro sopra chiunque altro e non so dire parole per alleviare il dolore che tal perdita deve avervi portato, tuttavia, mia cara amica, conoscete il mio animo e mi sapete uomo di presenza di spirito. Questa mia, oltre che essere misero mezzo per mostrarvi la mia partecipazione al vostro dolore, è dovuta a scelte di guerra che potrebbero essere a vostro interesse.'

 

Lucrezia Landriani teneva il nodo dello scialle che le drappeggiava le spalle con entrambe le mani, mentre osservava silenziosa l'andirivieni di soldati che marciavano sotto la finestra a cui stava affacciata.

La rocca di Ravaldino era tutta un fermento, ma non era nulla rispetto al resto della città. La madre della Tigre aveva accolto con grande stupore la notizia del reclutamento a tappeto ordinato sa sua figlia, ma quando aveva provato a chiederne conto proprio a Caterina, questa le aveva fatto capire che non erano argomenti adatti a lei.

Lucrezia si era sentita di nuovo come molti anni prima, quando era poco più che una ragazza, quando la sua storia con Galeazzo Maria era ancora piena di vita, ma altrettanto complicata. Lui le diceva sempre frasi come 'non puoi capire' o 'non sono discorsi per le tue orecchie', e lei, ogni volta, fingeva di dargli ragione e non tentava di sondare oltre i suoi pensieri.

Adesso anche Caterina sembrava reputarla troppo distante dai giochi di potere e dalle logiche della guerra per ammetterla nella cerchia di coloro con cui discutere di certe cose.

Questo la faceva soffrire, ma mai quanto quello che aveva sentito dire in quei giorni da alcune delle guardie delle carceri della rocca.

“Andando avanti così – aveva detto uno dei soldati, appoggiato mollemente alla sua picca – non ne resteranno più, alla fine. Ne fa fuori quasi uno a notte. Ne ammazza uno una notte sì e l'altra no, per essere larghi...”

L'altro aveva alzato le spalle e aveva commentato, togliendo ogni possibile dubbio a Lucrezia: “La Contessa può far quel che le pare e questa gente è qui dentro per un motivo, no? E allora che si arrangino.”

A rischio di scatenare uno scatto di collera della figlia, la donna aveva cercato di indagare anche presso di lei sulla veridicità di quelle chiacchiere e Caterina, con un candore agghiacciante, aveva solo detto: “Trovami un Pazzi ancora vivo in Firenze, e io lascerò vivere gli eredi dei Marcobelli, degli Orcioli, dei Ghetti, dei Delle Selle e di tutti gli altri.” poi aveva sollevato un sopracciglio, assumendo un tono apparentemente sorpreso, aggiungendo: “Hai amato un uomo che era peggio di me e lo hai sempre giustificato, per qualunque cosa facesse. Io sono tua figlia, credo che tu possa essere altrettanto indulgente col sangue del tuo sangue, no? Quindi non fingerti troppo contrariata dal mio comportamento.”

Così, mentre i soldati si addestravano, Lucrezia non poteva fare altro che chiedersi cosa mai avesse in testa Caterina. Voleva davvero una guerra? E contro chi? Sperando di ottenere cosa?

L'aveva sentita, più di una notte, lamentarsi nel sonno. Quando non scendeva nelle segrete a sfogare i suoi istinti primordiali con il sangue, Caterina beveva le sue pozioni e si obliava in un sonno tutt'altro che tranquillo.

Lucrezia, in quelle occasioni, passava spesso davanti alla sua porta e la sentiva invocare con voce strozzata dal sonno e dal cuscino il nome di Ludovico Marcobelli e di tutti quelli che aveva fatto cadere sotto il peso della sua personale croce notte dopo notte.

Sua figlia era tanto presa da se stessa e dalla sua ferita, da non vedere altro, neppure quello che aveva in casa propria.

Non vedeva come Bernardino la cercasse di continuo con lo sguardo, nella speranza di un suo abbraccio.

Non vedeva quanto Sforzino e Galeazzo fossero addolorati per la sua distanza e per il suo atteggiamento freddo e distante nei loro confronti.

Non vedeva che Livio stava male di continuo e non voleva capire che sarebbe stato meglio, se solo lei gli avesse dedicato qualcosa di più che non la sua semplice consulenza da alchimista.

Non vedeva il tormento di Cesare, che si era quasi fatto sanguinare le ginocchia per tutte le notti passate in preghiera da solo davanti all'altare del Duomo.

Non vedeva gli occhi pieni di paura e rassegnazione di Bianca.

Su Ottaviano, però, nemmeno Lucrezia sapeva esprimere una valutazione oggettiva. Era colpevole, questo era chiaro a tutti. Avrebbe meritato la punizione peggiore possibile, stando alla legge.

Eppure Lucrezia era felice che Caterina avesse risparmiato almeno lui.

Era l'unica cosa, tra tutte quelle che sua figlia aveva fatto dalla sera del 27 agosto, che si sentiva in dovere di non condannare.

I soldati nel cortile d'addestramento si stavano dividendo in coppie per allenarsi con combattimenti ravvicinati con la spada. Lucrezia, che li osservava dalla finestra, si stupì nel vedere arrivare in mezzo a loro Caterina.

Da quando Giacomo era morto, sua figlia non aveva più preso parte a nessuna attività di quel genere.

La vide mettersi le protezioni e prendere una spada. Poi la seguì con lo sguardo, mentre ingaggiava con uno dei suoi uomini, colpendo con tanta forza e precisione da batterlo in pochi istanti, facendolo finire in terra dolorante e ammaccato.

Lucrezia sospirò, mentre sua figlia passava in fretta a un secondo sfidante, e lasciò la finestra.

Il groppo che di quando in quando le occludeva la gola in quei giorni stava tornando e temeva di non riuscire a contrastarlo. Preferiva, quindi, ritirarsi nelle sue stanze, prima di dare inutilmente spettacolo, nel caso in cui qualcuno fosse passato proprio da quel corridoio.

 

La pioggia batteva sulla strada che si inerpicava verso le porte di Siena e Alfonsina Orsini non riusciva a vedere praticamente nulla.

Teneva il cappuccio del pesante mantello da viaggio quasi sopra agli occhi e quello, assieme all'incessante sferzare dell'acqua, le oscuravano la vista più ancora della sera che avanzava.

I suoi figli erano al sicuro a Roma, ma lei aveva dovuto andarsene, per tutti i costi. Dopo la fuga fortunosa da Firenze, per lei non c'erano in vista i salotti Vaticani, ma la dura realtà.

Doveva stare accanto a suo marito Piero e a suo cognato Giuliano. Era stata una scelta quasi obbligata, per la sua mentalità, e sapere che Virginio e Paolo Orsini, suoi parenti di sangue, sarebbero stati al suo fianco, l'aveva fatta convincere a partire una volta per tutte.

Passò la porta sud della città senza problemi. Le avevano fatto sapere che le guardie di quel lato erano state già pagate da suo cognato e infatti non la fermarono nemmeno, appena lei mostrò come da accordi il giglio fiorentino ricamato sul vestito nascosto dal mantello.

Spaventata, ora che non aveva più i due uomini di scorta che l'avevano protetta fino a pochi chilometri addietro, spronò il cavallo ad attraversare in fretta le vie scoscese di Siena e arrivò, quasi per miracolo, proprio sotto al palazzo in cui stavano nascosti i suoi parenti.

Si fece annunciare, legò il cavallo sotto la pioggia, sperando per la pover bestia che qualche stalliere si affrettasse a metterlo al riparo, ed entrò.

Gocciolava di pioggia e, quando sentì una serva toglierle il mantello fradicio dalle spalle, le parve di rinascere.

Ad accoglierla erano arrivati Paolo Orsini e Giuliano Medici. La salutarono con calore e le chiesero come fosse andato il viaggio. Lei rispose che era stato lungo e scomodo, ma che era felice di essere arrivata sana e salva.

“E mio marito?” chiese, occhieggiando oltre le spalle dei due uomini, illudendosi di vederlo arrivare da un momento all'altro.

Paolo guardò nervosamente Giuliano, mentre ricordava le parole nervose del Fatuo, che aveva dato precise indicazioni per l'arrivo – indesiderato, come aveva più volte sottolineato – della moglie.

“Sapete – prese a dire Giuliano, che, come cognato, si sentiva più in colpa dell'Orsini – è molto stanco... In questi giorni abbiamo dovuto fare molte cose e sta riposando... Ha chiesto di non essere disturbato...”

Alfonsina strinse le labbra e alzò gli occhi al cielo, maledicendosi per aver sperato di trovare un uomo migliore di quello che l'aveva abbandonata da sola a Firenze al momento della sua cacciata.

“Venite – provò a rimediare impacciato Paolo – vi faccio vedere la vostra stanza...”

“Immagino che sia ben lontana da quella di mio marito Piero...” commentò a denti serrati la donna e, dall'espressione dispiaciuta del suo accompagnatore, comprese di aver indovinato in pieno.

 

L'Oliva accavallò con disinvoltura le corte gambe e intrecciò le dita delle mani sulle ginocchia, mentre le sue labbra disegnavano un piccolo cerchio di approvazione: “Proprio come avevate pensato, mia signora.”

Caterina prese una sedia e si sistemò dinnanzi al milanese, impaziente di sapere con esattezza cosa gli avessero riferito le sue spie.

L'uomo sospirò e poi cominciò a spiegare, con il tono di chi sente di aver fatto un lavoro più che pregevole: “Avevate ragione su tutta la linea. Guido Guerra è più solo di un cane randagio. Quando, approfittando della confusione portata dai francesi, si è preso per sé Castelnuovo, sopra Meldola, rubandolo di fatto ai Gottifredi, che se ben ricordate erano subentrati a suo tempo a Francesco Ordelaffi pagando una bella somma, si è tirato addosso l'odio di Ravenna e si sa che ciò equivale a farsi odiare da Venezia. Quindi, da quella parte nessuno correrebbe in suo aiuto, anzi!”

La Contessa fece cenno all'Oliva di proseguire, mentre si alzava e andava a stendere sul tavolone in mezzo alla saletta una delle mappe più dettagliate che aveva, in modo da farsi un'idea ben precisa del panorama politico e geografico.

“Inoltre – andò avanti allora l'uomo, mettendosi a sua volta in piedi e raggiungendo la sua signora, in modo da indicarle i posti citati, man mano che parlava – aveva preso con la forza altri quattro castelletti. Nulla di che, si intenda, ma erano proprietà dell'Arcivescovo di Ravenna.”

Lo sguardo eloquente del milanese lasciò intendere alla Contessa che nemmeno Roma, dopo quello sgarbo, sarebbe stata molto incline a fare gli interessi del Conte Guerra, se mai Alessandro VI avesse dovuto schierarsi per uno dei due contendenti.

“Milano non ha contatti con Guerra, e lo stesso si può dire per Napoli, che è fin troppo occupata con le sue beghe interne – elencò l'Oliva – Firenze non ha affari a Cesena e, anche in questo caso, chiunque restasse al potere della Signoria... Ecco, dubito che aiutare il nostro caro Guido sarebbe il suo primo pensiero.”

Caterina stava passando con lentezza le dita su tutte le città nominate dal suo informatore di fiducia e quando si soffermò su Rimini, una delle poche che avrebbe forse potuto aiutare Guido Guerra a resistere all'attacco, l'Oliva incrociò le braccia sul petto e sporse in fuori le labbra.

“Che c'è?” chiese la Contessa, non comprendendo il motivo di quella postura pensierosa.

“Ecco, mi è stato detto, e sono certo che sia la verità, che Pandolfo Malatesta di Rimini non vede di buon occhio il Conte Guerra.” Oliva sbuffò, mostrandosi un po' contrariato dalla vaghezza delle informazioni che aveva reperito: “Dicono che tra i due ci sia uno screzio molto personale, di vecchia data, roba di anni fa, nessuno sa dire cosa, ma sufficiente a far sì che i due non solo non si parlino più né si scrivano da allora, ma che, addirittura, il Malatesta avrebbe dichiarato più volte di voler uccidere Guerra, se mai gli fosse ricapitato tra le mani.”

A quella inattesa rivelazione, Caterina sollevò un sopracciglio e commentò, nemmeno con un filo di ironia: “Chissà mai di poterlo accontentare...”

Dopo che l'Oliva ebbe riferito anche gli ultimi dettagli, che delineavano per il Conte Guerra uno scenario tutt'altro che roseo, la Contessa lo congedò, ringraziandolo di cuore e chiedendogli di restare sempre in ascolto e di riferirle ogni minima novità.

Una volta da sola, tenendo la mappa sempre ben spiegata davanti a sé, Caterina ripescò dalla tasca nascosta tra i piegoni della gonna la lettera di Virginio Orsini. Non aveva ancora risposto, perché aspettava di parlare con l'Oliva, prima. Adesso, però, sapeva esattamente come ribattere alla richiesta apparentemente candida del suo vecchio compagno d'armi.

Prese il necessario per scrivere e si mese subito all'opera.

'Sarò di vostro sostegno, Virginio, ma solo e dico solo se saprete dimostrarmi la validità della vostra azione, riportando una bella vittoria iniziale. A quel punto potrete contare sul mio appoggio, in termini d'uomini e pezzi d'artiglieria e passaggio. In cambio, che il nuovo governo del Fatuo sia al mio favore, pronto a ricambiare senza indugio i miei servigi con la medesima moneta da me usata.'

 

Se non fosse stato fisiologicamente impossibile, il Cardinale Raffaele Sansoni Riario avrebbe giurato di vedere uscire degli sbuffi di fumo di zolfo dalle narici e dalle orecchie di Alessandro VI.

Il papa era stato raggiunto da un dispaccio urgente proprio mentre si apprestava a iniziare una riunione con la gran parte dei porporati romani, al fine di discutere di alcune iniziative proposte per il Nuovo Mondo – argomento che annoiava a morte Raffaele, e forse lo stesso Rodrigo – e aveva deciso, su pressione del messaggero, di aprire la lettera immediatamente.

Gli occhi dello spagnolo lampeggiarono da dietro il naso aquilino, mentre ripassavano oltraggiati da una riga all'altra e, alla fine, mancando di ogni genere di autocontrollo, il papa si trovò sul punto di stracciare il foglio in mille pezzi.

Se si trattenne, fu solo, probabilmente, per l'intercessione provvidenziale di Oliviero Carafa che, stando a pochi centimetri da Sua Santità, riuscì a fermargli le mani appena prima che si mettessero in azione.

Rodrigo masticò l'aria, fulminò Carafa con lo sguardo, ma alla fine rilassò i muscoli e si impose di rileggere con maggior calma.

Savonarola, quell'impudente d'un domenicano, che Dio lo mandasse in malora, negava tutte le accuse del papa, dalla prima all'ultima, senza alcuna eccezione, e si rifiutava bellamente di sottoporsi al Vicario, come invece Alessandro VI aveva decretato fosse necessario, nella sua ultima missiva.

L'eretico confabulatore, anzi, aggiungeva che avrebbe accettato un giudizio solo dal papa in persona, dato che era lui il capo della Cristianità, lui e nessun altro.

Schiumante di rabbia per il colpo di coda da scorpione dato da Savonarola, Alessandro VI dichiarò chiusa la riunione che stava per aprirsi ancora prima che tutti fossero seduti.

“Fate venire nel mio studio i miei consiglieri, mio figlio Cesare e il mio cancelliere!” ordinò, afferrando con una mano il gonnellone papale e tirandolo su, tanto da scoprirsi le caviglie, in modo da potersene andare il più rapidamente possibile senza inciampare come un seminarista impacciato.

Savonarola aveva giocato la carta estrema. Aveva rifiutato il giudizio del Vicario solo perché era cosciente del fatto che Sebastiano Maggi era da sempre un suo chiaro oppositore. Il papa aveva sperato che proprio per questo motivo il Vicario avrebbe deciso di condannare il domenicano, levandoglielo di torno senza che lui dovesse sporcarsi le mani.

Rimandando in modo tanto arrogante e sfacciato la decisione a Rodrigo, Savonarola aveva alzato la posta.

Se il papa l'avesse perdonato e scagionato, il suo potere sarebbe diventato innegabile e impossibile da ridimensionare e da Firenze avrebbe potuto dilagare chissà fino a dove. Se, invece, Alessandro VI avesse osato dichiararlo colpevole, Savonarola era – evidentemente – sicuro che Firenze sarebbe insorta e avrebbe osteggiato il volere papale forse finanche spingendosi a fare una guerra contro Roma.

Quale che fosse il verso di marcia che Rodrigo avesse scelto di assecondare, il frate sapeva di averlo gettato su una strada stretta e lastricata di pietre scivolose, con uno strapiombo da un lato e una fossa infuocata dall'altro.

 

L'inizio di ottobre si stava dimostrando molto clemente con Milano e perfino il domine magister indugiava spesso fuori dal palazzo di Porta Giovia e a volte, come quel giorno, si dilettava a ritrarre i gatti che si aggiravano tronfi e pigri per tutto il perimetro del castello.

Il felino che aveva preso di mira quel giorno era particolarmente placido e sembrava quasi desideroso di farsi ritrarre, tuttavia, all'improvviso, le sue orecchie si tesero e il suo musetto grigio si voltò di scatto verso il lato opposto del cortile.

Leonardo seguì con il suo sguardo quello del gatto e comprese cosa avesse attirato la sua attenzione.

Sotto i porticati, camminando lentamente, stavano passando Ludovico Sforza e madonna Lucrezia Crivelli, una delle dame di compagnia della Duchessa Beatrice.

Entrambi di oltre quarant'anni, a vederli a quel modo, mentre discutevano tranquillamente nell'aria tiepida dell'autunno, quei due parevano fatti l'uno per l'altra.

Il domine magister indagò il profilo a parer suo troppo affilato della Crivelli e poi quello più grossolano del Moro. Probabilmente non si stavano dicendo nulla di compromettente, tanto che passavano davanti alle guardie senza badare a tenere la voce bassa, comunque davano lo stesso l'impressione di essere immersi in una particolare aurea di intimità che convinceva molto poco Leonardo.

Quando tornò a concentrarsi sul gatto, il genio di Vinci si accorse con disappunto che la bestiolina si era stufata di aspettare i suoi comodi ed era zampettata via senza chiedere permesso.

Sbuffando, Leonardo chiuse il suo taccuino e fece per alzarsi. Mentre lo faceva, i suoi occhi vennero catturati da un'immagine che gli era sfuggita, fino a quel momento.

Da una delle finestre dei piani alti, lateralmente a lui, stava affacciata la Duchessa. Che Beatrice stesse fissando il marito e la Crivelli non c'erano dubbi. E che lo stesse facendo con uno sguardo carico d'odio ce n'erano ancora meno.

Il domine magister sospirò, chiedendosi quando mai ci sarebbe stata un po' di pace, alla corte di Ludovico Sforza.

Si tolse un po' di polvere dalle brache ed evitò di guardare ancora la patetica scena della Duchessa gelosa di una serva, e indusse la sua mente a concentrarsi sui suoi studi privati.

Quella notte gli avrebbero portato qualcosa di interessante, ma doveva stare attento. Il Moro lo apprezzava, ma Leonardo era certo che la sua stima – assieme alla sua protezione – sarebbero venute meno nel momento esatto in cui qualche guardia, sobillata da uno spione qualsiasi, fosse giunta nel suo studio segreto proprio mentre si apprestava ad aprire in due il corpo di qualcuno, fosse anche l'inutile cadavere di un misero condannato a morte che mai nessuno avrebbe reclamato.

“Che mondo difficile...” sussurrò tra sé il domine magister, scorgendo in lontananza il suo modello a quattro zampe che rincorreva allegro e spensierato una gatta rossa e grigia: “Oh, sì, che mondo difficile...”

 
   
 
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