Fanfic su artisti musicali > EXO
Segui la storia  |       
Autore: cowslipkkoch_    02/04/2017    2 recensioni
How small the probability is to let me gain the ability to bravely love again? This is destiny's generosity, this is the heart's honesty.
 
destino ( = destiny, kismet ): /de·stì·no/, l'insieme imponderabile delle cause che si pensa abbiano determinato (o siano per determinare) gli eventi della vita; spesso inteso come personificazione di un essere o di una potenza superiore che regola la vita secondo leggi imperscrutabili e immutabili.
 
( raccolta di one shots SuChen )
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Chen, Chen, Suho, Suho
Note: AU, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

{ intro: Jongdae non si era mai sentito sporco, peccatore, finché un giorno non incrocia gli occhi di un ragazzo dalla carnagione chiara e il volto angelico. }

 

 

His whisper was the Lucifer

 

 

 

«Il Signore sia con voi e con il tuo spirito. Vi benedica Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.»

 

Quando la messa raggiunse la sua fine, la chiesa man mano andò a svuotarsi, con un flusso di gente che si alzava dalle panchine e andava verso l’uscita, da cui filtravano i raggi del Sole, che brillavano più che mai per quella domenica mattina di primavera; Jongdae si infilò la giacca in modo frettoloso, nel frattempo che si alzava a sua volta dalla panca, prima di poter raggiungere la madre, che di tutta fretta aveva raggiunto il Don dopo il termine della processione.

Infilò le mani nelle tasche e si guardò attorno, ammirando la struttura della chiesa, le sue pareti di quel color crema e le sue decorazioni color oro, ogni cornice che costudiva al suo interno disegni legati alla Bibbia o ai personaggi importanti di questa. Era la prima volta in quattro anni che rimetteva piede in quella struttura – la madre, dopo la morte del marito, aveva deciso di cambiare aria, nonostante il dispiacere della comunità, ma quando si accorse che né lei né i due figli si sentivano a loro agio a Wonju, pensò di ritornare a Siheung, nella loro vecchia comunità –, e poté dire di sentirsi di nuovo a casa. Gli era mancato tanto quel posto, e quando quella mattina mise piede dentro la chiesa, sentì una piacevole sensazione nel petto.

“Jongdae!”, lo richiamò la madre, facendogli segno di avvicinarsi.

Il ragazzo incurvò le labbra in alto e salutò con tutto rispetto il prete, inchinandosi per poi stringergli la mano. Quando le due mani si unirono, per quella stretta, poté sentire il calore che emanava e l’affetto che l’uomo gli aveva sempre mostrato, da quanto poteva ricordare.

“Com’è cresciuto bene questo ragazzo! Ricordo il giorno in cui ho battezzato lui e Jongdeok come se fosse stato ieri”, disse, dando delle pacche dolci alle spalle del ragazzo presente.

Mentre l’uomo chiedeva alla madre dove fosse il figlio maggiore, ovvero Jongdeok, Jongdae si fece nuovamente da parte, così da poter osservare quella chiesa che in sedici anni della sua vita lo aveva accolto. La famiglia del ragazzo aveva sempre fatto parte di quella comunità, senza eccezioni; i genitori si erano persino conosciuti fra quelle panche e si erano sposati proprio in quella chiesa, e insieme ai figli, poi, avevano sempre prestato il loro aiuto, per ogni avvenimento. Il fratello maggiore aveva persino fatto da chierichetto e lui dai dieci anni aveva fatto parte del coro, e insieme erano entrati nel corpo dei boy scout guidati dalla chiesa, finché non dovettero trasferirsi per quei quattro anni. Per una famiglia perfetta come la loro, la perdita del padre era stata un duro colpo da mandare giù, sia per loro sia per chi li conosceva. Era sempre stato un marito fedele, un padre magnifico che aveva insegnato ai figli come essere uomini rispettabili e amava entrambi allo stesso modo, senza preferenze, e un membro della comunità da ammirare e rispettare: andava regolarmente a messa insieme alla famiglia, si offriva sempre come volontario alla Caritas di Siheung e i suoi assegni per donare soldi alle famiglie più bisognose non mancavano mai. Mancava, mancava a tutti, ma Jongdae non si era fatto abbattere da questa perdita, si era fatto forza e aveva deciso che non avrebbe mai fatto morire il ricordo del padre, portando avanti le azioni che aveva fatto in vita; Jongdae ormai all’età di venti anni era ancora un uomo casa e chiesa, se non più di prima, sempre pronto per offrire una mano a chi ne aveva bisogno, ed era il tipo di persona che ogni famiglia avrebbe voluto come figlio o vedere al fianco della propria figlia, come fidanzato e futuro marito.

Perso nei suoi pensieri, non si accorse nemmeno della piccola mano posta sulla sua spalla e subito si girò, trovandosi faccia a faccia con la madre, più sorridente che mai. Non ci voleva un genio per capire che, finalmente, anche lei si trovava a casa, a suo agio.

Salutarono il Don con un inchino rispettoso, prima che la madre potesse prendere sottobraccio il figlio e uscire così dalla chiesa.

 

Quando a diciotto anni – quasi diciannove – Jongdae finì gli esami di terza superiore, non pianificò di andare in alcuna università, a differenza di Jongdeok, che con i suoi ottimi voti ottenne pure la possibilità di entrare in una delle SKY; essendo quindi un adulto senza alcun impegno scolastico, ebbe tutto il tempo per trovare un lavoro – anche se ci riuscì dopo appena due giorni, tutto grazie alle conoscenze che ancora possedeva a Siheung – e riprendere i contatti con i suoi vecchi amici delle medie e superiori, e aveva molto tempo da dedicare a se stesso quando aveva i giorni di riposo. Inoltre, erano circa passate tre settimane da quando lui e la madre erano tornati nella città natale dei figli, e il ritorno nella vecchia comunità della loro chiesta era stato più brillante che mai. Talmente brillante che, nell’ultima domenica, quando delle vecchie conoscenti della madre li raggiunsero fuori dalla chiesa, una delle donne riuscì a mettersi da parte con il giovane uomo e rifilargli nome e numero di telefono della figlia minore.

“Dovresti conoscerla! È una brava ragazza!”, affermò la signora con un grande sorriso, prima di congedarsi e dare un ultimo saluto alla madre.

Jongdae non era amante degli appuntamenti al buio e al momento non cercava nemmeno qualche donna con cui intraprendere qualche relazione, ma comunque, ci andò; quando si presentò nel luogo prestabilito poté notare come la figlia della signora Yoon, Bomi, però, non sembrava tanto convinta, e come le disse che nemmeno lui era interessato, tutto andò nel migliore dei modi.

Jongdae era probabilmente il ragazzo più semplice, simpatico e amichevole del mondo; sapeva bene quando e quando non scherzare, riusciva a tirarti su di morale con una semplice parola ed era sempre lì col sorriso stampato sul volto, gli angoli della bocca perennemente alzati, e solo con uno sguardo potevi dire che era un ragazzo allegro, che sapeva coinvolgerti dopo pochi minuti. Con questo suo carattere, lungo gli anni della sua vita, riuscì a stringere molte amicizie, e anche quella volta, in poche ore, riuscì a stringere un rapporto con la ragazza che prima era contraria a quell’incontro.

“È stato un piacere conoscerti”, affermò lei, a fine serata, con un sorriso stampato in faccia e la mano piccola già in avanti, pronta per salutarlo un’ultima volta. L’altro ricambiò, sorridendo e stringendole la mano, e presto rimase da solo in quel tavolino, a guardare un punto non definito davanti a sé.

Si riscosse dai suoi pensieri solo quando sentì il telefono vibrare contro la gambe e subito lo estrasse dalla tasca, controllando l’ID: Yixing.

“Jongdae, dove sei?”, chiese egli, appena accettò la chiamata.

“Uh, ad un bar ― perché?”.

“Sei mancato alla tua prima prova con il coro”, lo informò, e il diretto interessato sentì mozzarsi il fiato.

Vero, era stato così preso dall’incontro con la figlia della signora Yoon, indeciso se mantenere la sua promessa o rinviare l’appuntamento, che si era proprio dimenticato di quel secondo appuntamento per la giornata; l’ultima domenica, oltre all’incontro con quella donna, il giovane aveva pure avuto modo di parlare con il nuovo direttore del coro della chiesa, e quando seppe che il suo vecchio amico Yixing ne faceva ancora parte, accettò più che volentieri.

“Non sono ancora in tempo, vero?”, chiese, con ancora un briciolo di speranza.

“No”, e lì un sospiro rassegnato gli uscì dalle labbra, “Ma per rimediare puoi offrirmi un frullato”, lo informò l’amico, in parte scherzando e in parte no – se Yixing voleva un frullato, lo avrebbe ottenuto in qualsiasi modo.

Dopo quasi un quarto d’ora i due si ritrovarono nello stesso bar in cui Jongdae s’era visto con Bomi, seduto in un tavolino all’interno e con due frullati posti su di esso, uno al cioccolato e l’altro alla fragola. Iniziarono a parlare, l’amico gli raccontò un po’ com’erano strutturate le prove – e il minore poté costatare che non erano affatto cambiare – e il tempo volò. La conversazione scorse come un fiume in piena, veloce, secondo il coreano, finché l’altro non gli disse qualcosa che catturò la sua attenzione.

“C’è un nuovo organista, sai?”.

 

 

 

҈

 

 

 

Jongdae non era mai stato un peccatore― okay, forse tre o quattro peccati li aveva commessi, ma da ragazzino, quando era stato troppo irresponsabile e non era ancora a completa coscienza delle sue azioni. Ora, che era un giovane adulto completamente cosciente di ciò che compieva, sapeva bene a cosa poteva andare incontro e faceva di tutto per non commettere ancora dei peccati. Era pulito, aveva la coscienza pulita, e se sentiva di aver commesso qualcosa di sbagliato andava subito dal prete a parlare e a confidarsi, per capire se avesse sbagliato o no, e se il Don riconosceva qualche peccato nei suoi gesti, chiedeva perdono nel profondo del suo cuore.

I giorni, le settimane e i mesi passarono tranquillamente, e dalla primavera con il clima mite si passò all’estate, con l’afa e il sole che scottava, fino all’autunno e le foglie che cadevano dagli alberi, leggere. Nel pieno di ottobre, Jongdae si svegliò con in mano un lavoro importante, affidatogli dalla madre la sera prima. Quel giorno era il quinto anniversario dalla morte del padre e, poiché la madre non poteva recarsi in chiesa a causa di un impegno improvviso, chiese al figlio minore di andare al posto suo per accendere una candela e dedicarla all’uomo venuto a mancare. Sua madre era una donna che seguiva molto la routine, e ogni anno, da cinque anni, era sempre andata in chiesa per accendere una candela per il marito. Lui, comunque, non poteva deludere la madre e spezzare quella tradizione che la donna seguiva per il defunto, e quel gesto significava anche onorarlo, in fondo. Se non lo faceva, avrebbe peccato.

 

Entrato in chiesa, si avvicinò come suo solito all’acquasantiera e intinse le dita, così da bagnarle e poi portarle alla fronte, e fare il segno della croce. Solo quando riaprì gli occhi, andando dove c’erano le candele, si accorse di un piccolo particolare: qualcuno stava suonando l’organo. Fece finta di niente, non volendo curiosare. Anzi. Si godette quella dolce melodia, permettendo alle note di occupare i suoi pensieri sia mentre accendeva una candela sia quando andò a prendere un posto su una delle panche vuote, inginocchiandosi e congiungendo le mani, in un pugno chiuso, iniziando poi a pregare. Intorno a lui si creò una bolla di silenzio, immaginaria, nel frattempo che pensava e iniziava a pregare, per il padre (così che la sua anima potesse continuare a viaggiare in pace, ovunque essa fosse), per la madre e il fratello, per se stesso. Sperò per tutti e tre una vita felice, tranquilla, senza ostacoli fin troppo grandi e complicati da superare. Che la madre continuasse a essere felice, senza dimenticare l’amore che il marito le aveva donato e che il fratello rimanesse in salute, e sperò per lui di trovare la donna adatta per lui, da sposare e con cui iniziare una famiglia tutta sua.

Jongdae aprì gli occhi proprio quando sentì riecheggiare nell’aria un lungo Si e sospirò, slegando le mani e alzandosi. Si guardò attorno, vedendo che oltre a lui non c’era nessuno se non un’anziana, nella fila opposta, mentre accendeva una candela e pregava silenziosamente, per poi tornare con lo sguardo davanti a sé.

Il giovane era sul punto di andare, quando la melodia man mano andò ad abbassarsi, fino a cessare. Lì, fu difficile resistere alla curiosità e prima ancora che potesse accorgersene, alzò gli occhi, verso il piccolo balcone in cui era posto il vecchio organo; un improvviso ronzio si fece spazio in entrambe le orecchie e sentì come se qualcosa stesse premendo contro la sua gola, impedendogli di respirare in modo corretto.

Due occhi piccoli, che sembravano ricambiare il suo sguardo.

La pelle candida.

Le labbra piene e rosee.

 

Jongdae si era sempre sentito pulito, ma in quel momento si sentiva sporco.

 

La sensazione d’impurezza  che provò in un luogo così sacro, nella casa di Dio, fu straziante e orribile e sperò con tutto se stesso che fosse solo frutto della sua immaginazione. Pregò se stesso che quel peso al petto fosse solo un’allucinazione. Provò a chiudere gli occhi, così da staccare il contatto visivo con quelli altrui, ma non ci riuscì – quegli occhi così vispi, profondi, quei due pozzi neri in cui una persona poteva perdersi, erano come due calamite per i propri e la frustrazione si fece presente, quando non poté far altro se non guardarlo. Quell’uomo era riuscito a far fermare il tempo intorno a loro, a catturare e mantenere la sua completa attenzione e a farlo sentire inadatto in un luogo cui si era sempre sentito protetto, a casa.

Jongdae non seppe motivare quella sensazione, la quale premeva ancora gravemente contro il suo petto, nemmeno quando uscì dalla struttura, fin troppo velocemente – forse per scappare dallo sguardo dello straniero. Dalla chiesa a casa la sua mente fu annebbiata unicamente dall’ultimo ricordo che ebbe di quell’uomo, prima di dileguarsi: le sue labbra così rosee e all’apparenza morbide, s’incresparono in un ghigno tenebroso.

 

Il peggio arrivò quando tornò il giorno delle prove per il coro: stava scambiando due o tre parole con Yixing, in modo pacifico, finché con la coda dell’occhio vide qualcuno sedersi davanti all’organo; i due sguardi s’intrecciarono e Jongdae sussultò, sentendo un brivido scorrergli per tutta la spina dorsale.

Lui era l’organista.

 

 

 

҈

 

 

 

Jongdae continuò ad andare a messa finché non venne il giorno in cui il coro avrebbe cantato davanti a tutti. Sapeva che era egoista da parte sua, perché una persona in meno nel coro voleva dire – ovviamente – una voce in meno, e uno sforzo maggiore da parte degli altri, così da poterla coprire, ma non ce la fece. Lo realizzò quando s’infilò nelle morbide e candide coperte del suo letto, che non ce l’avrebbe fatta. Non era assolutamente ansia da prestazione, poiché non era la prima volta che cantava nel coro, davanti a chissà quante persone, né paura di sbagliare qualcosa e di mettere in difficoltà gli altri, anche perché avevano provato svariate volte tutto ciò che avrebbero dovuto cantare. Nessuno dei suoi problemi erano legati all’esibizione o alle canzoni da esibire, se non a chi avrebbe fatto da accompagnamento per tutto quel tempo.

L’organista; lui era il suo problema, ciò che lo bloccava e che lo aveva convinto a non andare, di non presentarsi. Perché? Semplice, il solo guardarlo lo faceva sentire peccatore. C’era qualcosa in lui che lo faceva sentire sbagliato, contaminato da qualcosa che alterava la sua mente – o ancora peggio, c’era qualcosa in lui che lo tentava. All’inizio non volle prestarci troppa attenzione, così da fare in modo che tutte quelle sensazioni andassero sempre più giù, nei meandri della sua mente, così che non potesse sentire niente, ma più gli incontri per il coro si fecero più presenti e più non riusciva a trattenere la verità. Lo sconosciuto (ancora non si era azzardato a chiedere il suo nome, non voleva saperlo) sembrava sempre guardarlo, quando volgeva anche solo un attimo il viso verso la sua direzione ecco che i due sguardi s’incontravano, e quando il secondo distoglieva lo sguardo, sentiva ancora l’attenzione dell’altro bruciare sulla sua pelle, insistente. Per non parlare delle sue labbra, e il giovane uomo voleva continuamente colpirsi quando finiva per guardarle, pensarci. Così rosee, perfette, lucide – tentatrici. Aveva poche certezze nella vita, e in quelle vi era la certezza che l’altro si mordeva le labbra o le umidificava proprio quando lo guardava, di proposito, così da poter attirare e mantenere la sua attenzione.

Forse, se quel giorno non fosse andato, fingendosi malato, i pensieri impuri si sarebbero placati, avrebbe trovato di nuovo la pace in se stesso e la domenica seguente avrebbe donato la sua presenza durante la messa.

 

O almeno così credette, stupidamente.

 

La verità, la realtà era un’altra: Jongdae non smise di pensare all’organista; i pensieri sui suoi sguardi, su come il corpo bruciasse sotto l’attenzione altrui continuarono, e i pensieri sulle labbra altrui non si fermarono, anzi. Aumentarono.

Il giovane volle strapparsi i capelli, piangere e sfogare la sua frustrazione su qualsiasi cosa, in qualsiasi modo, perché era incapace di togliersi dalla mente il viso di quell’uomo di cui non conosceva nemmeno l’identità. Non aveva mai osato fantasticare su ragazze e donne, né in tre anni di superiori né in quell’età – perché ora nella mente non aveva altro che il chiodo fisso dello straniero? Gli faceva solo ribrezzo ammettere che era andato ben oltre ai semplici pensieri, perché sì, certe notti, quelle più buie e silenziose, nella mente del giovane si formarono immagini di loro due, scenari lascivi in cui non si guardavano e basta, ma dove le mani dell’uomo scorrevano sul suo corpo, calde, e le labbra si scontravano contro le sue, fameliche.

Jongdae con riluttanza accettava la verità, quella dove faceva pensieri viziosi su un uomo, in situazioni ben lontane dal casto, dalla semplice quotidianità, ma presto avrebbe divaricato se stesso da quel flusso di pensieri.

 

“Dove stai andando?”, chiese un pomeriggio la madre al figlio, quando lo vide uscire di tutta fretta dalla sua stanza, già con indosso la giacca.

“Uhm― in un posto, mi devo vedere con un amico”, disse il diretto interessato, prima di prendere le chiavi e salutare la madre.

Non poteva dirle la verità.

Più deciso che mai, s’incamminò verso il luogo in cui era collocata la chiesa, e cercò in tutti i modi di rilassare le spalle, la mascella, quando allungò una mano per aprire la porta; come sempre, il posto era illuminato dai raggi solari che filtravano dalle spaziose finestre, costruite sui fianchi e in alto, e come previsto non c’era nessuno. Sorrise a se stesso. Si sistemò il colletto della giacca, prima di poter volgersi verso il confessionale e prendere posto, sicuro che il Don era già lì, pronto per accoglierlo e ascoltarlo.

“Non avrei mai pensato di vedere proprio te, qui”, quella frase uscì in un misto di sorpresa e divertimento, e il giovane non poté far altro che sospirare, facendo ricadere la testa in avanti, “Parla pure”.

“Non faccio altro che pensare a una persona”, rivelò.

“Non vedo nulla di male, in questo, tutti pensiamo a qualcuno”.

“Penso ad un uomo”, specificò, e come lo ammise cercò di mandar via quella brutta sensazione, “E non in modo casto. I miei pensieri sono… lascivi, viziosi”.

Jongdae riuscì a percepire la sorpresa nel Don, nonostante il suo volto fosse coperto e potesse sentire solo la sua voce; gli fu immediatamente suggerito di non pensare più in quel modo a un uomo, di trovare qualcosa che potesse occupare la sua mente – gli fu pure detto di iniziare a interessarsi alle giovani e intelligenti ragazze che facevano parte della comunità. In pochi minuti fu fuori del confessionale e con il cuore più leggero, la mente libera. Occupò altri minuti per rimanere all’interno della struttura e pregare, così che i suoi peccati fossero dissolti completamente, prima di uscire.

Stava camminando tranquillamente per strada, calpestando lo stesso cemento su cui era passato sopra circa mezz’ora fa, per dirigersi in chiesa, e un sorriso contornava il suo viso, illuminandolo. Svoltò giusto in una via, per imboccare la scorciatoia che lo portava in pochi minuti a casa, prima che una figura fin troppo famigliare potesse entrare nel suo campo visivo.

No, pensò, non lui.

I battiti cardiaci del suo cuore iniziarono ad accelerare, il muscolo involontario pompava velocemente il sangue e martellava contro la cassa toracica come non mai, e per una frazione di secondo ebbe paura che essa potesse rompersi. Prima ancora che potesse accorgersene i loro sguardi s’unirono e il secondo si stava già facendo strada verso di lui. Lo stava… raggiungendo? No, no― non poteva, non doveva; Jongdae, cercando di essere il più naturale possibile, si schiarì la gola, si passò la mano dietro al collo e si guardò velocemente attorno, prima di potersi girare. Sperò che l’altro non continuasse a camminare verso di lui. Giusto quando stava per muovere i primi passi, sentì qualcosa afferrargli il polso e un respiro caldo battere contro la pelle sensibile del suo collo. A quel contatto, sentì un fuoco accendersi nel suo stomaco. L’organista scottava.

Il giovane uomo si girò e con tutto se stesso provò a mantenere un finto sorriso, e i muscoli facciali facevano male per quanto si stava sforzando; cercò di sfuggire alla presa altrui e velocemente fece un piccolo inchino, indietreggiando di un passo. Visto da più vicino, il volto del secondo uomo era innocente, angelico.

“Uhm, ciao”, si ritrovò a salutare per primo, timidamente.

“Ciao”, era la prima volta che sentiva la sua voce ed era… perfetta, “Come mai non sei venuto a messa? C’era la prima esibizione del coro”.

Jongdae si era aspettato di tutto quando aveva realizzato che l’altro stava avanzando proprio per lui, meno che quello, “Uhm― ecco, io mi sono sentito male quel giorno, e ho preferito non presentarmi. Sai, i germi”, una strana sensazione si fece presente nel suo stomaco, quando disse apertamente quella scusa. Fino ad allora l’aveva solo pensata, e con la madre era servita una semplice recita.

“Mi dispiace. Spero che ora tu stia meglio”, e un dolce sorriso, diverso da quelli che gli aveva sempre rivolto, si fece strada su quel volto dolce.

“Oh, sì. Ora sto meglio, grazie”.

Ci fu un imbarazzante silenzio fra i due, dopo quella frase. Jongdae non faceva altro che guardare oltre la spalla dell’altro (cercava in tutti i modi di non finire con lo sguardo sulle sue labbra) e l’organista lo guardava, mantenendo quel piccolo sorriso. Avrebbe dovuto dirgli che doveva tornare a casa? Inventarsi un’altra scusa? Rimanere lì finché non fosse stato l’organista ad andarsene?

“Comunque”, iniziò l’altro, riscuotendo il giovane dai suoi pensieri, “Mi sono accorto che non ci siamo ancora presentati, ecco. Conosco ogni componente del coro, tranne te”.

Il diretto interessato fu pervaso da un brivido, che aumentò quando vide che ora, l’organista, aveva uno dei suoi soliti ghigni sulle labbra. Come poteva una persona dal volto così dolce avere un sorriso così oscuro?

“Hai― hai ragione!”, ridacchiò nervosamente, tendendo una mano, “Sono Kim Jongdae, piacere”.

“Joonmyun― Kim Joonmyun, piacere mio”, si presentò l’uomo, e come si strinsero la mano, si fece più vicino.

Altri minuti di puro imbarazzante silenzio, dove Jongdae non sapeva cosa fare e come comportarsi. Le mani continuarono a stringersi, nonostante la presentazione fosse finita, e Joonmyun non sembrava dell’idea di interrompere per primo quel contatto. Ancora un volta, sentiva la pelle di quest’ultimo scottare e il suo corpo non faceva altro che assorbire quel calore, forte quanto potesse esserlo quello della lava.

“Io― ecco, devo tornare a casa”, lo disse in modo frettoloso, togliendo con fatica la mano da quella morsa calda e resistente.

Joonmyun annuì, sorridendo e con un’espressione rilassata stampata sul suo viso, e prima che il giovane potesse accorgersene, aveva posato una mano sulla sua spalla, stringendola, prima di potersi sporgere verso il suo orecchio e soffiarci all’interno un “Ci rivediamo alle prove del coro”.

Anche se l’organista era andato, lasciandolo lì con quella frase, Jongdae non si spostò di un centimetro. Rimase immobile, fermo su quel punto e con lo sguardo perso nel vuoto. Il corpo era ancora scosso da mille e mila brividi, e nonostante s’iniziasse già a sentire il freddo di novembre, la pelle ardeva come se fosse sotto il sole cuocente di agosto.

 

 

 

҈

 

 

 

“Jongdae, stai bene?”.

“Sì mamma, sto bene. Tranquilla”.

 

La verità era che Jongdae non stava bene, affatto.

Era possibile odiare una persona di cui si conosceva solo il nome e ciò che faceva in determinati giorni della settimana, e con cui si era intrapresa una conversazione solo una volta? Perché se la risposta era sì, il giovane odiava Joonmyun. Non gli aveva fatto nulla di male. Anzi. Qualcosa di male lo aveva fatto: gli aveva fatto perdere la testa, lo aveva fatto sentire impuro e inadatto. Joonmyun aveva distrutto la sua purezza con tutti quei ghigni e con tutti quegli sguardi, per questo lo odiava – e lo odiava pure perché lo aveva portato all’odio. Quel sentimento così oscuro e maligno non faceva parte del vocabolario di Jongdae. Lui non aveva mai odiato, perché era male.

 

«Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori.»

 

Questo fu quello che gli insegnò il prete, quando era piccolo, e fu pure quello che gli disse il padre, quando divenne più grande. Aveva sempre rispettato quella frase, non aveva mai provato quel sentimento per qualcuno e aveva sempre amato, pure chi non provava simpatia nei suoi confronti e gli faceva del male, lo prendeva in giro.

Allora perché Joonmyun aveva fatto in modo che egli lo odiasse?

 

 

Seppure con riluttanza, alla fine, il giovane si presentò alle prove del coro e con fatica ricambiò il sorriso che l’organista gli mandò dall’altra parte della stanza, mentre parlava con due o tre ragazzi. Per tutto il tempo non fece che sentirsi nervoso, il cuore batteva velocemente e quando il suo sguardo s’incatenava con quello altrui – anche per una minima frazione di secondo – sentiva le gambe molli e la testa girare, il corpo bruciare. Furono le prove più frustranti della sua intera esistenza – e nemmeno alla fine di queste, ebbe pace.

Stava percorrendo la strada di ritorno dall’oratorio a casa sua, quando sentì una mano afferrargli il polso e trascinarlo in un vicolo cieco, scuro. Sussultò quando la sua schiena toccò il muro, ma sussultò ancora di più quando vide il volto di chi gli stava davanti. Joonmyun.

“Ehi”, lo salutò lui, con un piccolo sorriso stampato in faccia – insomma, se non c’era un ghigno, c’era sempre un piccolo sorriso.

“Ciao”, ricambiò Jongdae, cercando di evitare il suo sguardo, “Come― perché siamo qui?”, chiese, e la voce uscì tremante.

“Non so”, scrollò le spalle l’organista, “Avevo voglia di parlare con te”.

Jongdae corrucciò le sopracciglia, “Parlare con me? Beh, se volevi parlare non― potevi anche chiedermi di andare in qualche bar e― e― ecco, noi―”, provò con tutto se stesso a formulare una frase di senso compiuto, ma i suoi occhi ben presto furono attratti da quelli altrui ed egli tornò a sorridere in modo storto, iniziando a avanzare. Prima ancora che Jongdae potesse finire, Joonmyun gli stava baciando il collo.

Ora sì che il giovane poteva dire che il suo corpo stava andando in fiamme, bruciava sotto ogni bacio dell’altro e divenne troppo debole per resistere, per combattere così da toglierselo di dosso. Nella mente pensò a quando faceva pensieri viziosi sull’organista, a quando desiderava che lo baciasse e lo toccasse, e non seppe come reagire quando realizzò con le sue fantasie coincidevano con la realtà. Sentì le orecchie fischiare, proprio come quando i loro sguardi s’incrociarono per la prima volta, e il capo si fece sempre più pesante, nel frattempo che le labbra del secondo uomo raggiungevano il suo lobo.

“Io so tutto”, iniziò con un ghigno a contornarli il volto, afferrando il mento del giovane fra due dita, “Volevi così tanto che io posassi le mie labbra sulla tua pelle, eppure ora sei teso come una corda di violino”.

Il diretto interessato deglutì e si lasciò andare a un lungo e forte mugolio, quando il proprio lobo venne morso. Avrebbe dovuto far male, ma gli piacque.

“Lasciati andare”, sussurrò.

E solo in quel momento, mentre Joonmyun tornava a baciargli tutto il profilo, stringendolo fra il suo corpo e il muro di mattoni, con le due dita a tenergli fermo il mento, Jongdae lo sentì.

 

Il suo sussurro era Lucifero.

 

 

 

Se prima Jongdae aveva pochissime certezze, ora ne aveva un paio; primo, era uno dei più grandi peccatori della comunità; due, Kim Joonmyun non era umano. Non che lo avesse visto fare cose strane, come arrampicarsi sui muri o far spuntare due ali dietro alla sua schiena. Lo sentiva e basta. Perché nessuno, e mai nessuno, poteva avere un volto angelico e indossare il ghigno di un diavolo, comportarsi delicatamente davanti gli occhi degli altri e essere uno dei più abili tentatori solo sotto gli occhi del giovane. Sin da subito lo aveva percepito, da quando i loro sguardi si erano incatenati e si era sentito impuro solo con quello.

Come se non bastasse, dopo una notte di continui sbagli dove Jongdae si lasciò andare ai tocchi e alle attenzioni dell’organista (e se si voleva peggiorare la situazione, sul materasso di quest’ultimo), dopo quella volta sembrava stranamente perso per lui.

Jongdae era solo con la madre, a casa loro? Joonmyun gli mancava e sentiva di aver bisogno dei suoi sussurri, delle sue mani che lo stringevano, dei suoi occhi che lo osservavano da capo a piedi e dei suoi sorrisi, la notte lo sognava ed erano sempre sogni lussuriosi, dove si perdeva di nuovo tra i suoi baci.

Si vedevano per le prove del coro o dopo la messa? (perché sì, il più grande aveva iniziato a presentarsi pure a messa) Non combatteva neanche sotto la presa altrui che, al termine di questi due incontri, lo trascinava nel solito vicolo stretto, e lo spingeva contro il muro, prima di poterlo coinvolgere in uno dei loro baci più profondi.

Ad un certo punto, il giovane uomo perse il conto di tutte le volte che lo desiderò, che lo baciò e che, dopo le prove del coro, finì per svegliarsi nel suo letto, col corpo umidiccio per il sudore e contro il petto dell’altro.

 

 

 

҈

 

 

 

Con quelle note gravi e delicate, con quell’aria autunnale che entrava dalle porte ogni volta che venivano aperte, quel giorno Joonmyun si mise a suonare l’organo. Non era la messa, né le prove del coro o una cerimonia, si era solo svegliato con la voglia di suonarlo e aveva avuto il consenso – e non c’erano nemmeno tante persone, quel giorno, occasione in più per suonare senza occhi discreti che lo osservano di spalle.

Comunque, sentì quando mise piede nella Casa di Dio. Stava riproducendo Aria Sulla Quarta Corda, quando lui entrò; con la coda dell’occhio, dall’alto, lo vide farsi il segno della croce dopo aver intinto le dita nella piccola bacinella di pietra, al fianco dell’entrata, e poi seguì i suoi movimenti finché non sparì poco sotto, dalle candele; solo quando ebbe finito di suonare quella melodia, seppe che era ora di tornare a casa, così da far cadere di nuovo il silenzio in quel posto sacro. Si alzò e si girò, verso le panche, e subito fece cadere lo sguardo sul volto del ragazzo che se ne stava fermo a guardarlo.

Il suo volto era così puro, come la sua anima. Gli occhi erano piacevolmente sgranati, le labbra deliziosamente socchiuse e poté notarlo: catturò la sua attenzione. Fece in modo mantenere la sua attenzione, inclinando di poco il capo, non battendo un ciglio, e solo quando avvertì il suo disagio, ghignò.

 

“La tentazione non è un peccato su cui si possa trionfare una volta per sempre e poi sei libero. La tentazione scivola nel letto con te ogni notte e ti aiuta a dire le tue preghiere. Essa ti sveglia al mattino con una tazza di caffè amichevole, e sa esattamente come prenderti.”, e se c’era una cosa su cui Joonmyun era un maestro, quella era tentare. Ormai, per lui, era uno scherzo e un gioco cui poteva giocare ogni giorno di ogni settimana, senza stancarsi.

Molti erano caduti nelle tentazioni, in tanti aveva ceduto a lui e tutto ciò, per egli, era successo in un battito di ciglia.

Con Jongdae, fu come bere l’acqua. Semplice, veloce.

Glielo leggeva negli occhi, l’uomo, che il giovane era terrorizzato ma al contempo attratto da lui; già dal primo giorno in cui i loro sguardi s’incrociarono per la seconda volta, nei primi minuti delle prove del coro. Notava le occhiatine che gli mandava, di tanto in tanto, e non poteva ignorare il modo in cui i suoi muscoli si irrigidivano, quando ricambiava quelle occhiate. Percepiva pure il suo calore, come il suo corpo bruciasse sotto i propri sguardi, e ciò in lui creava una certa soddisfazione.

Per anni aveva tentato persone, portato all’impurezza anime di donne e uomini, ma nessuno era caduto così facilmente nelle sue grinfie come quel giovane dagli occhi affilati.

Seppe di averlo in pugno un giorno, quando il coro si sarebbe finalmente esibito a messa, per cantare la gloria di Dio. Tutti rimasero scossi dalla notizia che la madre del ragazzo portò al Don, quel giorno: Jongdae non sarebbe venuto, perché era malato. Il disappunto era sugli occhi di tutti, il divertimento su quelli di Joonmyun, che nascose dietro a una smorfia.

 

“Lascia stare mio figlio”, gli intimò un giorno una voce, alle sue spalle, nel mezzo del suo cammino.

Un sospirò pesante si disperse per quella via stretta e cercò di ignorare quella voce, mettendosi le mani in tasca e continuando a camminare, l’espressione serena.

“Joonmyun, lo so che mi hai sentito. Lascia stare mio figlio”, ripeté l’uomo, e il primo si godette il tono disperato che la sua voce assunse.

“Perché mai? Non vedi come la sua anima è sporca? Come la tua”, presto un ghigno si fece spazio sul suo volto quando pronunciò quelle parole, e si beò dell’espressione esterrefatta di chi all’improvviso gli apparve davanti.

“Cosa gli hai fatto? Non vi è bastato ingannare me? Dovete rendere misere pure le vite degli altri?”.

“Tu stesso hai reso misera la vita della tua famiglia, uccidendoti. È un bene che siano tornati qui”, mormorò alzando il mento, con fare sfacciato verso la figura del più anziano, “Soprattutto che Jongdae sia tornato”, e sogghignò, prima di schioccare la lingua.

Più l’anziano cercava di convincere l’uomo, con tono e espressione disperata, supplicando di risparmiare la vita del figlio, più egli trovava piacere, ma presto dovette cacciarlo: il soggetto della loro conversazione era su quella stessa via, e poteva dire che era appena stato in chiesa; finse un incontro improvviso, e cercò di non sorridere quando lo vide fare dietrofront, come se avesse una speranza di scappare da lui.

 

“Parlare con me? Beh, se volevi parlare non― potevi anche chiedermi di andare in qualche bar e― e― ecco, noi―”.

Avanzò man mano, schiacciandolo contro il muro che gli stava dietro. La tensione era palpabile, densa, li circondava completamente e di certo stava soffocando il minore, intrappolato dall’organista e dal muro di quel edificio. Poteva leggere perfettamente il panico nei suoi occhi, il nervosismo che man mano stava crescendo nel suo corpo e il desiderio. Jongdae non era al corrente che Joonmyun sapeva ogni singola cosa, dalle sue prime sensazioni quando i loro occhi s’incrociarono, il suo sguardo che ogni volta cadeva sulle proprie labbra e i suoi pensieri impuri. Di come voleva essere baciato, toccato, stretto fra le mani del più grande e fra il suo corpo.

Se farlo cadere nella sua rete piena di tentazioni era stato facile, farlo sciogliere sotto i tocchi delle proprie labbra era stato altrettanto semplice.

“Lasciati andare”, e man mano i muscoli del giovane iniziarono a rilassarsi, finché non cedette completamente.

 

Nemmeno qualche ora dopo e egli era già contro il materasso dell’uomo, perso nelle sensazioni più lussuriose e con l’anima nera.

 

 

 

҈

 

 

 

Tutte le fondamenta su cui Jongdae aveva costruito la sua vita stavano cadendo a pezzi, lentamente, corrose da tutto ciò che ora stava compiendo – da tutti i suoi peccati. Pian piano, stava vedendo che la luce del suo futuro si stava oscurando, diventando sempre più nera, misteriosa.

Qualcosa in lui stava cambiando, iniziando dai meandri della sua anima.

Il tocco di Joonmyun ormai non bruciava più sulla sua pelle, creava solo una piacevole sensazione e nonostante non riuscisse ancora a tenere un contatto visivo con lui più di cinque secondi, il suo sguardo sul corpo non gli dava più fastidio. La sensazione d’impurezza man mano era andata ad affievolirsi, ora era suo agio intorno all’organista; diverse, invece, erano le sensazioni intorno alla madre o alle persone devote alla chiesa, più di quanto lo era lui.

Accadde un giorno, quando aveva dovuto passare un giorno intero con la madre: stavano girando per il centro di Siheung, in una via piena di negozi, poiché il compleanno del primo genito era ormai alle porte, e la donna gli camminava a fianco; era tutto normale, in fondo non sentiva nessun disagio stando con lei, non aveva mai provato nessuna sensazione sgradevole con lei. Quando entrarono in un negozio e iniziarono a guardare un paio di camice, però, il giovane poté notare che qualcosa non andava del tutto bene: quando alzò una gruccia per farlo vedere alla madre e lei gli sfiorò la mano, entrambi sussultarono. Bruciore. Nell’esatto momento in cui la donna gli sfiorò le dita, il giovane poté risentire quella sensazione di bruciore che all’inizio provava solo con Joonmyun – e da come lei si toccava le mani, sfregandole e flettendo le dita, poté capire che pure lei lo aveva sentito.

“Jongdae, stai bene?”, chiese la donna a un certo punto.

“Sì― sì, sto bene, perché?”, Jongdae sembrava così confuso, quando colei che gli stava affianco.

“Scotti”.

Calore ― Joonmyun una volta scottava.

 

Non fu la prima volta che il giovane sentì la pelle bruciare, quando aveva un minimo contatto fisico con qualcuno che non fosse l’organista. Un giorno Yixing gli diede una pacca sulla spalla, il pollice toccò la pelle scoperta dal colletto e una scarica si fece largo nel suo corpo, costringendolo ad allontanarsi appena; un altro, invece, ebbe il piacere di rivedere Bomi, casualmente, e quando si strinsero la mano ebbe l’istinto di ritirarla immediatamente.

Per non parlare del disagio che una volta ebbe incontrando il Don. Si sentiva strano, come se qualcosa di fastidioso premesse contro il suo petto, e stare con l’anziano era più irritante che piacevole – come era sempre stato. Non sapeva il perché, ma c’era qualcosa nel suo tono, nel suo sguardo, nei suoi piccoli sorrisi che lo avevano sempre fatto sorridere a sua volta, che in quel momento gli dava prurito, e una volta che terminò quella conversazione (se così si poteva chiamare, poiché questa volta solo il prete parlò, mentre il giovane non faceva altro che reprimere quella sensazione di fastidio), sentì come se potesse di nuovo respirare normalmente e si sentì in pace con se stesso, nessun prurito o irritazione. Stava bene.

 

 

 

҈

 

 

 

“Boyeong-sii?”.

“Sì?”.

“Controlla tuo figlio”.

“Perché mi dice questo?”.

“Perché qualcosa sta cambiando in lui”.

 

 

 

҈

 

 

 

L’aria di quella stanza era impregnata da un aroma forte, pungente. Il caffè uscì con uno sbuffo accompagnato subito dopo dallo sfrigolio che solitamente compieva il liquido. Il perimetro della cucina era illuminato dalla luce che penetrava dalla finestre, che, però, non era abbastanza per renderlo totalmente luminoso. Joonmyun si versò il liquido in una tazza, prima di poterci soffiare sopra così da raffreddarlo appena e sorseggiarne un po’; guardò la porta che dava al piccolo salotto e sorrise quando non vide alcuna ombra. Stava ancora dormendo. S’accomodò su una delle sedie, e questa volta lo sguardo scivolò al suo fianco, dove, poggiato sul tavolo, c’era il telefono del giovane che continuava a vibrare e mostrare l’ID con cui aveva segnato il numero della madre. Sorrise di nuovo, più apertamente, prima di nascondere la bocca dietro la tazza e prendere il secondo sorso.

Dopo pochi minuti un piccolo mugolio si fece presente vicino alla porta e presto Jongdae entrò nella cucina, ancora con i capelli spettinati e indossando solo i suoi pantaloncini.

“Buongiorno”, mormorò a fatica quest’ultimo, stropicciandosi gli occhi e prendendo subito posto davanti al maggiore, lo sguardo ancora assonato.

“C’è del caffè, se vuoi”, lo informò il primo, ma ricevette presto un no, segno che il minore non aveva voglia di caffè (in realtà non lo aveva mai accettato, ma continuava comunque a offriglielo), “Dormito bene?”.

“Mhh”, il giovane mugolò e basta, poggiando la testa contro la superficie piatta del tavolo.

“Tua madre ti sta riempiendo di messaggi e chiamate”.

Se prima Jongdae sembrava un morto vivente, ancora privo di energie, ora pareva essere in ottima forma. Alzò di scatto la testa, gli occhi spalancati per la sorpresa, e Joonmyun fece semplicemente scivolare il telefono dalla sua parte, osservando poi da sopra la tazza come afferrava di fretta il cellulare per poi portarselo all’orecchio. In pochi attimi la stanza si riempì unicamente della voce del più giovane che, con fare nervoso, sembrava voler spiegare alla madre nel modo più naturale possibile perché quella mattina non fosse a casa e dove si trovasse.

 

“Perché non mi hai svegliato?”, urlò contro Joonmyun appena chiuse la chiamata.

Era nei guai, eccome se lo era. Solitamente, quando finiva per restare a casa del maggiore, si preoccupava sempre di tornare nella propria il più presto possibile, quando ancora sapeva che la madre era nel mondo dei sogni, così da fingere di essere tornato appena dopo mezza notte. Quella volta, però, Jongdae era rimasto a dormire fino alle dieci di mattina, se non di più, e per colpa dell’amante, che non lo aveva svegliato, la madre aveva trovato la sua stanza vuota.

“Dormivi così bene, era un peccato svegliarti”, rispose con voce piatta il diretto interessato, non sembrando minimamente toccato dal suo urlo.

Il primo rimase completamente sbalordito e non sapeva se essere arrabbiato o no con l’altro. Senza dire niente, preferendo lasciarsi scappare dalle labbra solo un piccolo sbuffo, si alzò e tornò in camera, per poi donare di nuovo la sua presenza completamente vestito, già pronto per andarsene. Joonmyun lo guardò con un piccolo sorriso, prima di potersi fare avanti con le braccia strette al petto.

“Devi proprio andare?”.

“Mia madre vuole che torni”, dichiarò Jongdae.

L’altro sbuffò, ma non sembrò scocciato da ciò se non divertito, difatti riuscì a mantenere a stento un’espressione seria mentre si faceva più vicino al secondo corpo, “Jongdae”, lo richiamò con tono dolce, e i suoi sospiri arrivarono come delle carezze contro la pelle altrui, “Non hai sette anni, questo tua madre lo sa? Sei grande, sai proteggerti e hai la capacità di intendere e volere. Resta ancora un po’, di’ a tua madre che sei al sicuro e che tornerai più tardi”.

Prima ancora di poter pensare a ciò che il ragazzo aveva detto, il diretto interessato pescò il telefono dalla tasca della giacca e scrisse alla madre, dicendo che sarebbe probabilmente tornato dopo l’ora di pranzo.

 

“Kim Jongdae, dove ti eri cacciato?”, la voce della donna tuonò fra le quattro pareti del salotto nell’esatto momento in cui il secondo genito fece ritorno, con un’espressione felice e leggera.

“Oh, ciao mamma”, la salutò lui, come se non avesse notato l’evidente disappunto nel volto dell’altra, come se fosse tutto normale, “Ero da un amico”, s’inventò, cercando di non tradire quella bugia con un’espressione sospetta.

“Ti avevo detto di venire questa mattina, non di pomeriggio!”, lo rimproverò lei seguendolo da una parte all’altra, con quel tono che non usava da anni e che sapeva tanto di una madre che sgridava il figlio di sette anni.

Proprio quel tono fece bollire qualcosa nel corpo del ragazzo, il quale provò in tutti i modi di reprimere quella brutta sensazione. Non sapeva nemmeno come chiamarla. Forse era… rabbia? No, impossibile, Kim Jongdae non poteva provare odio nei confronti della madre, la donna che gli aveva sempre trasmesso amore, che lo aveva sempre sostenuto nelle sue scelte e che lo presentava con tanto orgoglio alle altre donne della sua età, felice di averlo come figlio. Era sempre stata una madre fantastica, il tipo di genitrice che ogni figlio vorrebbe, non poteva proprio provare odio per quella donna.

“Mamma, non sono ancora un bambino, posso rimanere dai miei amici quanto mi pare”, affermò tranquillamente e con un piccolo sorriso stampato in faccia.

Qualcosa, però, andò storto. Forse aveva misurato male il tono da utilizzare davanti alla madre, forse era stato quel sorriso che aveva fatto interpretare male il significato di quella frase, fatto sta che presto una mano andò a colpirgli la guancia, provocandogli un gran dolore contro di esso senza contare il bruciore che provò per tutto il corpo. Gli aveva dato uno schiaffo? Solo per averle disubbidito? Per essere stato con Joonmyun qualche ora in più e aver ignorato il suo volerlo a casa prima di pranzo? Questa volta non riuscì a fermare la rabbia che presto iniziò a ribollire nel suo sangue, e prima ancora che potesse rispondere delle proprie azioni prese con la forza la donna dalle braccia e la scansò, buttandola da una parte così da dirigersi a grandi passi verso la camera da letto, ignorando le sue urla e le sue minacce. Non mise piede fuori dalla stanza finché non si fece ora di cena, e per tutto quel tempo, seduto sul letto e al buio, pensò che aveva sbagliato quanto le sue azioni erano giuste. Insomma, qual era il punto di schiaffeggiarlo per una cosa così piccola e insignificante? Non riusciva a spiegarselo, non riusciva nemmeno ad accettarlo; il maggiore aveva ragione, era grande, sapeva proteggersi e aveva la capacità di intendere e volere, non meritava quel trattamento dal suo genitore.

 

 

 

҈

 

 

 

Se prima le fondamenta di Jongdae stavano lentamente cadendo, corrose da tutti i peccati commessi, ora si stavano velocemente sgretolando, divorate dall’oscurità; Joonmyun, l’aiutava.

 

 

 

҈

 

 

 

Il rumore delle lancette riecheggiava nella stanza risucchiata dal buio, le persiane erano completamente chiuse e nessun oggetto illuminava l’intero spazio, come se dentro quella casa non ci fosse nessuno se non il vuoto. Ad accompagnare questo rumore continuo, monotono, c’erano, però, dei leggeri respiri e di tanto in tanto si poteva sentire il rumore di suole che picchiettavano contro il pavimento di legno, o delle dita che toccavano leggermente il divano in pelle, senza un ritmo preciso. Joonmyun sospirò, fissando il vuoto, e piegò la schiena contro lo schienale del divano, prima di poter poggiare la tempia contro il palmo della mano aperta. La casa era così silenziosa, senza Jongdae, e da una parte gli piaceva come dall’altra sentiva un vuoto mai provato prima.

Il rumore di alcuni passi si fece presente alle sue spalle quando alzò la testa, abbassando leggermente il colletto con le mani.

“Kyungsoo”.

“Vedo che non riesco mai a fare un’entrata a sorpresa con te, Joonmyun”.

Nella stanza buia riecheggiò la risata di entrambi, l’una più calda dell’altra, e ben presto nel campo visivo del primo entrò l’amico che in mano stringeva una sedia, la quale fu sistemata davanti a lui, cosicché il secondo potesse sedersi. A vederla così, Joonmyun sembrava essere in attesa di Kyungsoo – e forse, era realmente così. Aveva potuto sentirlo dentro di sé, dopo che l’amante abbandonò la casa per tornare nella propria, pronto per affrontare la madre. L’aria si era fatta più fredda, il silenzio era più insistente del solito; i due si guardarono, l’uno seriamente e l’altro rilassato, come se fosse tutto okay.

“Abbiamo bisogno di parlare”, annunciò il nuovo arrivato, sistemandosi sulla sedia.

“Lo so”.

“Sai anche che il piano sta avendo dei problemi, quindi?”, domandò il minore con sguardo di sfida.

Ci furono dei secondi riempiti solo dal silenzio tombale che improvvisamente cadde fra di loro.

“Dei problemi?”

“Sì. Primo, qualcuno si è accorto di certi cambiamenti; secondo, tu stesso sei il problema”.

“Io sarei il problema?”, chiese stupito il maggiore, piegandosi in avanti e puntando l’indice contro il suo petto.

“Ti stai affezionando a Jongdae, lo stai tenendo troppo tempo stretto a te. A quest’ora doveva essere già fra noi. Se non farai le cose nel verso giusto, se ne occuperà qualcun altro”.

Il diretto interessato si sentì mozzare il fiato davanti a quell’avviso; stava fallendo? In un attimo sembrò che il tempo si fosse fermato intorno a loro, poteva vedere il collega che sbatteva tranquillamente le sopracciglia con quella sua espressione seria, ma non poteva sentire i rintocchi delle lancette. Se l’aria prima si era fatta fredda, ora era completamente gelida, come le mattine in pieno inverno, impossibili da affrontare se non con un buon cappotto caldo e una sciarpa che ti stringeva tutto il collo. Da una parte avrebbe dovuto saperlo, anzi. Ne era cosciente – eppure perché, secondo i piani più alti, stava fallendo a tal punto da mandargli un avviso, e sostituirlo se tutto non sarebbe filato nel verso giusto?

“Cercherò di completare il compito il più velocemente possibile”, rispose con tono piatto il maggiore.

Kyungsoo increspò le labbra in quello che doveva essere un piccolo sorriso soddisfatto, prima di tirarsi su, mettere la sedia al suo posto e scomparire nell’aria, dopo aver fatto un segno di saluto al proprietario di casa. Joonmyun, invece, rimase seduto per qualche minuto, meditando su cosa fare e come agire. Completare tutto entro domani o portarlo avanti per qualche giorno? Dopotutto non gli avevano nemmeno dato una data di scadenza, ma sapeva che, comunque, non volevano aspettare altro tempo, e che ora erano più impazienti di prima; sospirò e si grattò nervosamente la fronte, prima di potersi alzare e dirigersi verso la camera da letto.

Cosa dovremmo fare, Joonmyun, cosa?, si ripeté mentalmente più volte, nel frattempo che si sfilava la camicia. Non possiamo lasciarci scappare Jongdae, si ricordò con un leggero sospiro, fronteggiando lo specchio che rifletteva la sua immagine.

Il ragazzo chinò il capo e lentamente rimosse le lenti colorare, sbattendo poi le palpebre un paio di volte. Tornò eretto, e sorrise nel vedere i propri occhi nel loro colore naturale, scuri, rossi.

 

 

Sin dalla fioritura delle prime civiltà, nel mondo erano state intercettate persone di cui tutti dovevano tenersi alla larga; persone capaci di fare cose che nessun altro era in grado di fare; in grado di manipolare la mente come se fosse pasta modellabile; che stregavano a tal punto di poter usare un corpo altrui come il proprio, come un burattino; le quali con un solo sguardo ti sporcavano l’anima e ti facevano sentire cose mai provate. Streghe e maghi con le loro magie, le sirene con i canti ipnotici e la bellezza disumana e i demoni con ogni qualità e i mille difetti peccaminosi.

Sin dalla fioritura delle prime civiltà, Joonmyun c’era. I suoi occhi avevano assistito ad ogni cambiamento, dalla povertà alla ricchezza, la primitività della popolazione fino all’evoluzione in una nazione piena di tecnologia, moda e oggetti all’avanguardia. Il suo corpo aveva avuto modo di indossare ogni tipo di capo, al più vecchio, composto solo da fili intrecciati e pellicce di animali appena uccisi, agli hanbok fatti di stoffa pregiata degna di ogni ricco dell’età Goryeo, fino ai vestiti di marca e più in voga nella moda dell’odierna Seoul.

Nulla però, si poteva mettere a confronto di fronte al numero esorbitante di persone mandate alle più tristi delle sorti; a tutte quelle persone che con un semplice sguardo avevano iniziato a scrivere sulla propria pelle un contratto col diavolo, tramite lui, e portato a termine con una semplice firma: l’arresa, la morte. In tutta la sua esistenza, Joonmyun non aveva fatto altro che lavorare e divertirsi al contempo. Sporcare le anime era un suo compito come portare le stesse persone alla loro fine, ma il modo cui tutto procedeva era un puro piacere che poteva decidere lui, con le sue stesse mani.

Ancora ricordava tutte quelle vittime, quegli incoscienti che, ignari di tutto, si erano lasciati andare a lui, che avevano creduto di poter trovare un riparo in lui piuttosto che la rovina delle loro vite. Le ragazze che lo avevano riconosciuto come un eroe per le vite noiose che conducevano, i ragazzi caduti nella sua rete per pura curiosità o per vizi e voglie che li avevano sempre accompagnati. Come quella graziosa ragazza nobile del tempo gogoryeo, disposta a tradire il promesso sposo pur di trovare l’apparente felicità, o il padre di Jongdae.

Tra la lista delle sue innumerevoli vittime, Joonmyun non possedeva il nome del padre dell’attuale amante. Si poteva dire che, in quel caso, era stato un appoggio e da questo ruolo aveva comunque tratto qualcosa per sé.

 

“Joonmyun, eccoti!”, esclamò Kyungsoo alle sue spalle, improvvisamente.

Il diretto interessato si voltò e con un caldo sorriso accolse l’amico, per poi fare un profondo inchino davanti alla presenza di una seconda persona, molto più grande dei due giovani. Sembrava così teso.

“Kyungsoo, finalmente sei qui – la partita stava per iniziare senza di te”, si lamentò appena Joonmyun, facendo segno ai nuovi arrivati di sedersi.

“Ci dispiace, ma c’era un po’ di traffico – ah, comunque lui è un collega. Kim Chiwon”.

 

Sin da subito aveva capito che quell’uomo nascondeva qualcosa, che cercava in tutti i modi di cambiare il suo destino nonostante fosse stato già deciso.

 

“Ogni volta sembri così nervoso. Per caso a casa hai una famiglia e non dovresti essere qui per questo?”, lo stuzzicarono una volta i due ragazzi, ridacchiando fra loro.

“Io? No, ma figuriamoci!”.

 

“Penso che questa sia la mia ultima serata qui”, annunciò una sera.

 

“Hey, sei qui anche oggi!”, esclamò un non tanto sorpreso Joonmyun, nel vederlo di nuovo al tavolo.

 

Fortunatamente tutto filò liscio come l’olio, nessuno si accorse che stava commettendo peccati, lasciandosi andare allo sperperamento dei soldi, alla gola e alle bugie. I due logoravano la sua anima, e lui non faceva altro che aiutarli ignaro, fingendo di essere ancora il padre di famiglia perfetto e senza confessarsi nemmeno una volta.

Tutto finì con un semplice gioco, quando Kyungsoo ricevette tutti i soldi che Chiwon mise sul bancone, gli ultimi che gli rimasero in tasca, dopo che Joonmyun gli confidò che aveva le carte vincenti – ovviamente, mentendo. In un attimo disperazione e rimpianto si fecero largo nel corpo dell’anziano che, dopo aver scoperto la vera natura dei giovani, fuggì dal casinò prendendo una strada completamente diversa da quella che portava a casa. Il rimorso di non aver abbandonato prima quella vita, quando era ancora possibile, gli annebbiò la mente e ben presto non ci fu nient’altro da fare.

 

“Benvenuto fra noi, Kim Chiwon”, annunciarono i due colleghi in una grossa risata, con gli occhi di un rosso scuro che brillavano, guardando l’anima che con disperazione doveva fare i conti su ciò che era appena successo: aveva volontariamente fatto un incidente mortale, e la sua anima sporca non gli avrebbe dato il permesso di entrare nel Paradiso.

 

Sfortunatamente, però, l’uomo decise di essere uno delle tante anime che vagavano ancora sulla terra, ancora con la voglia di vedere la loro famiglia, e ciò influenzava anche parte dell’attuale lavoro di Joonmyun; ogni volta che usciva per vedere Jongdae, ecco che lui si presentava e lo pregava invano di non fargli niente, di lasciarlo stare.

C’era poco da fare, però, i granelli man mano stavano cadendo sempre più velocemente e il tempo, presto, per il giovane, sarebbe finito.

 

 

 

 

 

҈

 

 

 

“Kim Jongdae, cos’è questo!?”.

L’urlo della madre faceva male contro i propri timpani, bruciava dentro la sua mente e dovette resistere alla tentazione di farsi indietro, di allontanarsi dalla sua presa stretta e decisa, nel frattempo che gli teneva basso il collo della felpa e graffiava con le sue lunghe unghie il marchio sul suo collo. Cosa aveva fatto di male per meritarsi tutto ciò? E dire che era stato così attento, aveva pianificato il suo abbigliamento meticolosamente, affinché i segni sul collo lasciati da Joonmyun non si vedessero, così da non dare nell’occhio della madre.

Eppure eccolo lì, impalato e rigido sotto la stretta ferrea della donna, miseramente scoperto da lei, come un bambino che invano aveva cercato di nascondere i biscotti che non avrebbe dovuto mangiare; si sentiva così affranto, debole. Non avrebbe mai dovuto sistemare il colletto al suo fianco.

“Niente―”, annaspò con voce tremante, ma prima che potesse finire la frase ecco che un palmo colpì la sua guancia.

“Il Don aveva ragione”, disse lentamente lei, con tono triste ma al contempo freddo, tagliente, “Ti dovevo controllare, sei cambiato – non sei più il mio Jongdae, sei la brutta copia plasmata da quel ragazzo malefico”.

Parola dopo parola, il diretto interessato poté sentire il mondo creparsi attorno a lui, nel frattempo che la voce della genitrice lo feriva e lo colpiva. Era cambiato, eccome se lo era. Lo aveva sempre saputo, in fondo, prima ancora che il Don potesse comunicarlo alla donna, nell’esatto momento in cui i propri occhi avevano stretto un contatto con quelli dell’amante. Dopo quelle sensazioni strane e mai sentite prima, il giovane sapeva che l’organista avrebbe portato qualcosa che non lo avrebbe diretto verso il lieto fine, fino alla pace che la comunità gli aveva sempre garantito fino a quel momento; Joonmyun era caldo, pieno di vizi e lussuria, le sue labbra così rosee erano peccaminose e allo stesso tempo dolci, più del miele, eppure aveva finito col cedere alle sue tentazioni una, due, tre… innumerevoli volte.

Delle lacrime salate iniziarono a rigare il volto di Jongdae nell’esatto momento in cui sentì le cinque parole peggiori che la madre avesse mai potuto dirgli, “Tu non sei mio figlio”.

 

Si sentiva perso, solo. Era come se una cupola di vetro fosse stata posta su di lui nell’esatto momento in cui si chiuse alle spalle la porta della sua, ormai, vecchia casa, così da renderlo completamente invisibile agli altri. Da quel momento in poi non avrebbe avuto una famiglia che lo avrebbe accettato, una chiesa e una comunità che lo avrebbe accolto a braccia aperte.

Per tutto il cammino non fece altro che singhiozzare, incurante degli sguardi curiosi e confusi, e tenere il capo chino, nel frattempo che più lacrime gli bagnavano le gote che, al freddo, bruciavano. Le spalle gli tremavano, sia per il freddo sia per i mille singhiozzi che lo scuotevano da capo a piedi. Non alzò il volto finché non giunse a destinazione, e allungò una mano tremolante, così da suonare il campanello.

“Jongdae?”.

Il diretto interessato sentì il cuore scaldarsi quando udì la voce altrui chiamarlo, come se non lo facesse da giorni, settimane, mesi e persino anni. Sembrava essere passato molto tempo dall’ultima volta, e seppur gli venne voglia di sorridere, non fece altro che corrucciare le labbra e lasciare un singhiozzo più sonoro degli altri. Bastò quello per far allungare le braccia di Joonmyun, così da stringerlo a sé nel frattempo che chiudeva la porta e lo portava in salotto, al caldo.

Calore. Era assurdo da dire, poiché era solo da pochi minuti che aveva abbandonato casa, che se l’era lasciata alle spalle come se quello non fosse il suo luogo di appartenenza, ma il giovane ora poteva provare il calore che gli serviva. Quel calore che solo una casa adatta per lui poteva trasmettergli. Joonmyun. Alzò lo sguardo, per vedere l’amante mentre tornava da lui, con in mano una tazza piena di thè, e dentro di sé amore e odio lottarono, nella continua voglia di avere la meglio sull’altra. Perché sì, Jongdae amava l’uomo, ma al contempo lo odiava. Lo odiava perché si era presentato nel momento più bello della sua vita, quando pensava di aver trovato il giusto equilibrio; perché avrebbe tanto voluto allontanarsi da lui, ma più lo baciava e più ne desiderava ancora, voleva disperatamente rimanere con lui per provare più sensazioni.

“Non ce la faccio più”, asserì il minore contro il petto altrui ad un certo punto, con la tazza abbandonata sul piccolo tavolino davanti al divano, “È un incubo― vero? Io― io ho ancora una famiglia, mia madre mi ama ancora, non è successo niente―”, la voce gli si spezzò e dovette portare una mano davanti alla bocca, così da trattenere ogni suono.

Ci fu un minuto interminabile di silenzio dove non faceva altro che trattenere i nuovi singhiozzi, mentre il maggiore gli accarezzava dolcemente la spalla, senza aprire bocca. Finché non sospirò; quel filo di respiro colpì il volto del più giovane, ed era caldo.

“È la vita, Jongdae”.

“No― non―”, sussultò quando sentì le mani dell’organista stringergli le spalle, facendo in modo che si girasse così da essere l’uno faccia a faccia con l’altro, e lo sguardo che aveva non gli permise di continuare.

“È successo, lo devi accettare. Non tutti hanno la vita che desiderano, e tu sei fra questi, perché hai deciso di essere te stesso”, disse decisamente lui, e il suo sguardo bruciava più che mai, ma in un modo piacevole e che non gli dava fastidio.

In un attimo, Jongdae si sentì la testa più pesante del solito, il petto gli faceva male e sentiva le palpebre anch’esse pesanti, tenere gli occhi aperti era faticoso. Portò lentamente una mano contro il petto altrui, strinse la stoffa della maglia in un pugno e fece l’amante più vicino a sé, così da tirarlo in un leggero e debole bacio. Si sentiva senza forze. Quando entrambi si ritirarono da quel contatto, finalmente poté vederlo. Gli occhi di Joonmyun non erano umani, nessuno poteva possedere quel colore rosso scuro, e si sentì attratto.

“Ti prego”, mormorò, provocando una strana sensazione nel corpo della seconda persona.

“Ti prego cosa?”, chiese con tono gentile lui, accarezzandogli le gote secche, gli occhi rossi che gli brillavano di una strana luce.

“Chiunque tu sia veramente, ovunque tu venga in realtà― Joonmyun, portami con te”, implorò, stringendo ancora di più la maglia nel pugno tremolante, “Ti supplico”.

Ci fu un attimo di silenzio da parte di entrambi, e il diretto interessato sembrava più serio che mai. Aveva per caso detto qualcosa di sbagliato? Forse era tutto frutto della sua fantasia, e in quel momento lo stava scambiando per un pazzo? Tutto ciò era possibile, in fondo, o come poteva spiegare quel improvviso cambio di colore? Dal marrone al rosso scuro? Non disse niente, finché non si sentì stringere di più e non vide l’amante sorridere soddisfatto.

“Lasciati andare”, come in un déjà-vu, quel sussurrò picchiò contro il proprio orecchio e non fece altro se non abbandonarsi alle labbra altrui.

Il corpo ardeva, come se in quel momento lo avessero messo sul fuoco acceso, e si faceva sempre più pesante, come se si stesse addormentando in un sonno profondo, infinito. Presto non ebbe più la capacità di stringere la maglia dell’uomo e come ultima cosa sentì un leggero, lontano, “Ti amo”, prima che il buio e il nulla potessero risucchiare la sua coscienza.

 

 

Silenzio. Buio. Calore.

Nella stanza si fece presente un piccolo respiro, il quale interruppe l’angosciante silenzio della stanza. Pian piano il giovane riuscì ad aprire le palpebre, e la prima cosa che vide furono gli occhi rossi di Joonmyun, più brillanti che mai.

“Benvenuto fra noi, Kim Jongdae”, sussurrò dolcemente, accarezzandogli la guancia.

 

Jongdae lo sentì.

 

Il suo sussurro era Lucifero.

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > EXO / Vai alla pagina dell'autore: cowslipkkoch_