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Autore: Makil_    28/03/2017    2 recensioni
"Sarebbe entrata nel bosco col capo alto, fiero, e lì avrebbe portato la giustizia bianca dei suoi poteri: avrebbe dato a Pancrazio il dono che la morte le aveva dato un tempo, giusto per vederlo soffrire come aveva sofferto lei. Giusto per vederlo morire, proprio come era morta lei. Sheyla moriva ogni giorno, ogni volta che il riflesso del suo volto impresso nelle acque o nel vetro di qualche ampolla le ricordava chi era diventata a causa di chi".
Storia partecipante al Contest "L'Aquila e il Falco" indetto da Jadis_ sul forum di efp.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 La voce delle tenebre

 
Non c’era vita in quell’angolo del bosco attiguo al laghetto melmoso e, cosa più angosciante delle altre,  non c’era neppure morte. Non si poteva dire che quella zona del bosco fosse popolata, né si poteva affermare che fosse vuota. Per molti acri, effettivamente, non si poteva dire proprio nulla di niente. Non c’era stabilità, non c’erano suoni, non c’erano rumori, non c’erano versi: non c’era niente che potesse far capire dove fossero.
La terra era sassosa sotto ai piedi smagriti della donna che era stata un folletto morto e rinato, poi una strega e di nuovo un essere dei boschi. Sheyla aveva paura: non quella solita paura che pervade il cuore e lo stomaco delle persone, né quel tipo di paura che annebbia la vista e distoglie il pensiero dal proprio obiettivo. Sheyla temeva di vivere ancora là dentro, anche se da una parte il suo cuore sembrava desiderarlo ardentemente. Mente e cuore di Sheyla, senza dubbio, si azzuffavano violentemente: la prima le comandava di restare fuori, tornare al cottage, annullare l’incantesimo, darsi alle fiamme per sempre; il secondo le diceva di continuare a camminare, passo dopo passo, piede dopo piede, verso colui che era stato marito e distruzione, ragione di vita e causa di morte.
Elestoria, la pantera dalle forme sinuose e il manto tipico delle tenebre, le camminava al fianco arrancando a passi delicati, il muso ancora bagnato dell’acqua che si era fermata a sorseggiare. Aglaia, invece, volava sulle loro teste, e dall’alto faceva da sentinella per ciò che avrebbe potuto sorprenderli durante il cammino. La ghiandaia dalle penne blu aveva il compito di tenere il loro passo dritto verso quello che doveva essere l’ingresso al regno di Pancrazio, per evitare che il bosco li confondesse a favore del folletto maschio.
«Sei sicura che siamo sulla giusta strada?» chiese Sheyla non poco incerta. Le dolevano i fianchi e i piedi stavano iniziando a sanguinare.
«Non avrei motivo di sbagliarmi» rispose secca la pantera. «Tu, piuttosto, sei sicura che la tua strada sia quella corretta?»
«Non ho mai pensato il contrario.»
«A volte il solo pensare a ciò che potrebbe farci stare bene annulla ogni altro pensiero. Ti sei mai chiesta cosa comporterebbe il contrario, Sheyla Spina d’Argento?»
«No» rispose Sheyla. «E non ho intenzione di chiedermelo adesso.»
Elestoria aumentò il passo e si precipitò più avanti. «Sai che Pancrazio ha scelto un’altra signora dei boschi?»
Sheyla lo sapeva bene: come avrebbe potuto non saperlo? Eppure, sentirlo dire da qualcuno che non fosse il suo pensiero le risultò molto spigoloso. Se non avesse già sanguinato dai piedi, avrebbe iniziato a farlo dal cuore: ma quell’insolita emorragia non l’avrebbe abbattuta né ora né mai.
«Il suo nome è Azyara» continuò Elestoria. «E ora lei si fa chiamare Azyara Frondazzurra. In pochi la temono e in pochi la rispettano, Sheyla, ma Pancrazio ne è ammaliato. Hai idea del motivo per il quale il tuo remoto marito se ne sia invaghito a tal punto? Che sia forse un incantesimo mortale, come dicono in molti?»
«Incantesimo?» fece lei. «L’unico incantesimo mortale di quel mostro è stata la sua nascita. E fu sua madre a darglielo!»
«Vossignoria, vedo l’albero!» cinguettò con un timbro squillante Aglaia, dall’alto. «Vossignoria, siamo quasi arrivati!»
«Bene» mormorò Sheyla. “Iniziavano ad essere stanca”.
Videro l’albero cuore solo poche ore più tardi, quando il nugolo di nebbia fu soffocato totalmente dal verde che proveniva da quel punto del bosco. In quel piccolo tratto di terra in cui immergeva le radici il maestosissimo albero sacro, la terra era fresca, fertile, produttiva, ricca di alberi, cespugli in fiore, ruscelli gorgoglianti d’acqua limpida e fresca. “L’albero si nutre del cibo del bosco e questi si abbellisce ogni giorno di più” erano soliti dire i folletti durante i loro riti dedicati all’albero cuore. L’albero cuore era così chiamato perché pulsava davvero dell’immensa bellezza di tutti i boschi del mondo. Nessun’altro albero avrebbe saputo eguagliare la dolcezza delle sue fronde, il colorito puro dei suoi rami, l’armoniosità della sua chioma, e il pallido legno da cui era costituito.
Il grosso fusto della pianta sorgeva nel bel mezzo di uno spiazzo circolare completamente vuoto, come il collo di un mastodontico gigante sotterrato nel fango e visibile solo per la grande testa e per i suoi folti capelli. Non aveva occhi - questo era ovvio - ma in compenso aveva mille braccia che si allungavano verso il cielo e altrettanti piedi che si inabissavano nell’entroterra più remoto che l’uomo avesse mai potuto conoscere.
«Il reame dei folletti è oltre quel cespuglio» indicò Elestoria. L’ingresso a cui si riferiva era un intricato ammasso di foglie che incorniciavano un insieme di rami curvati a mo’ di arco. Un ingresso modesto e semplice, del tutto impossibile da scovare se non consapevoli della sua esatta posizione, che non lasciava intravedere neppure un minimo di tutta la magia che lo difendeva.
«Tu non puoi entrare, vossignoria.» mormorò Aglaia.
«Come sarebbe a dire?». Quella frase fu un pugno allo stomaco.
«Mi sembrava che sapessi almeno questo, Spina d’Argento» disse lentamente Elestoria superando il folletto femmina e stagliandosi tra lei e l’ingresso. «Il confine tra il mondo conosciuto e quello dei folletti richiede un pedaggio e magia oscura, se non si è più forti del bosco.»
Avrebbe saputo darle il secondo elemento richiesto, non aveva dubbi… ma il pedaggio?
«Che genere di pedaggio?»
«La morte di un accompagnatore.» rispose lei, la rabbia e l’inquietudine impressa nei suoi occhi scuri. Si accorse che Sheyla era divenuta silenziosa e seria. «Scegli tra me e Aglaia e facciamola finita. Ci rivedremo, Spina d’Argento, qualunque sia la tua scelta, qualunque sia la natura del tuo odio.»
Sheyla gettò un’occhiata furtiva all’albero cuore. “Cuore” pensò. “Persino il bosco ne ha uno…” «No» mormorò poi in risposta. «Oggi non morirà nessun innocente.»
Aglaia planò rapidamente sul suolo, Elestoria si mise ritta sulle zampe, incuriosita. «Mia signora, non ci sarà modo di oltrepassare l’ingresso allora. Non si può entrare, se non si attraversa questo portale.»
«Vero» annunciò Sheyla. «Ma si può uscire.»
 
***
 
Il freddo e ruvido manto pallido che ricopriva l’albero cuore le tastava la pelle come il più dolce dei mariti. Il suo tocco era gelido quasi quanto il bacio di una lama sulla pelle, capace di mostrare tutti gli impulsi della linfa che scorrevano nel suo legno.
Pancrazio aveva sempre amato la musica e il canto: ne era davvero stato irretito durante la sua vita. Per questo motivo, Sheyla Spina d’Argento, aveva deciso di utilizzare i poteri che egli stesso gli aveva inconsciamente fornito per compiere la sua missione.
Modulò a lungo la sua voce, si tastò la gola con le dita e massaggiò la pelle del petto. Le note musicali della sua armoniosa voce avrebbero attirato il folletto maschio nella sua trappola, come il cibo lasciato nel paniere attirava a sé le mosche. “Una mosca” pensò Sheyla. “Dopotutto, anche lui è una mosca e io posso schiacciarla con due sole dita”.
Il respiro di Elestoria, appallottolata sulla cresta dell’albero cuore, era udibile anche dal basso. Quello della pantera era un sospiro appena percettibile, in realtà, ma colmo di una forza incredibilmente distruttiva. Aglaia era nascosta nel piccolo cespuglietto cresciuto alla destra di una radice sporgente dell’albero, come in attesa dell’uscita dalla sua tana del più microscopico dei lombrichi, il becco a contatto col suolo, immobile.
Sheyla si accarezzò le braccia, strinse i pugni e socchiuse gli occhi. La sua voce uscì limpida e pura, sacra come il ruggito delle acque nei letti dei fiumi, colorata come il succo della più polposa ciliegia.
 
“Se nei suoi occhi guarderai,
nubi grigi e sangue verde nelle vene
il suo cuore aspro palperai
che nel petto buio ormai tiene.
 
Figlio dei boschi, lacrime della madre,
fanciullo degli alberi e spirito.
Padrone della terra, forza del padre,
creatura della purezza e sogno preferito.
 
Guarda nei suoi occhi,
guarda nella sua mente e nella sua pelle.
Chi bussa? Sì, chi?
È la più bella delle tue ancelle.
 
Sogni dorati, guarda anche questi.
O spirito dei boschi, osservali tutti.
Magro, allettante, che prendi e rivesti
d’oro e d’argento i pianti dei lutti.
 
Cuore di sangue, sangue nel cuore,
saggezza del mondo, mondo dei saggi.
Regna per odio, regna per amore,
nella luna sui colli e nel sole sui raggi.
 
Se nei suoi occhi guarderai,
nubi argentate e sangue rosso nelle vene,
il suo cuore dolce palperai,
che per te ora trattiene”.
 
Il mormorio che si levò al termine del canto lasciò dubbiosa Sheyla per alcuni attimi. Non appena riaprì gli occhi, il suo corpo fu investito da un sussulto.
«Perdincibacco!»
La grottesca figura del suo remoto marito, Pancrazio, era in punta di piedi di fronte a lei, le braccia spalancate e la bocca contorta. Il folletto non era più bello come una volta. Un tempo il suo sguardo, le sue labbra, i suoi riccioli grigi, avrebbero incantato persino la più nobile delle donne. Ma ora Pancrazio era tutt’altro che dal bell’aspetto. Sembrava quasi essere stato schiacciato dal pesante fardello che la vita e la morte avevano ripiegato su di lui. Una giusta punizione, dovette ammettere Sheyla, per un uomo che aveva sempre trattato come un oggetto la propria donna, che non aveva avuto ripensamenti nell’ucciderla, e che non aveva mai saputo rispettare una sola promessa.
La curiosità che manifestavano i suoi occhi, ben presto, fuoriuscì dalle sue labbra rinsecchite come il più grigio dei lamenti.
«Sheyla?». La sua voce era rauca, triste, senza vita.
«Pancrazio, verme dei più miseri angoli del bosco.»
I due folletti guardiani che gli paravano le spalle tirarono avanti le armi d’osso appuntite. Spiedini, nulla più che spiedini, ora che Sheyla aveva conosciuto armi che andavano ben oltre la possanza di quelle lische.
«Giù le armi» li quietò Pancrazio. «Questa è mia moglie.»
Laida creatura” «Come ti permetti» iniziò Sheyla. «Come ti permetti, infido mostro, a definirmi moglie?»
«Perdindirindina, amata, ho sempre dato la vita per te, lo sai bene.»
«L’hai data» fece Sheyla. «Hai dato la mia, insulso uomo dal cuore vuoto.»
«Ho dato la tua?» domandò retorico lui. «Perbacco, chi ti ha detto una cosa simile?»
Sheyla non rispose.
«Sheyla, amata, tu sei morta di tua volontà. Io ti ho solo dato il bacio della sepoltura, quando il tuo corpo mi ha chiesto di essere sepolto accanto a quello dei tuoi genitori. Dolce amata, non piangere e non dannarti!»
Sheyla stava piangendo, vero, ma non per lui. Presto quel furore sarebbe diventato rabbia, e la rabbia avrebbe trovato il modo per uscire dal suo corpo, dalle sue vene, dalle sue mani già spalancate. «Tu mi hai dato una fiala sbagliata, verme. Tu mi hai ucciso avvelenandomi, solo per sposare un altro folletto femmina. Qual è il suo nome?»
«Io…»
«Qual è il suo nome?»
«Azyara.»
Quella parola la fece rabbrividire. «Ammetti ciò che hai fatto e ti sarà data una degna sepoltura, mostro dei più mostruosi angoli di questo dannato bosco.»
«Perdiana! Ammettere cosa, mia amata?»
«Ammetti che tu mi hai sempre rifiutata, ammetti che tu mi hai uccisa in vita e dopo la morte. Ammetti che tu temi per la tua incolumità. Ammetti di avere paura.»
«Calmati, mia amata, perdinci!»
«Chiamami un’altra volta “mia amata” e potrai considerarti morto e sepolto, verme. Se sono qui è solo per questo, tu mi stai solamente rallentando». Era vero? Poteva ucciderlo?
Pancrazio si ritrasse in un breve istante. «Sono armato, Sheyla. Non converrebbe a nessuno dei due farci ancora del male. Torna con me nel bosco e finiamola qui. Forse sono stato codardo, forse…»
«No» concluse Sheyla. «Hai idea di cosa ho dovuto sopportare per tutto questo tempo? Hai solo lontanamente idea di cosa io ho dovuto soffrire? Hai idea di quanto male mi hai fatto? Tu non hai assolutamente idea di quel che sono diventata e di quel che potrei farti ora, verme. Su mio ordine, dovrai uccidere Azyara, per prima cosa.»
«Perdiana, Sheyla, è come chiedermi di tagliare l’albero cuore. Io… io non posso… io… io l’amo.»
Sheyla piantò avanti le mani e sentì il potere risalirle lungo le dita in un battito di ciglia. Un solo colpo e quel folletto sarebbe crepato. «Ripetilo se hai coraggio!». Le sue guardie tennero le spade diritte nelle loro salde prese. Sheyla iniziò a piagnucolare con più intensità. Il dolore che provava nel vederlo era superiore a qualsiasi ferita sanguinante del suo corpo.
«Sheyla…» mormorò terrorizzato lui. «Abbassa le tue mani… sono così dolci… così belle…»
Sheyla chiuse i pugni e le sue unghie scavarono un solco nella pelle. «Perché mi hai avvelenata? Dimmi ciò che voglio sapere e poi me ne andrò.»
«Mia amata…»
Riportò avanti le mani spalancate. «Ho detto che non devi chiamarmi in quel modo. Un’altra volta e queste tue parole saranno la tua  morte definitiva.»
«Io l’ho fatto per salvarti.»
«Da cosa?»
«Da te, Sheyla. Avresti avuto morte e distruzione se avessi saputo che io non ti amavo più, se solo avessi sentito che io ti tradivo con un altro folletto femmina. Pensai che, forse, la migliore delle vie sarebbe stata il renderti per sempre cieca, per sempre muta. Ma tu eri troppo potente, io troppo debole. Come potevo riuscire nel mio intento, se non sfruttando la tua più grande fragilità, il tuo desiderio più puro? Ne sono dispiaciuto, ora più che mai… se solo potessi rifarmi…»
«Avresti potuto» corresse lei. «Ora è troppo tardi; ora è troppo il dolore che mi investe.»
«Io non avrei mai voluto vederti piangere, mia dolce amata…»
Quella fu la sua condanna a morte: Sheyla non si trattenne un secondo di più. La sfera d’energia che scagliò fu deviata da Pancrazio, che fu rapido nel coricarsi per terra. Non ebbe il tempo di lanciarne un’altra, che il Signore dei Boschi stava già scappando. «Prendetela! Uccidetela un’altra volta! Quella donna è fuoco, distruzione. Quella donna è morte!»
Sheyla balzò, si tirò indietro. In quel momento il caos ebbe la meglio.
I due cavalieri si duplicarono l’uno dietro l’altro, e presto l’albero cuore fu circondato da folletti armati fino ai denti. Aglaia planò rapidamente, salvò Sheyla dall’infilzamento acciuffandone uno per la collottola e mandandolo a rotolare altrove. Poi la ghiandaia iniziò a combattere ardentemente contro ognuno dei cavalieri. Come un cavallo imbizzarrito, Elestoria iniziò a balzare da una parte all’altra dello spiazzo, lasciandosi il suo splendore alle spalle, fino a che non fu sporca di fango e sangue di tutti quei cavalieri a cui strappava di dosso armature, armi e arti. La purezza dell’albero cuore fu presto profanata dinanzi agli sguardi di molti folletti ben più che atterriti.
Colpiscili”. Una sfera lattea di energia si schiantò contro il corpo di un folletto, che volò lontano dimenandosi, senza più armature o armi a difenderlo. Da dietro, venne colpita alla spalla dal freddo tocco di una lama. Si voltò di scatto, alzò le braccia e creò una sfera di luce, che scagliò con violenza sul capo del suo aggressore. Questi iniziò a tremare con furia, si contorse per terra e cadde sfinito, morto.
Ben presto si trovò circondata; Aglaia era prigioniera di un gruppo di folletti, Elestoria, coricata su un solo fianco, era divenuta una sola cosa col fango. Al centro della folla fece il suo ingresso Pancrazio, anch’egli con una daga alla mano.
«Mi spiace, mia amata» sussurrò. «Questo sarà un gesto di carità che non avrei mai voluto concederti.»
Il bacio dell’acciaio…”. No! La morte non l’avrebbe acciuffata un’altra volta. Pancrazio non poteva ridarle quel dono. Lui non era nessuno per fare del suo corpo un semplice oggetto nelle mani oscure della morte; lui non avrebbe mai sottratto a Sheyla Spina d’Argento il suo corpo preferito.
La strega-folletto alzò le mani al cielo, che si illuminarono di una luce immensamente bianca. Una sfera d’energia pura, allo stato brado, s’ingigantì nella sua morsa. In breve, per pochi istanti, il sole tornò a splendere nel bosco dei folletti. Poi, Sheyla scagliò la sfera contro il suo più oscuro nemico, e continuò a tenere dritte le mani finché non sentì il suo sangue ribollire, finché le sue forze non vennero meno e la fecero barcollare all’indietro fino a farla ricadere sulle natiche.
Ci furono diversi bagliori, tutti di diversa intensità, che infine si quietarono nel bianco più acceso. Sheyla non riuscì più a vedere nulla, ma poteva sentire il freddo buio gravare attorno al suo misero corpo e a quello di tante altre vittime: Pancrazio compreso.
Sheyla non ricordava di aver mai assistito a qualcosa di simile. In lontananza, in quello che sembrava essere lo spettro di un immenso corridoio bianco, apparve la sagoma di una vecchia conoscenza. I suoi occhi color brace erano furenti, le folgori che dipingevano le sue braccia erano affamate ed insaziabili. Conosceva quell’essere dalle fattezze fin troppo umane  – la morte – più di quanto non conoscesse la sua stessa vita.
Il corpo invisibile della creatura dagli occhi di sangue le si avvicinò. «Hai perso, donna.»
Sheyla non riusciva a fiatare né a replicare. Fu in quel momento che capì che la vita era venuta nuovamente meno e che la morte, nel bene o nel male che la situazione avesse portato, era divenuta di nuova la padrona della sua esistenza.
«Sono venuta a reclamarti oggi.»
Le folgori che saettavano nel suo corpo presero a vibrare. Un solo gesto, la mano della morte si alzò con un furente colpo. La strega-folletto osservò il dilaniarsi lento delle sue carni, lo spogliarsi rapido della sua pelle, la separazione del suo corpo dalla sua anima linda. Poi vi un boato che investì ogni cosa: luce, null’altro che luce. Fiamme contro fiamme, morte contro morte.
Non c’era più nulla a cui aggrapparsi intorno a quel bagliore supremo.
Sheyla fu disintegrata dalla luce, proprio come era accaduto un tempo, ma questa volta il suo cuore era leggero, fresco.




Note d'autore:
Finisce così questa piccola storia... un racconto che ho amato scrivere per il concorso di Jadis_ "L'Aquila e il Falco". Inizialmente la storia doveva essere formata da un solo capitolo ma, come spesso accade, i personaggi riescono quasi a prendere vita via via che si scrive di essi, tanto da forzare la narrazione a continuare. Gli elementi che mi erano stati proposti erano diversi: si trattava, infatti, di un finale senza lieto fine (eh sì), l'immagine di una strega, un folletto, un bosco e una fiala verde. Spero di aver reso bene questi elementi all'interno della narrazione, e li svelo soltanto adesso proprio per chiedervi se sono riuscito nell'intento. Inoltre, dispersa nel terzo capitolo, vi è anche una citazione alla stessa canzone che fa da titolo al contest, e lo stesso titolo dell'opera ha a che fare con l'ambito musicale. Insomma, per ogni domanda sui personaggi sono qui... e lo stesso vale per ogni altra domanda sul racconto e sul finale. Purtroppo non è da me dare un lieto fine alle storie che mi propongo di creare, e il finale che mi era stato detto di scrivere ha trovato tutta la mia approvazione in questo modo. 
Con questa piccola nota - ormai lunga, anzi - voglio ringraziare di cuore tutti i miei lettori silenziosi, Spettro94 e, in modo molto particolare, The3rdLaw, che mi ha supporto assiduamente con i suoi preziosi commenti. 
A presto!
Makil_


 
   
 
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