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Autore: Relie Diadamat    01/04/2017    4 recensioni
A scuola, da poche settimane, è arrivato un nuovo ragazzo. Schivo e saccente, nessuno sembra sapere nulla di lui o intenzionato a conoscerlo. Quando la sua strada e quella di John Watson - un giovane diciottenne che sogna un futuro in medicina, preoccupato per sua sorella e la precaria situazione economica in cui riversa la sua famiglia - si intrecciano, il passato di Sherlock torna lentamente a galla.
Ma ben presto, i fantasmi di Sherlock non saranno l'unico problema da affrontare: i sentimenti diventeranno un effetto collaterale incontrollabile.
*
«C’era un ragazzo, un certo Victor, da cui Sherlock era ossessionato. Sembrava l’unico in grado di sopportarlo, peccato che nessuno l’abbia mai visto.»
«Cosa intende dire?»
«Sherlock Holmes è uno psicopatico che ama sentire roba forte nelle vene.» Sally compresse le labbra mascherando un lieve sorriso, come se non avesse aspettato altro da quando si erano incontrati. «Semmai questo Victor fosse davvero esistito, l’unico responsabile della sua scomparsa sarebbe solo Sherlock».
John sentiva la gola secca, il pugno stretto sulla coscia e nascosto dal tavolo. «Così lo fa sembrare un mostro».
«Dammi retta, John. Stagli alla larga».

[Teen!lock // Johnlock]
[Storia liberamente ispirata al romanzo "Il mio cuore cattivo"]
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nda: Buon salve a tutto il fandom!
Sì, ho iniziato un'altra long che ovviamente non potrò aggiornare spesso e con frequenza, ma dovevo scriverla.
Come detto nell'introduzione, la storia è ispirata al romanzo (stupendo, a mio avviso) "Il mio cuore cattivo", scritto da Wulf Dorn.
Dopo il capitolo trovete ulteriori spiegazioni. Per il momento, vi auguro una buona - si spera - lettura!
 
The Back of the T-Shirt
(Calore latente)

 
 
I. Dirty Paws
 
Dicono che ci sia una ragione se le cose vanno in un modo: la sveglia staccata con metodica precisione, il bus preso alle 7.30 del mattino e il debole chiacchiericcio dei passeggeri mattutini; la solita fermata di tutti i giorni, i passi quotidiani compiuti dall’ormai familiare panetteria dall’insegna ocra sino alla scuola. Azioni banali, ripetute giorno dopo giorno.
Newton affermò: «Ad ogni azione corrisponde una uguale ed opposta reazione», come il ragazzo dai capelli rossi che un giorno appare trafelato sul sentiero ricoperto dalle foglie autunnali, rincorrendo e chiamando ad alta voce il suo cane dopo che questi ha morso la caviglia di uno sconosciuto; il principio di qualcosa d’indefinito che mette i brividi, un incontro di menti che allontana la logica; la morsa alla bocca dello stomaco quando la sua chioma ramata è nei paraggi, lo scombussolamento provocato dal suo odore, il modo in cui la pelle brucia a contatto con la sua; la prima dose di eroina iniettata nelle vene, la scarica di euforia e il ritrovamento di una pace tanto agognata. Gli occhi sempre più stanchi, la bocca sempre più secca, la voglia impellente della prossima siringa… e poi d’improvviso il vuoto, un blackout totale, la perdita della cognizione del tempo. Lui scompare, la sua assenza diventa soffocante, una nuova iniezione l’unico rimedio. Aumentare così tanto le dosi da finire in ospedale, biascicando nella mente il suo nome come una nenia incessante.
Ricominciare daccapo, con le zampe sporche di una sola notte cancellata dalla memoria, l’ultima notte al suo fianco.
Trasferirsi in una grande città, ritornare a scuola e fingere che vada tutto bene.
Dicono che ci sia una ragione se le cose vanno in un modo, ma sarà davvero così?
 
*

 
Si svegliò tenendo gli occhi chiusi per un po’, arricciando contrariata il naso nell’udire la fastidiosissima voce di Lea Michele intonare la prima strofa di Total eclipse of the heart, combattuta tra il tirarsi le coperte fin sopra i capelli o allungare un braccio verso il comodino alla sua sinistra per far tacere quel maledettissimo affare. Optò per la seconda mossa.
Quando finalmente il coro di Glee le concesse un momento di pace dal suo non desiderato risveglio, Molly Hooper si riscoprì stranamente sorridente. L’avambraccio destro sulla fronte, i capelli di caramello sparsi sul cuscino e l’ombra di un sorriso sul viso ancora assonnato. Davvero, Molly? Fai sul serio?
Era patetico – e la sua amica Mena non smetteva di ripeterglielo -, aveva impostato quella canzone come sveglia per un solo ed unico motivo: Sherlock.
L’adorava ed ogni volta che l’ascoltava finiva per perdersi in lunghi sogni irrealizzabili, in cui gli occhi azzurri di Sherlock la guardavano senza la minima traccia d’indifferenza o rimprovero come da routine, ma con una dolcezza che le avrebbe fermato il cuore in un secondo se non fosse che almeno nei suoi rosei viaggi mentali aveva deciso di prendersi una meritata gioia, mentre le mani affusolate del ragazzo si posavano sul suo volto e le sue labbra si avvicinavano sempre di più e…
Davvero, Molly?!
La realtà era che per Sherlock Holmes sarebbe sempre rimasta la Molly Hooper invisibile che consultava – chissà perché, poi – solo in cambio di favori a livello scolastico. Non che ne avesse bisogno: Sherlock Holmes era il ragazzo più brillante, intelligente ed intuitivo che Molly avesse mai conosciuto – ma anche il più egocentrico, egoista e ottuso in caso di sentimenti; parlare con lei, probabilmente, lo aiutava a riflettere ad alta voce.
Sospirò, dirigendosi in bagno per darsi una rinfrescata. Si lavò i denti in pochi minuti, decidendo che avrebbe fatto colazione a scuola, concedendosi il lusso di una barretta al cioccolato del distributore automatico. Indossò una camicetta a tema floreale, s’infilò un paio di pantaloni marroncini e il cardigan beige che sua nonna le aveva comprato per lo scorso compleanno, trotterellando al piano di sotto sulle sue scarpe da ginnastica fuori moda e lo zaino a tracolla sulla spalla destra.
Sua madre doveva già essere uscita di casa. In cucina, attaccato al frigo, trovò il solito post-it verdastro che erano solite lasciarsi tutti i giorni. Ne sorrise di riflesso, alzandosi i capelli lisci in una coda alta, legandoli con un codino. Nel voltarsi, i suoi occhi incontrarono una foto appesa alle pareti lilla della cucina e sentì distintamente una vecchia ferita riaprirsi. Restò immobile con le scarpe piantate sul pavimento in vinile, il riflesso delle sue gambe sul vetro del forno, fin quando un vecchio nodo alla gola non venne a farle visita. Era passato appena un anno dalla morte di suo padre e Molly doveva ancora abituarsi alla sua assenza, al non vederlo più leggere un giornale in soggiorno seduto sulla sua poltrona o con la testa fra le mani e le palpebre abbassate come le capitava spesso di trovarlo nel suo studio. Molly non si sarebbe mai abituata ad un mondo in cui suo padre non c’era più, ma le cose stavano così e non sarebbero mai cambiate.
Stiracchiò le labbra in un mezzo sorriso, soffermandosi per un’ultima volta sugli occhi scuri e malinconici di suo padre, le rughe sul suo viso stanco e la bocca sottile che si sforzava di allargarsi in una curva allegra mentre le cingeva la schiena con un braccio. Poi, uscì di casa.
Anche quella mattina, il cielo di Londra dava prova di come i meteorologi sbagliassero troppo frequentemente: al posto della bella giornata assolata prevista, infatti, nubi argentate regnavano imperiose dall’alto regalando ai londinesi una stereotipata mattina britannica. Molly, le dita strette intorno alla sbarra gialla del bus, pregò che non piovesse; riascoltò per l’ennesima volta la sua canzone preferita del momento, ripensando automaticamente a Sherlock.
Non sapeva nulla di lui e nessuno, a scuola, sembrava conoscerlo per davvero. Era comparso nella sua vita da poche settimane e già si era guadagnato un posto in prima fila nel suo cuore senza fare nulla per meritarselo. Sherlock Holmes era un mistero avvolto in un guscio di superbia e diffidenza; alcuni si chiedevano se fosse davvero un essere umano: poche persone lo avevano visto mangiare e ancora di meno avevano avuto il privilegio d’intavolare con lui una conversazione superficiale che non riguardasse la chimica, la biologia o qualsiasi altra materia per cui Sherlock Holmes mostrasse interesse.
Sherlock Holmes era un arrogante ragazzo allampanato dagli occhi di ghiaccio e ricci capelli castani, così scuri da sembrare neri, trasferitosi da una piccola città alla grande metropoli inglese per motivi che parevano estranei a tutti. Non c’era una sola ragione al mondo per cui Molly potesse anche lontanamente essere attratta da lui se non fosse che, per assurdo, sentiva di comprendere il suo linguaggio segreto: leggeva tristezza, nel suo sguardo, lo stesso velo affranto che aveva riconosciuto negli occhi di suo padre. Sherlock glielo ricordava costantemente e, forse, tutto l’affetto incondizionato che nutriva nei suoi confronti era dettato da quel piccolo particolare.
Non le importava se sarebbe sempre stata un dettaglio insignificante agli occhi dello scontroso e sfuggente Holmes, Molly ci sarebbe sempre stata per lui. Sempre.
 
*
«Non l’ho trovato molto cortese da parte sua sottolineare come lo stress per la prossima verifica si stia incrementando sottoforma di chili accumulati. Gli farò vedere io, ti dico, così vedremo chi di noi due potrà vantarsi di essere una promessa della medicina e… mi stai ascoltando, John? John?»
Mike allungò la mano verso il braccio dell’altro, scrollandolo. John si riscosse dai suoi pensieri come svegliato di soprassalto, puntando disorientato gli occhi verso la faccia tonda dell’amico.«Sì, certo. Sì, ti ascoltavo».
Mike sbuffò una risata, seduto di fronte al biondo, con i gomiti sul tavolo. «Certo, come no.» Seguì con lo sguardo il punto che John stava fissando con insistenza, riconoscendo seduta al tavolo della mensa la figura esile di Harry mentre masticava il suo tramezzino, tutta sola ed in silenzio. «Ancora problemi con Harry?»
Le sopracciglia di John schizzarono in alto, le dita cominciarono a tamburellare in un moto di nervosismo sulla superficie bianca del tavolo. «Metterla in questo modo sarebbe un eufemismo.» Scosse la testa, contrariato. «La settimana scorsa si è scagliata contro nostra madre perché Clara era l’amore della sua vita, l’altro giorno era talmente ubriaca che siamo andati a recuperarla in ospedale, grazie a C.C. che ha chiamato l’ambulanza».
«C.C?»
«Chissà chi», chiarì sospirando, lasciando scivolare via un po’ della rabbia che sentiva ribollire nelle vene quando sua sorella era nei paraggi. «Non so proprio cosa fare con lei, Mike».
Mike osservò per un’altra manciata di secondi la giovane Watson col viso pallido nascosto dalla frangetta biondo scuro, azzardando un mezzo sorriso con una scrollata di spalle. «Almeno so che non è colpa mia se non ho mai avuto chance con lei».
John si concesse una lieve risata senza allegria. Non era sicuro che sua sorella avrebbe notato il panciuto Stamford se avesse avuto preferenze diverse a livello sessuale, ma preferì tenerselo per sé. Voleva bene ad Harriet, era sua sorella, ma da quando aveva capito di provare attrazione nei confronti delle donne era cambiato tutto: non era più lei, era diventata una ragazza che John stentava a riconoscere. I tempi in cui giocavano insieme rincorrendosi nel parco erano finiti, così com’era giunta al termine l’era dei loro lunghi discorsi del pomeriggio, seduti sul divano, a sgranocchiare degli snack. Harriet parlava una lingua tutta sua, che purtroppo John sentiva di non condividere più. «Certe volte vorrei che non l’avesse mai conosciuta», confessò, sentendosi sporco un attimo dopo.
Sentì gli occhi di Mike studiarlo attentamente dietro le grosse lenti dei suoi occhiali, abbassando lo sguardo quando l’amico gli disse: «Non c’è nulla di male, sai, se le piace un’altra donna».
«Lo so, Mike, ma certo che lo so!» rispose. «Non mi fa arrabbiare ciò che lei è, ma ciò che fa per dimostrarlo: non studia, non s’impegna a scuola, non mi parla. Alcune volte ho come la sensazione di essere un estraneo che vive sotto il suo stesso tetto. E ultimamente le cose non vanno bene neanche a casa: i soldi scarseggiano e presto dovrò trovarmi un lavoro, ma questo Harry non lo capisce. Lei… lei non ci capisce».
«Non sarà che magari siete voi a non capirla, a non prenderla per il verso giusto?»
John sollevò le iridi bluastre dal vassoio col pranzo praticamente intatto, incontrando quelle piccole e serene di Mike. Non erano decisamente grandi amici, ma passare del tempo con quel ragazzo gli piaceva: sapeva ascoltare e parlare nel momento giusto, cosa che ultimamente con Sarah sembrava non accadere mai. La sua vita in quel periodo gli pareva un totale casino: con Harry, a casa, con la sua fidanzata…
Si passò una mano sulla fronte, tentando di alleviare almeno in parte tutto quello stress che gli corrodeva le membra. «Forse», gli concesse. «Forse hai ragione».
Mike non disse più niente per un po’. Diede tre morsi al suo tramezzino, gustandoselo in silenzio, sporcandosi i lati della bocca con la salsa. Si pulì con un tovagliolino di carta, dedicando al biondo un’espressione che seppe mettere i brividi a John: la chiamava “espressione-alla-Mike-Stamford”, ovvero un piccolo segnale d’allarme che si accedeva ogniqualvolta l’amico fosse folgorato da un improvviso lampo di genio – che in realtà non erano altro che soluzioni banali a cui nessuno aveva mai pensato, come ad esempio scambiarsi gli appunti di biologia o negoziare con i ragazzi dell’ultimo anno. Adesso che ci pensava, doveva esserci il suo zampino se lui e Sarah si erano rivisti alla festa di Janette qualche mese fa, quando timido come un bambino le si era avvicinato chiedendole se lo avesse riconosciuto. Sarah lo aveva guardato con l’aria di chi la sa lunga, confessandogli che un ragazzo come lui non si dimentica così facilmente, soprattutto se la prima volta ti urta al supermercato. John aveva riso nervoso e per un istante aveva creduto che tutte le sue possibilità si fossero ridotte ad un mucchio di cenere; poi Sarah gli aveva sorriso ancora, con dolcezza, e da quel momento non si erano più staccati l’uno dal fianco dell’altra. Parlarono per tutta la serata, finché le parole non divennero superflue e le loro bocche cominciarono ad assaporarsi, sperimentando sapori graditi ad entrambi. Adesso, a distanza di mesi, John si chiedeva dove fossero finiti quei due ragazzi, e se fosse ancora possibile ritrovarli.
«Hai detto che ti serve un lavoro, giusto?»
La voce di Mike riportò John alla realtà. Quest’ultimo sbuffò una risata, giocherellando col bicchiere di plastica quasi vuoto. «Non mi dire che adesso distribuisci anche posti di lavoro in giro per la città», scherzò.
«No, però conosco qualcuno che potrebbe aiutarti», gli disse, indicandogli col mento le porte della mensa.
John ne seguì la traiettoria, riconoscendo in meno di un secondo la chioma riccia e spettinata del pazzo – così era conosciuto da mezzo istituto -, gli zigomi affilati e gli occhi attenti. Vederlo in mensa era un evento più unico che raro, ma non fu per questo che il biondo strabuzzò gli occhi come se avesse visto un fantasma, voltandosi repentino verso Mike. «Sul serio?» gli chiese retorico. «Lui?»
«Perché no?»
«Non parla con nessuno, perché dovrebbe darmi un lavoro?»
«Infatti non te lo darà», precisò Mike, sotto lo sguardo confuso di John. «Ma suo fratello sì. Per essere ingaggiato basta rivolgergli la parola, gli Holmes hanno occhi e orecchie dappertutto».
«Mi stai prendendo in giro».
«Affatto. L’altro giorno scambiai con quel tizio mezza parola sull’ultima lezione di Chimica e indovina un po’ chi mi ritrovai davanti, qualche ora più tardi, mentre sorseggiavo del tè allo Speedy’s?»
John schiuse la bocca, senza parole. O Mike lo stava prendendo per i fondelli, o il fratello di Holmes era cento volte più strambo di lui. L’unica certezza era che ciò che Stamford gli aveva detto era la più grande assurdità mai udita in tutta la sua vita. «È legale una cosa del genere?».
Vide l’amico scrollare le spalle e raccogliere il vassoio, alzandosi dalla sedia. «Tu pensaci», gli disse, lasciandolo solo con uno sciame d’interrogativi che gli ronzavano nel cervello.
Rimasto solo, scoccò un’occhiata al tramezzino e alla mela ancora intatti, meravigliandosi di se stesso per non aver ancora udito la sua pancia brontolare. Se la situazione con Harry gli aveva fatto passare l’appetito, il nuovo consiglio di Mike lo aveva scombussolato del tutto. Ma in fondo cosa aveva da perderci?
Cercò il giovane Holmes con lo sguardo, tentando di capire qualcosa su di lui – e di quanto gli era stato appena detto – nell’osservarlo mentre sollevava piccole cucchiaiate da ben tre piatti diversi senza mai portare nulla alla bocca. Teneva gli occhi ad una minima distanza dalla posata di plastica, alternando il suo esame scrupoloso dal cucchiaio della mano destra a quello nella mano sinistra. John non aveva la più pallida idea di che diamine stesse facendo, ma continuò a tenerlo sott’occhio, afferrando il frutto e staccandone un morso con fare deciso, masticando piano. Il boccone per poco non gli finì di traverso quando la testa del ragazzo scattò come una molla verso la sua direzione; distolse immediato lo sguardo, abbandonando la mela nel vassoio, alzandosi così in fretta da far strisciare la sedia sul pavimento. Si morse un’imprecazione, agguantando il vassoio, scappando dallo sguardo indagatore del pazzo.
 
*
 
Avrebbe avuto un senso scappare in quel modo dalla mensa, se non fosse che John e il pazzo seguissero la stessa lezione di matematica. John odiava la matematica.
Holmes era seduto ad uno degli ultimi banchi, lo sguardo fisso sulla penna che aveva tra le mani. Sembrava ipnotizzato.
John non si stupì che molti lo ritenessero matto, chiacchierando delle sue strane abitudini. Quel ragazzo sapeva di certo come attrarre l’attenzione su di sé… seppur standosene per conto suo.
Sherlock Holmes era una novità, e come tutte le cose nuove suscitava l’interesse della maggioranza, eppure da poche settimane dal suo arrivo a Londra nessuno sapeva niente di lui. John aveva sentito dire che proveniva da un piccolo paesino, che la sua casa fosse stata posseduta dal demonio e che avvicinarsi a lui fosse pericoloso. Dal canto suo, non ci aveva mai dato peso, ma doveva ammettere che era un tipo abbastanza fuori dagli schermi. E che aveva l’abitudine di alzare lo sguardo nei momenti meno opportuni.
John si morsicò la lingua, chinando il capo sul suo quaderno, fingendo di prendere appunti. Se lo sentiva attaccato addosso, quello sguardo di ghiaccio da lince attenta, fisso sul suo profilo mentre nervoso, John, tamburellava la penna sul banco. Si diede mentalmente dell’idiota per quei vani tentativi di malriuscito spio-il-pazzo-per-riflettere-sulle-idiozie-di-Mike, ripetendo a se stesso che avrebbe bene ad ignorare quella storia e a cercarsi un vero lavoro, con uno stipendio vero e senza lo sporco zampino di Mike.
A dispetto di ogni suo buon proposito, però, appena avvertì di non essere più l’obiettivo visivo di Holmes tornò a sbirciare il viso chiaro del ragazzo concentrato nel nulla, la camicia bianca perfettamente in ordine lasciata sbottonata dalle clavicole in su, coperte in parte dalla sciarpa blu che teneva avvolta al collo; la fronte lievemente corrugata e le labbra carnose serrate in una precisa linea retta.
John lo guardava, e più lo guardava meno ci capiva qualcosa.

*
 
Appena l’ultima lezione volse ufficialmente al termine e il suo orologio da polso segnò le 15 in punto, Molly cominciò a torturarsi le mani percorrendo i corridoi della scuola, lanciando di tanto in tanto occhiate alle finestre delle aule aperte, accertandosi che il cielo non avesse deciso di giocarle un brutto scherzo con grossi goccioloni d’acqua, lampi e tuoni. Per fortuna, non sembrava esserci traccia di pioggia.
Molly tirò un sospiro di sollievo, avviandosi agli armadietti con la tracolla in spalla. Cominciò ad armeggiare con la combinazione finché una risata civettuola non catturò la sua attenzione, spingendo il suo sguardo verso destra dove un ragazzo e una ragazza si tenevano stretti, sussurrandosi parole all’orecchio e scambiandosi fugaci baci sul collo e sulle labbra.
Le sarebbe piaciuto vivere qualcosa di simile, trovare una persona con la quale scherzare e ridere in quel modo. Ne aveva una in mente, certo: Sherlock era sempre il suo primo ed ultimo pensiero, ma una parte di Molly – per quanto ci sperasse – era cosciente che sarebbe rimasto soltanto tale. Una fantasia, qualcosa di irrealizzabile.
È ridicolo, Molly Hooper. Tu sei ridicola. Da quanto tempo conosci quel ragazzo, due settimane? Come puoi ridurti in questo stato per un tizio di cui non sai assolutamente niente.
«Non è vero che non so niente di lui», si rimbeccò da sola, posando i libri dell’ultima lezione nell’armadietto prima di richiuderlo. Una cosa molto importante la so, invece.
Molly Hooper era una timida diciassettenne che credeva ancora nell’amore eterno, quello che ti fa battere il cuore giorno dopo giorno come se fosse il primo, che ti fa stare bene e che ti salva da ogni male. Ci credeva così tanto da pensare di meritarselo, da innamorarsi con un colpo di fulmine dell’ultima persona al mondo a cui avrebbe dovuto pensare.
Se dovesse ripensare al momento in cui Sherlock l’era entrato nel cuore, sarebbe senza ombra di dubbio la prima volta che l’aveva udito suonare il violino nella classe deserta di musica. Con l’archetto nella mano a sfiorare le corde tese dello strumento, diventava una persona completamente diversa da quella che appariva nelle quattro mura del liceo. Sherlock si abbandonava totalmente alla musica, alle note che produceva stando in piedi con le palpebre calate, dando le spalle alla porta chiusa. Suonava parole implicite che non avrebbe mai trovato il coraggio di pronunciare e che Molly non si sarebbe mai stancata di ascoltare. Anche se dietro una porta chiusa, lontano dal suo sguardo, come una qualsiasi ombra invisibile.
Molly sapeva che lo avrebbe trovato lì, anche quel giorno, come il primo Martedì in cui lo aveva spiato in silenzio, tentata dal chiudere gli occhi quando le note diventavano talmente struggenti che pareva che il violino stesse cantando con voce sofferta.
Camminò guidata dal ricordo di quella struggente melodia, sentendosi come un topolino incantato dal pifferaio magico, arrestando titubante i passi quando trovò un’altra persona intenta ad osservare quella piccola fetta di magia. Un po’ le dispiacque dover condividere il linguaggio segreto di Sherlock con qualcun altro, ma si limitò a sorridere come sempre, accostandosi al ragazzo biondo che indossava una t-shirt rossa particolarmente visibile a causa della giacca nera. Questo osservava Sherlock con lo stupore negli occhi blu, così preso dalla sua musica da non accorgersi della presenza di Molly al suo fianco finché non lo face trasalire, dicendo: «Ha un talento innato, col violino».
Lo vide boccheggiare, impreparato al suo intervento. «Sì, è davvero bravo… è incredibile».
«Deve essere il suo preferito».
«Mhm?»
«Bach. Lo suona spesso».
«Oh.» John puntò lo sguardo sulla mano affusolata del ragazzo, osservandone le dita snelle che danzavano sulle corde con un’agilità graziosa. «Piace molto anche a me», confessò, restando ad ascoltare per una manciata di secondi l’Adagio eseguito da Sherlock. Poi tornò con le iridi bluastre su Molly, chiedendole: «Tu sei… una sua amica?»
Non esattamente. Sono la ragazza che gli procura del caffè quando ne ha bisogno, la secchiona non-secchiona che gli passa gli appunti che non ha preso la briga di annotarsi o, ancora, la nullità irrilevante che lo spia da lontano, sperando ancora che un giorno possa notarla.
Rise impacciata, scuotendo appena la testa come a cacciare via quelle fastidiose e dolorosamente vere paroline che il suo cervello le sussurrava. «Sono solo Molly. Frequentiamo lo stesso corso di chimica.» A disagio, spostò il peso del suo corpo da un piede all’altro.«Adesso devo proprio scappare…»
«John».
«Passa una buona giornata, John.» L’ombra di un timido sorriso sulle labbra sottili e Molly andò via con la musica di Sherlock che le risuonava nella testa. Non fu presente quando la melodia si bloccò in una nota stroncata bruscamente e la postura del giovane Holmes abbandonò la sua morbidezza cedendo il posto alla rigidità, il violino ancora sulla spalla e l’archetto ad un soffio dalle corde, mentre il povero John temendo di essere stato sgamato si defilava a passo svelto verso l’uscita.
 
*
 
«Redbeard! Redbeard», sussurrava quel nome con urgenza, sforzandosi di distinguere qualcosa di familiare in tutta quell’oscurità rischiarata dal flebile fascio di luce della torcia, ma le uniche cose che trovò sul suo cammino furono solo escrementi di topo e insetti. Lottò contro l’impulso di vomitare a causa del fetore che regnava in quel posto, tentando di non trattenere il fiato per restare concentrato. Doveva continuare a cercare, in modo da corroborare le sue ipotesi con prove concrete.
Non era tutto frutto della sua immaginazione, non poteva esserlo.
Fece qualche passo avanti prima di impietrirsi sul posto. C’era qualcosa su quelle assi di legno scricchiolanti, qualcosa che gli gelò il sangue nelle vene. Gli bastò mezzo secondo per notare che il sangue era ancora fresco.
«Sherlock».
Sollevò lo sguardo dalle impronte di cane, puntando la torcia di fronte a sé. Si costrinse di non tremare, tradito dagli occhi azzurri sbarrati dallo sgomento e la bocca schiusa in preda al panico.
«Il gioco è appena cominciato».



Relie's Corner

- ODIO le teen!fic con tutto il cuore, quindi dimostrandomi una persona molto coerente ho deciso di iniziarne una. :D
- Non so molto sulle scuole inglesi: ho fatto ricerche di ogni genere, ma sono sicura che scriverò delle assurdità.
- La storia non è una Sherlolly. Per la mia cara Molly ho altri progetti... 
- Le parti scritte in corsivo sono dei "flashback"
- Redbeard è un cane, perché non esiste proprio al mondo che mi uccidano questa mia fantasia mentale. Non esiste.
- Sicuramente ho dimenticato qualcosa - e sto letteralmente morendo di sonno, ma o pubblicavo adesso o mai più xD -, quindi per eventuali chiarimenti chiedete pure!
Intanto vi lascio il link della mia pagina fb --> click
Pareri sempre graditi, ovviamente.

Alla prossima!


 
   
 
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