Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Michan_Valentine    03/04/2017    0 recensioni
Calardir ha un nome da elfo, usa le pitture di guerra e ha un compagno animale. Ma è un uomo, ha un obbiettivo e nasconde un segreto di cui non conosce l'entità.
In una terra divisa, superstiziosa e governata da un re invasore, le strade percorse da chi cerca con ogni mezzo di determinare il proprio destino s'incontrano in un quadro più ampio e delineato invece da tempo. Qualcosa di ancestrale e sopito nella memoria dell'umanità si agita nelle profondità della terra e negli animi di chi può avvertirne il potere, tirando gli invisibili fili di una trama che potrebbe sconvolgere il mondo conosciuto e portarlo definitivamente alla rovina.
Tentativo di "high fantasy" con tutte le eccezioni del caso.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 Capitolo 4 - Zemilos Sulescu
“Con questo approvate il rifornimento di armi per I Senza Re, mio signore.”
Zemilos impugnò la piuma d’oca e l’imbevve nel calamaio. Con la mano libera mantenne il foglio ben disteso sulla scrivania e vergò la propria, elegante firma su di esso. Ripose la piuma nell’apposito sostegno e scorse la lunga lista di armi lì elencate per l’ultima volta, aspettando che l’inchiostro si asciugasse.
Il documento era preciso e dettagliato e autorizzava il prelevamento di scudi, spade e lance dall’armeria dei Sulescu per rimpinguare le difese di Kratos alle mura Nord-Ovest, tanto care ad Abadon Encratis. Una motivazione più che sufficiente per giustificare una spedizione e inserire di straforo armamenti in più per i ribelli e vite umane da consegnare all’Anello d’Acciaio.
Zemilos sollevò lo sguardo su Pavel, impalato di fronte alla massiccia scrivania cui sedeva. Sul viso slavato e quasi glabro del suo tesoriere, gli occhi di un azzurro cinerino sembravano ancora più spenti, dandogli la parvenza di un pesce lesso. Soprattutto quando si ostinava a fissare la parete retrostante con la testa fra le nuvole.
Il Conte raddrizzò la schiena, le mani ai lati del documento, e si schiarì la gola. Di rimando il tesoriere sobbalzò e un guizzo di vita ne attraversò lo sguardo, che si spostò di scatto su di lui.
“C’è qualcosa che ti turba?” domandò Zemilos, fermo nel tono e nella postura.
Il pomo di Pavel si alzò e si abbassò rapidamente lungo la trachea.
“È lo specchio alle vostre spalle, mio signore,” confessò quindi. Stretto ai documenti, nei suoi vestiti scuri e sobri, il tesoriere sembrava ancora più sottile e dinoccolato. “Mi mette a disagio, come se…”
Il lord di Arthia inarcò il sopracciglio.
“Come se…?” l’incalzò. Per tutta risposta il pomo di Pavel si alzò e si abbassò nuovamente. “È uno specchio, Pavel, non farmi perdere tempo,” sottolineò quindi il conte, tornando alla documentazione.
Piegò in tre parti il foglio e afferrò il pezzo di ceralacca, che arroventò sulla fiamma della candela disposta lì di fianco, pronto ad apporre l’ennesimo sigillo della mattinata. E dopo ore passate alla scrivania desiderava solo abbandonare lo studio e dedicarsi ad altre questioni, più importanti della mera burocrazia.
Inoltre era da un po’ che non andava a trovare Heian, fin troppo impegnato a gestire i suoi proficui traffici e le tediose lamentele degli abitanti di Arthia per concedersi un po’ di svago.
Lasciò colare la cera sui lembi di carta e con l’anello andò a sigillare la comanda, imprimendo il simbolo dei Sulescu, il cinghiale rampante, sulla materia che si plasmò senza resistenze sotto il metallo. Contemporaneamente catturò con la coda dell’occhio la figura del tesoriere muoversi nervosamente da un piede all’altro innanzi alla scrivania.
“È come se guardandolo riesca a guardarti a sua volta,” disse infine Pavel. “Sembra che possa… risucchiarti…”
Zemilos inspirò profondamente e sollevò lo sguardo sul diretto interessato, che stava nuovamente fissando lo specchio alle sue spalle.
“Dite che il mio riflesso potrebbe prendere vita e attraversare la superficie fra questo mondo e… l’altro?”
Il conte si spostò sulla sedia imbottita, che scricchiolò nell’assestarsi sotto il peso massiccio del corpo. Voltò il capo e puntò lo specchio da sopra la spalla. Prevedibilmente il suo volto si delineò sul piano verticale e lo puntò di rimando, nitido come si aspettava. E forse anche un po’ di più.
Era uno specchio grosso, alto e largo come una porta. Come un passaggio, in effetti, perfettamente collocato fra le due librerie retrostanti. Silenzioso e immobile e innocuo, soltanto più lucido e meno sfocato delle altre lastre d’argento presenti nel suo palazzo. Anche più bello, con la spessa cornice rettangolare arricchita dalla filigrana floreale.
Zemilos scrutò la propria immagine mentre quella lo scrutava a sua volta, proprio come aveva detto Pavel. Le sopracciglia folte, la mandibola squadrata, la barba curata. Con il diadema a cingergli la fronte, simbolo del proprio lignaggio, e la pelliccia di volpe a coprirgli le spalle, era né più né meno che la rappresentazione di quanto si aspettava.
Non fosse per i lineamenti tirati e gli occhi incavati, che gli davano un aspetto meno nobile e più malsano. S’incupì a quella vista, si portò la mano stretta a pugno innanzi alla bocca e accusò due colpi di tosse, mentre andava a concentrarsi sull’intensità dello sguardo del proprio riflesso.
Aveva una profondità innaturale, dovette ammettere quando un piccolo brivido gli fece drizzare i peli alla base del collo. Una sensazione, più che un dato di fatto, che non si estendeva unicamente alla figura riproposta dallo specchio, ma anche all’ambiente dello studio riflesso sulla superficie in ogni dettaglio. Come se potesse allungare la mano e afferrare le suppellettili disposte su quella scrivania, o i tomi allineati su quelle librerie.
Zemilos ripose l’anello sul piano della scrivania e si spostò ancora una volta sulla sedia, accompagnato dai soliti scricchiolii. Dall’altra parte del tavolo il tesoriere sembrava attendere un responso, le dita ossute strette alla risma di incartamenti e le labbra sottili talmente tirate da sembrare un’unica linea trasversale sul viso altrettanto allungato. Rughe di preoccupazione gli solcavano la fronte stempiata.
Per tutta risposta il Lord di Arthia prese la lista di armi siglata e sigillata di fresco e gliel’allungò con nonchalance.
Tuttavia quando Pavel obbedì all’ordine implicito e strinse le dita sulla carta per aggiungere l’ultima dichiarazione alla sua già folta pila, Zemilos rafforzò la presa sul documento e lo trattenne per alcuni istanti ancora.
“È uno specchio, Pavel, uno specchio di ottima fattura,” sottolineò. “Non farti suggestionare, mi hai capito?”
Permise al tesoriere di ritirare il documento e si rilasciò pesantemente sullo schienale della sedia, le dita intrecciate sulla scrivania innanzi a sé, in attesa del segno d’intesa che pretendeva. E che avrebbe definitivamente chiuso la questione senza ulteriori spiegazioni.
Pavel chinò il capo, deglutì ancora e si umettò le labbra, infilando il foglio tra gli altri con una flemma tale da suggerirgli che stesse prendendo tempo. E forse era proprio così.
“Mio signore, sapete che vi sono fedele da sempre e che i vostri segreti sono al sicuro con me,” disse infine, tornando a guardarlo dritto in faccia, “ma con tutto il rispetto stavolta ritengo di dovervi contraddire.”
Zemilos restò immobile, ma le dita disposte sul tavolo in posizione di riposo s’irrigidirono alla sola prospettiva e divennero una morsa, di già infastidito dal mancato – e dovuto – assenso del sottoposto. Allo stesso modo le sue sopracciglia si fecero più grevi, proiettando ombre più scure sui tratti già ruvidi e massicci del viso.
Il Conte non amava essere contraddetto. Mai.
Pavel strabuzzò gli occhi. La preoccupazione era ormai così estesa ed evidente nella sua espressione da renderlo sciocco nelle fattezze, oltre che scialbo. Il labbro inferiore gli tremò, prima che riuscisse a dar seguito al discorso.
“Trattenete la collera, vi prego, non direi mai nulla che possa danneggiarvi,” si schermì, col tono di voce leggermente più acuto.
Zemilos perseverò immobile, ma non più morbido, concedendogli il privilegio di esprimersi col semplice silenzio. Dopotutto Pavel diceva il vero, lo serviva fedelmente da anni e si era sempre premurato di mantenere il segreto sui piccoli traffici illeciti di cui si occupava, in qualità di complice e di contabile. Questo l’aveva anche arricchito – un risvolto più che conveniente per il mero figlio illegittimo di un valvassino poco importante – ma lo rendeva piuttosto affidabile e intuitivo se si parlava di mantenersi al sicuro. 
“Avete riposto la vostra fiducia in,” il tesoriere si umettò nuovamente le labbra, forse cercando il modo migliore per descriverlo, “in quell’uomo,” decise infine, “ma la verità è che non lo conoscete. Il Barone dell’Anguilla Nera si dice vostro amico e finora ha rispettato i patti, ma, ecco… un Tessitore di Trama?! Arthia non ha bisogno di un mago, non ne ha mai avuto bisogno, il Lord vostro padre era Kratossiano e noi di Kratos non facciamo affidamento sulla magia per difendere le nostre terre né scendiamo a patti con i Thyatiani!”
“Mio padre era Kratossiano quando la schiavitù era la norma e sul trono di Kratos sedeva uno di noi,” puntualizzò Lord Zemilos. “E ora guardami, costretto a chinare il capo davanti all’invasore e a rischiare la posizione che è mia per insindacabile diritto di nascita solo per mantenere uno stralcio della nostra identità! Perciò non venirmi a parlare di cosa avrebbe o non avrebbe fatto mio padre!” tuonò, sciogliendo l’intreccio delle dita solo per alzarsi di scatto e battere ambo i palmi sulla scrivania.
L’eccesso d’ira gli provocò due profondi colpi di tosse che lo scossero fin nel profondo a dispetto della stazza, costringendolo a piegarsi in due con la mano stretta al petto.
Pavel fece un passo in avanti, ma Zemilos s’affrettò a mettere l’altra mano nel mezzo, bloccandolo sul posto prima che potesse offrirgli aiuto. L’ultima cosa che gli serviva era qualcuno nella corte che si interessasse alla sua tosse, dando adito a pettegolezzi e speculazioni. Pertanto si schiarì la gola, deglutì assaporando il sangue e tornò a sedere solennemente come se nulla fosse accaduto.
“Io so quello che faccio, Pavel, e a questo mondo esistono mali necessari,” disse con più calma.
“Lo capisco, ma gli specchi che vi ha donato sono… strani. Non metto in dubbio che la presenza del mago sia necessaria come dite, né il vostro giudizio in merito, ma è delle sue intenzioni che diffido. Non temete che possa nascondervi qualcosa? Che possa spiarvi con occhi non umani? O magari succhiare via la vostra linfa o l’anima di chi poggia lo sguardo sui suoi artefatti!”
A quell’ultima insinuazione – che alludeva vagamente al malore di pocanzi – gli occhi di Zemilos Sulescu lampeggiarono nuovamente d’ira, se possibile più viscerale della precedente. Di rimando il tesoriere richiuse la bocca in un colpo e distolse perfino lo sguardo, dirigendo l’attenzione sulla punta delle scarpe.
Di sicuro il fido Pavel non aveva dimenticato l’incidente nella stalla, uno dei tanti segreti che condividevano, e di come il badile fosse calato sul cranio del mastro di caccia, ancora e ancora e ancora, finché del suo cranio non era rimasto che gelatina. Anche la buonanima l’aveva contraddetto, risparmiando il cane zoppo che aveva ordinato di abbattere.
“Adesso basta,” sibilò il Conte, “hai delle mansioni di cui occuparti, una carovana e delle merci da preparare, soprattutto degli uomini da istruire. Stavolta gradirei che non ci fossero incidenti alla consegna, né preziosa merce sfuggita e cacciata per i boschi alla stregua di selvaggina. I corpi sono prove,” sentenziò. “Aspetterò un resoconto dettagliato delle entrate e delle uscite sulla mia scrivania.”
“Sì, mio signore,” rispose Pavel, gli occhi puntati a terra e l’espressione spenta, forse anche un po’ atterrita se si consideravano i solchi sulla fronte.
Ciò detto il tesoriere chinò il capo per congedarsi, avviluppandosi maggiormente al fascio di documenti stretti al petto, e si ritrasse in silenzio, i passi attutiti dalla consistenza del tappeto ricamato che si estendeva per quasi tutta la pavimentazione della stanza. Poco dopo scomparì oltre l’uscio dello studio.  
Rimasto solo, Zemilos si concesse un lungo sospiro, sprofondando nella sedia e allungando i piedi sotto la scrivania. Piegò il capo fin quasi a toccarsi il petto col mento e si sfilò anche il diadema, simbolo di potere, per passarsi le dita fra i radi capelli e riallinearli perfettamente dalla calotta alla nuca, dove si soffermò in una stretta. Gli faceva male il collo, considerò massaggiandosi la parte in questione, forse per via del troppo lavoro o dei pensieri assillanti o delle noie costituite dagli abitanti del palazzo. O per tutte e tre le cose insieme.
Nel silenzio della stanza, interrotto appena dal cinguettare allegro proveniente dall’unica apertura verso l’esterno, il Conte voltò nuovamente il torso e la testa verso la parete retrostante, osservando il proprio riflesso impresso sulla superficie cristallina dello specchio. Sembrava quasi che la copia dovesse agire di proprio conto da un momento all’altro, tanto per cominciare riservandogli un sinistro e beffardo sorriso.
Non c’era bisogno che a dirglielo fosse il tesoriere, non era certo uno sprovveduto e da bravo Kratossiano non aveva mai riposto la propria fiducia nelle diavolerie di maghi o, peggio ancora, stregoni. Ciononostante la necessità talvolta superava di gran lunga la prudenza – la superstizione – e c’erano cose, limiti, che i semplici uomini non potevano prescindere.
Ciò non significava che si sarebbe lasciato imbrogliare...
Passò un’ultima volta le dita tra i fili neri e grigi dei capelli e riposizionò il diadema al suo legittimo posto: sulla fronte del Lord di Arthia.
Aprì il cassetto della scrivania e lo svuotò del contenuto, carta da lettere, tagliacarte e piume d’oca, che presero posto fra le altre suppellettili del piano. Inclinò il fondo del vano e lo sfilò abilmente, rivelando il doppio fondo ivi celato e i suoi scottanti segreti: i resoconti commerciali dell’ultimo anno. Il più proficuo mai avuto, a dire di Pavel.
Raggruppò i documenti sparpagliati sulla scrivania e l’infilò nel cassetto. Stessa sorte toccò al registro dell’anno in corso, piuttosto nuovo se paragonato al precedente, con la copertina di pelle nera così lucida da sembrare intonsa e il segnalibro dorato appena sfilacciato dall’uso.
Occultò nuovamente il tutto e reinserì nel vano così truccato ciò che aveva spostato sulla scrivania, lasciando il cassetto come l’aveva trovato. Lo spinse dentro, sfilò la chiave dalla tasca della tunica e lo chiuse per bene, rigirando più volte nella toppa.
Era quasi ora di pranzo, ma contava di concedersi un po’ di svago prima che il corno suonasse e raggruppasse la famiglia attorno al desco. Perciò scostò la sedia e si alzò dalla scrivania con tutta l’intenzione di raggiungere le stanze di Heian. Il pensiero riuscì a caricarlo d’anticipazione e sogghignò.
Non sarebbe stato facile, non lo era mai in principio, ma c’era un punto nei loro incontri, quando ogni resistenza risultava vana, che riusciva ad appagarlo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Neanche se ne accorse, ma saettò con la lingua fra le labbra e le inumidì, di già accarezzando l’attimo.
Percorse la distanza che lo separava dalla libreria accanto alla porta e allungò le dita verso le coste dei libri, soffermandosi nei pressi di un grosso tomo dalla copertina rossa: trattato di architettura civile e militare post Grande Tenebra. L’estrasse e lo sfogliò, finché incappò nello spazio ritagliato nelle pagine. Lì infilò la chiave del tiretto.
Richiuse il libro con un tonfo e lo ripose nel varco lasciato vuoto sullo scaffale, lì dove Pavel avrebbe potuto facilmente trovarlo in caso di necessità.
Zemilos si sistemò rapidamente le pieghe di calzoni e tunica, tirò su con ambo le mani la grossa cintura dalle rifiniture in oro che teneva stretta in vita e constatò suo malgrado che la pancetta stava aumentando con l’età, conferendogli una stazza sempre più importante.
Abbandonò lo studio e percorse i corridoi del proprio palazzo di gran carriera, col solo obbiettivo di rispettare i tempi dovuti dal ruolo che ricopriva in qualità di Conte; ma sul tragitto intercettò una delle servette di sua moglie. Poco ma sicuro: non si trovava lì per caso – non senza il permesso del Lord, poco propenso alle trasgressioni – e la sua presenza poteva significare solo nuove incombenze in vista.
Quando la ragazza l’arrestò lungo il corridoio e chinò il capo in segno di rispetto, pronta a comunicargli quanto aveva da dire, Zemilos sospirò.
“Lady Ilyana chiede di voi, vi sta aspettando nelle sue stanze, Milord,” riferì la servetta continuando a fissare il pavimento. “Dice che vuole presentarvi la nuova dama di compagnia e che è arrivata una missiva per voi da parte di Lord Davus Ferinor.”
Il conte lasciò scivolare i denti gli uni sugli altri, soppesando il significato e il valore del messaggio. Cambiare rotta e recarsi negli appartamenti di Lady Ilyana gli avrebbe fatto perdere un mucchio di tempo in convenevoli, tempo che avrebbe invece potuto dedicare a se stesso e a Heian. In più Lord Davus non aveva nulla d’importante da dirgli, perché i Thyatiani erano soliti perdersi in facezie, forse resi molli dalla patria soleggiata, fertile e ricca di materie prime che li aveva visti nascere e crescere.
Poteva già immaginare il contenuto della missiva, vergata dall’elegante e nobile mano del Lord invasore, che discorreva del tempo, dei soggiorni estivi condivisi in riva al mare e della prossima caccia al cervo, senza mai dimenticare le lodi per la nipote Ilyana.
Zemilos arricciò leggermente le labbra verso il basso, invero celando una smorfia. Ciononostante ignorare la parentela acquisita e l’invito della consorte sarebbe servito unicamente a indisporre quest’ultima, di per sé fragile di nervi. E se c’era qualcosa che l’infastidiva più dell’insubordinazione erano le scenate isteriche di sua moglie.
Spesso, nell’intimità della notte o durante i litigi, aveva immaginato di stringere le dita sulla sua candida gola e di guardarla illividire finché avesse smesso di gridare, dicendogli cosa doveva o non doveva fare… peccato che la donna possedesse più ascendente di lui sulla popolazione di Arthia, ansiosa com’era di prodigarsi per i meno abbienti con questa o quella richiesta di sovvenzioni, come se il denaro crescesse sugli alberi.
“Va’, riferisci a Lady Ilyana che passerò dalle sue stanze,” stabilì infine, concedendo alla servetta un freddo e rapido sorriso.
La ragazza accennò un inchino e corse via, tradendo forse troppa premura. L’ignorò, dopotutto preferiva essere temuto che non rispettato.
Riprese la marcia attraverso gli anditi del palazzo e raggiunse le stanze private della Lady sua moglie poco più tardi, certo che la dama fosse già stata informata del suo arrivo. Le guardie non si mossero al suo passaggio, imponenti ed eleganti ai margini dell’ingresso. Nelle armature ben lucidate e nei colori bianco e verde scuro dei Sulescu sembravano più statue che uomini.
Ad accoglierlo per prima nel salotto fu la calda risata di Lady Ilyana, che ne stava seduta su di uno dei divani vicino al camino, attorniata da una moltitudine di cuscini. Alle spalle di sua moglie sovrintendeva Ser Khristofor, il Capitano delle guardie, col sorriso ad ammorbidirne i tratti e la mano discintamente poggiata allo schienale della seduta, fin troppo prossima alle spalle della donna. Soprattutto quando le chiome dorate ritirate sopra la testa di lei mettevano in risalto la linea bianca del collo.
“Mia cara, dico davvero,” stava discorrendo sua moglie, “non c’è bisogno di agitarsi, il tuo dev’essere stato un viaggio lungo e stancante, è ovvio sentirsi prostrati. Darò ordine di prepararti subito qualcosa da mangiare.”
Si rivolgeva all’ospite seduta sul divano dirimpetto, la nuova dama di compagnia, che in quel momento dava le spalle all’ingresso per via della posizione sfavorevole dell’arredo. Dall’uscio Zemilos notò solo il ciuffo di capelli castani che spuntava oltre lo schienale, malamente tenuto sulla nuca, e pensò che la giovane dovesse anche sciacquarsi e cambiarsi d’abito, prima ancora di mangiare.
“Perdonatemi per il rumore, mia signora, non si tratta di fame. Ho lo stomaco in subbuglio, non sono mai stata così lontano da casa e… ecco, voi siete così bella, qui è tutto così bello che,” la ragazza si strinse nelle spalle e agitò improvvisamente le mani innanzi a sé, “ma non rifiuterei mai la scodella di zuppa che mi state offrendo!”
Per tutta risposta Lady Ilyana si profuse in una seconda, più piena risata, sollevando il mento in direzione di Khristofor, probabilmente per incrociarne le iridi in un gesto automatico di condivisione. Così facendo la donna si accorse della sua presenza nei pressi dell’uscio e fece in fretta a cambiare il destinatario delle proprie attenzioni, appuntandogli addosso i suoi grandi occhi azzurri, le palpebre leggermente più schiuse del normale.
Sul viso liscio, bianco e pingue di sua moglie c’era sorpresa – probabile che non si aspettasse partecipazione nonostante l’invito – e le labbra schiuse in una perfetta “o” tradivano forse un filo di preoccupazione che la diceva assai lunga sulle momentanee circostanze, oltre a farla rassomigliare ad un grosso e sgraziato pesce palla.
“Mio Lord,” esordì, aprendosi subito dopo in un sorriso cordiale, “vedervi mi allieta. Vi siete affrancato dai doveri mattutini?”
Khristofor ritrasse sospettosamente la mano e si fece appena più indietro, prima di disporsi sull’attenti. Ciò che colpì il signore di Arthia fu la scioltezza con cui agì, nient’affatto impensierito dal giudizio di chi amministrava la vita e la morte nel feudo. Evidentemente considerava la posizione che ricopriva per nascita – secondogenito di Yuri Serkoff, uno dei suoi valvassini più fedeli e potenti – una protezione sufficiente. O forse erano la giovinezza e la carica insignitagli da lui stesso in persona ad annebbiargli l’intelletto.
 
“Non ancora, mia Lady,” rispose Zemilos brevemente, invero puntando gli occhi su Khristofor. “Capitano, mi fa piacere che tu tenga alla sicurezza di Lady Ilyana, ma suppongo che il ruolo che ricopri t’imponga di sovrintendere a questioni più urgenti e più importanti di mere chiacchiere da salotto.”
Serkoff non batté ciglio all’osservazione. Fermo alle spalle di sua moglie, col capo eretto e la schiena dritta, gli si rivolgeva con espressione tranquilla. Quasi fiera, vuoi per l’armatura, vuoi per la cappa bianca che gli avvolgeva le spalle giungendo fino a terra, vuoi per la spada che gli pendeva marziale dal fianco, col pomolo a forma di testa di cinghiale che gli si rivolgeva minaccioso nella sua dovizia di dettagli.
Ciò l’irritò, ma non per la refrattarietà dimostrata dal sottoposto. In qualche modo gli sembrava di trovarsi innanzi a uno specchio, che gli rimandava senza pietà l’immagine del giovane e forte Kratossiano che avrebbe dovuto essere. E che era stato un tempo, quando aveva visto meno inverni e aveva accettato meno compromessi.
“La sicurezza di Lady Ilyana non è secondaria a quella della vostra roccaforte, mio signore, e tutto ciò cui tenete è mio dovere difendere,” ribatté Khristofor in tono fermo. “Inoltre ho già effettuato la mia ronda e mi sono assicurato che tutto fosse in ordine. Il tenente maggiore è stato incaricato di verificare lo svolgimento delle operazioni giornaliere in mia assenza e, come sapete, è uomo di grande zelo.”
“Mio Lord, sono stata io a chiedere a Ser Khristofor di raggiungermi,” interloquì Ilyana, andando freneticamente con lo sguardo dall’uno all’altro. “Desideravo che riconoscesse l’impegno del soldato mandato a Melcent come scorta per Dar’ya Rakova. Ricordi? La figlia della signora Svetlana…”
“Oh!” esclamò Zemilos, ricollegando piano nomi e avvenimenti; e il soldato di cui parlava sua moglie era in effetti in un angolo della stanza, logoro e polveroso negli abiti con cui aveva affrontato il viaggio. Dei Sulescu aveva solo la fascia verde e bianco a tracolla col simbolo della Casa ben appuntato sul petto. Perciò in disparte com’era, a capo chino, sulle prime non l’aveva neanche notato.
Ciò non placava la sua irritazione né giustificava l’atteggiamento del Capitano, ovviamente, soprattutto quando si rivolgeva al suo signore in maniera così diretta e ne rifiutava perfino gli ordini impliciti – anche se l’aveva scelto esattamente per questo, per l’indole sicura e ferma che ogni leader necessitava per guidare un esercito. Un’arma a doppio taglio con cui non aveva fatto bene i conti.
Zemilos si approssimò al salotto, lentamente, con le mani dietro la schiena e gli occhi di moglie e Capitano addosso. La piccola Dar’ya Rakova si strinse nelle spalle a sua volta e si girò di rimando, prendendo a osservarlo di sottecchi dalla sua postazione. Il Conte non mancò di notare come si torturasse le dita, forse tormentata dall’incertezza di cosa sarebbe accaduto da che aveva fatto il suo ingresso.
“Dimenticavo quanto nobile sia l’animo della mia consorte,” asserì quindi il Lord di Arthia, ammorbidendo appena l’espressione e approssimandosi al soldato senza nome. Uno dei tanti che vedeva sfilare per il suo palazzo ogni giorno durante il turno di guardia o che sostavano per ore innanzi a questo o quell’ingresso, pressoché invisibili. “Di come tenga in grande considerazione chiunque s’impegni e sappia portare a termine gli incarichi affidati. Ti ringrazio personalmente per aver protetto e guidato a palazzo la signorina Rakova, per questo disporrò che tu venga ricompensato. Ma ricorda che la fiducia accordata reca grandi responsabilità oltre all’indubbio onore,” continuò, arrestandosi innanzi all’uomo.
Era giovane, biondo, di bell’aspetto, col naso dritto e la mandibola volitiva. Fra le ciglia tenute basse – almeno qualcuno ricordava ancora cos’era il rispetto e la soggezione dovuta al signore di Arthia – brillavano pagliuzze di un colore insolito, più simile al viola che al blu. Forse un’impressione, uno scherzo voluto dalla luce che si rifrangeva in maniera singolare sul viso del sottoposto e che gl’ingannava la vista.
Non fosse per l’altezza, il colore dei capelli e la regolarità dei tratti tipicamente Thyatiani l’avrebbe trovato addirittura attraente. Zemilos inclinò il capo e non visto si soffermò sulle labbra piene del soldato, concedendosi il lusso d’immaginarne la consistenza.
Tuttavia egli non era che un mezzo per raggiungere lo scopo, né più né meno. Avrebbe quasi dovuto ringraziare Lady Ilyana e la scelleratezza con cui permetteva a chiunque di entrare nelle sue stanze, tra sporchi soldati semplici o volgari e ignoranti contadinotte che pretendeva di far passare per dame di compagnia. Peccato che fosse lei la diretta causa del problema; e per gli stessi punti sopra elencati.
“Per distinguersi non bisogna mai dimenticare da dove si viene e chi si serve, né crogiolarsi nella vanagloria dei risultati conseguiti,” continuò. “Ma sono certo che il Capitano Serkoff saprà meglio spiegarti quali sono o non sono i doveri di chi presta servizio nell’arma dei Sulescu, dico bene?”
“Benissimo, mio signore,” rispose prontamente Khristofor.
Faccia a faccia col soldato non poteva vederlo, ma era sicuro che il messaggio fosse arrivato forte e chiaro. Tanto più che Serkoff era tutto fuorché stupido.
Il giovane biondo ringraziò per la generosità e chinò ulteriormente il capo innanzi al Lord.
Zemilos se ne compiacque e tornò a fronteggiare il salotto, affrettandosi a dirigere lo sguardo da quella parte. Il Capitano lo fissava di rimando, immobile e dritto come una statua alle spalle di sua moglie esattamente come l’aveva lasciato, ma a differenza di prima un’ombra gli appesantiva i tratti.
Di sicuro c’era qualcosa che avrebbe voluto aggiungere, un peso sullo stomaco di cui avrebbe voluto liberarsi, ma non poteva. Non senza esporsi, sorpassare la linea e compromettere definitivamente la sua posizione – e dubitava che Yuri Serkoff avrebbe tollerato infamia da parte del figlio. E c’era un che di delizioso nell’osservare un così fiero condottiero ingoiare il rospo e obbedire senza replica.
“Lady Ilyana ha grande considerazione di te, Khristofor,” riprese il Conte, aggirando lentamente il divano cui sedeva Dar’ya Rakova per posizionarsi al centro della stanza, nella fattispecie accanto alla moglie. “Perciò ricompensa pure il tuo sottoposto nella maniera che ritieni opportuna,” stabilì.
“Ha svolto per me un compito importante,” intervenne Lady Ilyana, accondiscendente come al solito. “Ti sarei grata se lo trattassi con tutti i riguardi.”
Khristofor Serkoff si portò il pugno al petto e chinò appena il capo, sull’attenti.
“Come desiderate, mia signora,” rispose; dopodiché si allontanò di gran carriera, il mantello bianco che si alzava in vaporose pieghe lungo il tragitto e l’armatura che ne accompagnava il portamento deciso, quasi altero, con inevitabile rumore metallico.
Zemilos seguì con la coda dell’occhio le figure di Capitano e soldato semplice che si allontanavano dal salotto fino a scomparire oltre l’uscio, considerando quanto la situazione sfavorevole al superiore in rango avesse invece avvantaggiato quest’ultimo. Ironia della sorte, probabilmente.
Arricciò leggermente le labbra al di sotto dei folti baffi, afferrò con ambo le mani la cintura stretta in vita e si accomodò accanto alla consorte con un profondo e soddisfatto sospiro, facendosi largo fra la moltitudine di cuscini. Di conseguenza il divano scricchiolò sotto il peso delle massicce membra.
Subito Ilyana allungò la mano e la strinse su quella del marito, rilasciata incautamente sulla propria gamba. Zemilos s’irrigidì sotto il tocco inaspettato, ma non si sottrasse. Non ricambiò nemmeno, comunque, concentrandosi piuttosto sulla giovane accomodata dirimpetto.
Dar’ya Rakova non lo guardava, le dita in grembo che si ritorcevano come vermi, aggrovigliate fra loro per il nervosismo. Era minuta, con i capelli castani e la pelle ambrata tipica dei Kratossiani, ma tutto di lei ne faceva intendere le origini modeste, dall’abbigliamento rozzo ed essenziale alla postura nient’affatto elegante; e stretta nelle spalle sedeva addirittura ricurva, più come una bestiolina ferita e spaventata che come la dama di compagnia di Lady Ilyana Sulescu.
Era figlia di contadini, dopotutto; e su quel divano, fra i cuscini di velluto ricamati in oro e argento, sembrava ancora più misera, oltre che fuori luogo. Dai lineamenti tirati del viso e dalla postura rigida doveva saperlo perfettamente anche lei, comunque, perché trasmetteva chiaramente il desiderio di volersi trovare altrove. Ovunque eccetto che lì, dinanzi allo sguardo di Lady e Lord Sulescu di Arthia.
Punto su cui erano pienamente d’accordo, checché ne pensasse la consorte, sempre disposta a dispensare favori a chiunque ne suscitasse l’interesse: esisteva un ordine ed esisteva per un motivo. E da che il mondo era tale i nobili non sedevano in compagnia dei popolani.
“Svetlana Rakova,” esordì infine Zemilos, rispettando i dovuti convenevoli, “mi spiace che sia venuta a mancare, era una donna umile ma piena di risorse. Sapeva leggere e fare di conto, soprattutto non temeva la fatica,” enunciò, sventolando pigramente la mano libera per aria mentre tesseva le lodi della vecchia.
Ancora di più ne ricordava le pieghe e le macchie del viso, la pelle cotta dal sole, le mani nodose per il troppo lavoro e ruvide come la corteccia, il sorriso scuro e storto, dettagli che gliel’avevano sempre resa grottesca e insopportabile alla vista, soprattutto negli abiti eleganti indossati nel periodo passato a corte. Quando il massimo cui avrebbe potuto aspirare sarebbe stato un posto nelle cucine in qualità di sguattera.
Fortunatamente la giovinezza della prole rendeva il quadro decisamente più accettabile e ricoperta di broccato Dar’ya Rakova sarebbe risultata meno stonata della genitrice.
“Non puoi immaginare quanto mi sia stata di conforto negli anni,” soggiunse invece Lady Ilyana, aprendosi in un sorriso malinconico. “Aveva sempre un saggio consiglio o una massima popolare per tutti. E per ogni situazione. Soprattutto sapeva come prendere la vita con ironia, dote che, ahimè, mi è sempre mancata. Si può dire, quindi, che abbia imparato molto da lei…”
Dar’ya Rakova si spostò nervosamente sul divano e, senza smorzare la stretta o la curva delle spalle, sollevò lo sguardo sugli interlocutori. Sul viso di ragazzina spiccava un timido sorriso che la faceva sembrare ancora più piccola e smarrita al cospetto dei blasonati.
“Mia madre sarebbe contenta di parole così belle,” disse, “ne sono contenta anch’io e mi piacerebbe sentirne ancora. Vorrei,” incassò leggermente la testa fra le spalle, “vorrei saperne di più su di lei, capire che tipo di persona fosse. Ero molto piccola quando lasciò Melcent per servire a palazzo, così…”
“Oh,” esclamò Ilyana, portandosi le dita innanzi alla bocca in segno di cordoglio, le sopracciglia corrucciate sulla fronte bianca e liscia, “povera cara, ma certo. Avremo modo di conoscerci meglio e di discorrere anche di questo, di come ci siamo incontrate e quali vicissitudini abbiamo condiviso. Per ora voglio solo che tu sappia che siamo molto felici di averti qui, è come se Svetlana non ci avesse mai lasciati.”
Zemilos inspirò profondamente, esasperato dalle ultime parole. Di rimando si raddrizzò e assunse una posizione più imponente e austera, seccato per la perdita di tempo e per quei discorsi patetici che poco avevano a che vedere con ciò che effettivamente stava accadendo in quel momento. E con quanto d’importante c’era da puntualizzare in merito.
“Tua madre si è guadagnata il favore del nostro Casato, di per sé avvenimento raro se si considera che la corte è costituita da dame e cavalieri,” intervenne quindi, “perciò quello che ti viene concesso oggi è addirittura un privilegio senza pari. Mi auguro che saprai dimostrarti grata e all’altezza della fiducia che ti viene accordata.”
La ragazza si strinse ulteriormente nelle spalle, ammesso e non concesso che fosse possibile, e lo puntò con occhi grandi. Zemilos la guardò deglutire con fatica, rumorosamente. Perfino lo stomaco le gorgogliò. Il peso delle responsabilità sembrava essere palpabile, tanto gravava sulle esili membra della ragazza, ma non provò tenerezza né per la sua giovane età, né per lo smarrimento insito nei suoi occhi, né per i concetti espressi senza ulteriori giri di parole.
Si trattava di affari, un accordo dai termini ben precisi. Era così per tutto, che si trattasse di matrimonio, di amicizia o di lavoro. Ed era bene che capisse subito quale fosse il suo posto all’interno della cerchia, ammesso e non concesso che non fosse di per sé evidente.
Le dita di Ilyana strinsero con decisione la mano lasciata inerte sulla coscia, in un richiamo implicito che non passò di certo inosservato. O gradito.  
Lentamente il Conte voltò il capo in quella direzione, appuntando iridi cupe sul volto della moglie, che gli si rivolgeva invero senza preoccupazioni. Sapeva di essere intoccabile, se non nella reputazione dei Ferinor.
“Non temere, sono sicura che Dar’ya non ci deluderà, mio Lord,” affermò quindi, tagliando di netto il discorso.
Zemilos sollevò impercettibilmente il mento, piccato, e per alcuni istanti perseverò con le iridi piantante in quelle della consorte.
“Nossignore, non vi deluderò,” rincarò Dar’ya Rakova, una piccola macchia tremante su di un lato della vista periferica. “Vi chiedo scusa se ho parlato senza permesso, ma imparerò presto a comportarmi e non vi farò vergognare, lo giuro. Vi ringrazio moltissimo per tutto quello che fate per me.”
Il signore di Arthia rilasciò il fiato, sfilò la possente mano dalla stretta di Lady Ilyana e tornò a volgersi con solennità alla piccola villica di Melcent.
Le dita che aveva tenuto intrecciate in grembo ora le carezzavano l’addome, lì dove il nervosismo doveva farle dolere le viscere. E forse Ilyana aveva ragione, la ragazza aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti così da calmare lo stomaco, prima almeno che perdesse i sensi alla stregua di una svenevole donnicciola. E da come sudava freddo, valutò osservando le piccole goccioline che le imperlavano la fronte, come possibilità non era così remota.
Zemilos rilassò le membra, ammorbidì l’espressione e soprattutto sfoderò un sorriso compiacente.
“Molto bene,” stabilì quindi, battendo i palmi sulle ginocchia, “ora devi pensare a rifocillarti, sono certo che il viaggio sia stato lungo e stancante. Darò ordine di preparare qualcosa, dopotutto è quasi ora di pranzo e in cucina ci sarà già un gran daffare. Nel frattempo la servitù ti illustrerà dove sciacquarti e cosa indossare, di certo non puoi girare per le stanze di Lady Ilyana coperta di polvere dalla testa ai piedi.”
“Sì, mio signore,” fece eco la nuova dama di compagnia.
Ciò stabilito il Conte si alzò dal divano e fece per incamminarsi altrove, finalmente lì dove avrebbe potuto svuotare la mente e rilassarsi un po’. Tuttavia riuscì a compiere appena due passi che la voce di sua moglie gli arrivò insopportabile alle orecchie, trattenendolo ulteriormente nel salotto.
“Mio Lord, non volete sapere cosa scrive mio zio, Lord Davus?”
Non visto – spalle ormai rivolte alle interlocutrici – Zemilos inclinò leggermente il capo all’indietro, socchiuse le palpebre e rilasciò anche le braccia lungo i fianchi, colto alla sprovvista dalla futile incombenza che aveva letteralmente cancellato dalla memoria. Senza contare che non aveva interesse a sapere cosa il Thyatiano in questione avesse da dirgli. Sciocchezze, probabilmente.
“Ma certo, è da un po’ che non sentiamo il Lord tuo zio, di certo starà organizzando la prossima battuta di caccia,” rispose, tornando sui propri passi solo per intercettare il braccio già teso di sua moglie nell’atto di porgergli la missiva. “Potremmo unirci ai Ferinor lla fine del mese prossimo, il tempo di definire alcune questioni con i nostri valvassini, preparare i bagagli, la carrozza…”
Il Conte si portò il foglio con la ceralacca infranta innanzi al viso e lasciò scorrere le iridi sulle righe scritte da Davus in persona, cogliendone perlopiù i concetti chiave. Caccia al cervo, manco a farlo apposta.
Evitò di palesare il fastidio nel constatare le sue più nere previsioni e ripiegò il foglio in tre parti con grande scioltezza, pronto a riconsegnarlo alla consorte.
“Passare del tempo con i tuoi cugini gioverà al tuo umore,” stabilì infine, tendendo il braccio da quella parte.
Alla prospettiva Lady Ilyana s’illuminò, letteralmente. Le guance piene si tesero a rivelarne il sorriso bianco, le piccole rughe attorno agli occhi s’incresparono gradevolmente e le iridi celesti della donna divennero addirittura brillanti come zaffiri. Strano a dirsi, ma il Conte trovò che fosse addirittura piacente con quell’espressione sul viso.
Persino il corpo rotondo della consorte – dapprima rilasciato sulla coltre dei cuscini – si raddrizzò in una volta dalla contentezza e quasi s’aspettò che battesse le mani, eccitata come una bambina.
Buon per lui, con una sola mossa avrebbe consolidato l’alleanza con i Ferinor e si sarebbe tenuto buona sua moglie. Almeno fino alla prossima sfuriata, dacché sempre insoddisfatta di questo o di quello.
Pervasa da nuova energia, Ilyana recuperò la missiva e la dispose nuovamente sul piccolo ripiano accanto al divano, lì dove faceva mostra anche un piccolo contenitore di legno che sulle prime non aveva notato.
Zemilos aggrottò le sopracciglia quando la Lady ne schiuse il coperchio e ne estrasse un lungo ed acuminato pezzo di metallo.
“Un dono,” spiegò la donna, “una spilla in filigrana d’oro e pietre preziose lavorata dalle abili mani degli artigiani di Mirroden. Me l’ha consegnata il messo, da parte di mio zio. Deve averla presa per te durante il suo ultimo viaggio alla corte degli Encratis.”
Un dono regale, pensò il Conte. Pertanto rifiutarlo, per quanto non riscontrasse personale attrattiva per gli orpelli, sarebbe equivalso a un insulto vero e proprio. Tant’è che quando Lady Ilyana abbandonò il divano per appuntargli il gioiello sulla cappa di pelliccia non mosse muscolo e la lasciò fare.
Mandò lo sguardo dall’espressione entusiasta di sua moglie al prezioso che gli stava sul petto, perfetto nella sua linea semplice ma elegante. La filigrana oro e argento si rincorreva e si ritrovava dando forma allo stemma del casato Sulescu, un cinghiale su sfondo floreale. Piccoli punti luce costituiti da smeraldi arricchivano invece lo spillone e richiamavano i colori del Casato.
“Un dono degno di un re,” commentò, sforzandosi di sorridere. “Per ricambiare stavolta dovremo ingegnarci e dar fondo ai nostri forzieri,” disse, non senza un minimo di sarcasmo.
“Non ce ne sarà bisogno, mio Lord,” intervenne Ilyana, indugiando sulla cappa di pelliccia e sullo spillone in una carezza inaspettata, le dita affondate nella volpe. “Il mastro dei cani dice che la cagna sta per partorire e sai quanto mio zio invidi i tuoi bracchi, specie il fiuto di quest’ultima. Quando andremo a trovarlo per la caccia al cervo potremmo portargli in dono uno o due dei suoi cuccioli.”
Era una buona idea, ammise. Un modo rapido e pulito per togliersi d’impaccio. Soprattutto poco dispendioso, dacché odiava terribilmente sprecare Reali per futili formalità, anche quelle da mero salotto come la farsa sostenuta fino a quel momento o l’inutile orpello che brillava sul suo petto.
Zemilos abbozzò l’ennesimo sorriso, afferrò la mano di sua moglie e la scansò da sé, cercando di essere il meno brusco possibile.
“Eccellente,” stabilì, “perciò se non c’è altro andrei, devo occuparmi di alcune questioni urgenti cui solo il Lord di Arthia può ottemperare.”
Lady Ilyana annuì e fece un passo indietro, il viso leggermente meno luminoso. Di rimando Zemilos scoccò un’ultima occhiata alla nuova dama di compagnia, ormai dimenticata in un angolo del divano e della sua mente, e si allontanò a passo svelto dal salotto.
Uscì dalle stanze di Lady Ilyana seguito dallo sguardo delle guardie poste ai lati dell’ingresso e percorse il tragitto a ritroso, finché deviò verso la parte del sotterraneo adibita a segrete.
Raggiunse l’uscio in questione, oltrepassò altre due guardie poste a protezione e scese le ripide scale a chiocciola che l’avrebbero condotto al piano inferiore. Ad accompagnarlo c’era il rimbombare costante dei suoi passi e il tremolio delle lanterne a olio, fisse alle pareti e suscettibili agli spifferi che riuscivano a eluderne la rozza schermatura. E la sua ombra si muoveva, ondeggiando sui gradini di pietra o allungandosi a dismisura sulla curva della parete, mano a mano che scendeva.
Giunto al piano si fermò appena per riprendere fiato, constatando che la temperatura lì sotto era più rigida. Di sicuro pungente. Si fregò le mani sulla porzione di braccia che fuoriusciva oltre la cappa di pelliccia e proseguì, inoltrandosi lungo il corridoio sui cui lati spiccavano le celle.
Grate sporche e arrugginite si aprivano su alcove vuote e silenziose, dove le ombre s’addensavano assieme allo sporco e calamitavano lo sguardo, alla ricerca di chissà quale orrore in agguato. Fra esse si distingueva soltanto la prima della fila, illuminata all’interno. La luce si proiettava sul camminamento e disegnava uno stacco netto fra inizio e fine del corridoio.
Zemilos si appropinquò da quella parte, affacciandosi oltre l’inferriata cui invero mancava la porta. Oltre gli si presentò la dimora del carceriere, dove una logora scrivania prendeva posto sul lato destro, disposta verticalmente rispetto alla parete. Sul piano stavano una lampada a olio e un gatto a nove code, accuratamente arrotolato in un angolo. Al di sotto di esso le braci occhieggiavano invitanti, raccolte in un caldano di rame.
Sulla parete in fondo stavano invece appesi gli altri attrezzi per la tortura, fra pinze, tenaglie, maschere di ferro e ceppi. Accanto ad essi, nell’angolo sinistro della stanza, s’innalzava la gogna, in quel momento vuota. Tuttavia l’alone scuro attorno ai buchi per braccia e testa lasciava ben poco ai dubbi.
L’ometto basso e rubicondo che se ne stava seduto alla scrivania quasi saltò sulla sedia quando lo vide comparire sull’uscio. Batté più volte le palpebre e si grattò la testa pelata, con un rumore secco e rasposo che dava alla sua pelle la parvenza della cotenna.  Se si considerava il naso porcino che prendeva posto sul volto tozzo e rotondo dell’uomo la similitudine era più che ovvia.
“Mio signore,” interloquì quello, saltando giù dalla sedia e abbandonando così il conforto del braciere, “non mi aspettavo una vostra visita, sono giorni che non scendete e non pensavo di dover preparare la stanza… perciò, ecco…”
Zemilos non mancò di notare le goccioline di sudore addensarsi sulla fronte ampia e spianata del carceriere man mano che gli si avvicinava, né il movimento delle tozze mani, che sfregavano rumorosamente fra loro come due foglie d’ortica, forse per l’agitazione, forse per l’effettivo clima delle segrete.
“Ha mangiato?” domandò il conte, ignorando completamente le preoccupazioni dell’altro.  
“Non di sua volontà,” riferì l’ometto, “ma ho fatto in modo che prendesse la sua… medicina,” concluse con un’eloquente occhiata. “Ho aumentato leggermente la dose, per cui al momento dovrebbe essere docile come un agnello, mio signore.”
Le labbra di Zemilos si tesero da un lato, tradendo l’accenno di un sogghigno. Più che altro una spontanea reazione di scherno alle audaci promesse del millantatore. Docile e agnello erano due concetti che stridevano terribilmente con il selvaggio di cui si parlava. Medicina o non medicina. Tanto più che la dose – per suo espresso ordine – non era mai così elevata da renderlo incosciente – non era eccitante, altrimenti; e solo in quel caso il conte avrebbe potuto convenire sulla presunta docilità.
L’altro sembrò leggergli lo scetticismo in faccia perché spianò i lineamenti fino a rendere il viso una tavola bianca e frappose le manine nel mezzo, agitandole a mezzaria.
“Naturalmente ho provveduto a sgombrare la stanza, mio Lord, né utensili, né piatti,” elencò il carceriere.
Zemilos non lasciò che terminasse il resoconto, gli diede le spalle, abbandonò l’antro e proseguì lungo il corridoio delle celle. Dopotutto era già stato messo a parte di quanto necessitava. La penombra l’avvolse di rimando, rendendo i contorni appena distinguibili. Ciononostante individuò senza margine d’errore lo spesso portone sul fondo, una macchia ampia e scura che s’innalzava innanzi a sé: la stanza del suo amatissimo Heian.
L’anticipazione lo fece fremere, chiudendogli lo stomaco in una morsa e facendogli aumentare il battito cardiaco, e lo spinse ad affrettarsi, il rimbombare dei passi ad accompagnarlo.
Finalmente a portata, lasciò indugiare la mano sull’anello di ferro battuto, assaporandone lo spessore fra le dita mentre si prendeva il tempo di tendere le orecchie ai rumori per captare qualsiasi movimento sospetto di là dell’uscio. L’unico suono che ascoltò fu il silenzio, ciononostante non s’illuse.
Tirò il battente e la porta si discostò, cedendogli il passo verso l’antro così agognato. Immediatamente il lezzo di urina e di feci andò a insidiargli l’olfatto, facendogli arricciare le narici in segno di disgusto. Mentalmente si appuntò di punire il carceriere per aver rimandato così a lungo la pulizia della cella, approfittato della sua prolungata assenza unicamente per poltrire.
Tuttavia al momento c’erano questioni più urgenti cui badare. E contrariamente alle aspettative il buio si stendeva oltre l’ingresso ancora più vischioso, più insidioso, rispetto al resto delle segrete. Salvo per i punti rossi costituiti dalla brace, che occhieggiavano pigramente in due punti diversi della stanza, lì dove erano posizionati i bracieri atti a riscaldarla.
Zemilos trattenne un sospiro: come volevasi dimostrare. Se c’era una cosa che non riusciva a domare era lo spirito combattivo di quel selvaggio che certamente lo stava osservando con occhi attenti, in agguato nell’ombra come un lupo.
Avrebbe potuto recuperare la lampada e diradare assieme all’oscurità anche le mire dello schiavo, avrebbe potuto chiamare quel pigro maiale vestito da uomo che aspettava all’ingresso e ordinargli di ammansire ulteriormente il selvaggio, con questo o quel metodo, ma l’idea della caccia lo stuzzicava nel profondo e non c’erano mani eccetto le sue che preferiva addosso ad Heian.
Perciò, solleticato dal rischio, aspettò che gli occhi si abituassero alla scarsa illuminazione e fece un passo all’interno, un solo, singolo passo per permettere alla vista di spaziare per quel che le era concesso.
Si trattò di un passo di troppo.
Sentì il suono metallico della catena che strisciava sulla pietra alla sua destra. Sì voltò e frappose istintivamente le mani nel mezzo, certo che l’altro gli sarebbe arrivato addosso da quella parte. Seguirono rapidi, leggeri tonfi, e il peso gli piombò invece sulle spalle dall’alto, così come non si era aspettato.
Zemilos barcollò in avanti, mentre il corpo dello schiavo aderiva al suo e gli s’agganciava mani e piedi al tronco, passandogli le gambe attorno alla vita con incredibile rapidità. Di rimando il freddo del metallo gli morse la gola, dandogli la chiara percezione della catena che gli circondava il collo e che di lì a breve l’avrebbe soffocato. Corse con le dita e riuscì a infilarle fra sé e il ferro un secondo prima del fatale strattone, imprimendo invece una forza uguale e contraria per allentare la morsa.
Heian gemette nell’oscurità e Zemilos sentì tutto il suo essere contrarsi e tremare su di sé per via dello sforzo. Il conte tese le braccia e digrignò i denti nel tentativo di resistere, riacquistò posa eretta e si lanciò di schiena contro la parete più vicina, schiacciando l’altro fra sé e il muro. Una, due volte, finché il dolore e la debolezza ebbero la meglio sull’ostinazione dello schiavo.
La catena cadde a terra con un schianto metallico. Stessa sorte toccò a Heian, che lasciò la presa tutto d’un tratto e s’abbatté al suolo, ansimando sommessamente in un punto imprecisato della stanza.
Finalmente libero, Zemilos accusò due colpi di tosse e barcollò senza fiato in direzione della scrivania, in quel momento una sagoma scura che si delineava appena nell’oscurità. Si appoggiò pesantemente al margine del piano con la sinistra e vagò freneticamente su di esso con la destra finché incappò nel sottile bastoncino di legno che gli occorreva per donare luce all’ambiente. Ne immerse la punta fra le braci e una piccola fiammella prese posto sulla sua estremità, sicché il conte poté allungarlo verso lo stoppino della lampada – lo schermo era già aperto, dandogli la certezza che era stata spenta di proposito.
L’olio prese immediatamente fuoco e una fiamma viva e brillante divampò dallo stoppino, costringendolo a serrare le palpebre per alcuni attimi. Dietro di sé l’ansimare di Heian era diventato ancora più sommesso, ma gli dava l’esatta percezione di dove e in che condizioni si trovasse. E doveva essere sfinito, succube dello sforzo compiuto a dispetto della sua medicina. Da quale punto di vista la sua tenacia era addirittura commovente, oltre che ammirevole.
Zemilos tossicchiò ancora un po’, portandosi la mano chiusa a pugno innanzi alla bocca. Il sudore gli si addensava sulla fronte, sul petto e lungo la schiena, mentre il calore sembrava addirittura avvamparlo e le guance gli scottavano. L’esercizio non aveva sfibrato soltanto lo schiavo, ammise con frustrazione, sfilandosi il diadema per riavviarsi i radi capelli.
Riacquistato il contegno dovuto dal Lord di Arthia, il conte si voltò e fronteggiò lo schiavo. Il suo bellissimo, proibito passatempo.
Heian stava rannicchiato a terra, sul tappeto che ricopriva il pavimento della sua cella quasi per intero. I lunghi capelli corvini gli si adagiavano sulle spalle, gli coprivano il viso e ricadevano al suolo scomposti, come una massa incolta e tumultuosa. Il petto gli si alzava e abbassava rapidamente in cerca d’aria e sul davanti della camicia prendeva posto una macchia fresca di quella che aveva tutta l’aria di essere zuppa. Poteva immaginare lo sforzo compiuto dal carceriere per nutrirlo e più di una volta l’uomo aveva suggerito di cavargli via tutti i denti.
“Non imparerai mai la lezione, vero?” domandò, retorico, abbandonando l’appoggio della scrivania per dirigersi alla più comoda poltrona, posizionata di fianco al letto.
Lasciò scorrere le iridi sulle membra dello schiavo dalle spalle, alla vita, alle gambe ripiegate in posizione di difesa. Era davvero un selvaggio; e più che una persona sembrava una bestia ferita, messa alle strette e pronta allo scatto. E come una bestia era legato, né più né meno. Un anello di ferro gli cingeva la caviglia, collegato a una lunga catena assicurata direttamente alla parete sul fondo. Al di sotto del ceppo, fra le bende poste a protezione dell’arto, si aprivano dei fiori scarlatti che lasciavano poco ai dubbi.  
Heian non rispose, se non piantando le unghie nel tappeto; e anche se il conte non poteva vedergli il viso, nascosto dalla matassa di capelli, non mancò di notare il movimento del suo capo mano a mano che attraversava la stanza e raggiungeva la poltrona: lo seguiva, proprio come avrebbe fatto un animale selvatico con la preda.  
Zemilos sedette con un sospiro e congiunse le mani in grembo, nient’affatto intimorito dalle intenzioni dell’altro. Dopotutto non era una novità e i loro incontri potevano riassumersi più o meno così: Heian faceva il ritroso finché ogni tentativo capitolava per il suo personale piacere.
La sola prospettiva bastò a disegnare un sogghigno compiaciuto sul volto del conte.
“Dovresti ringraziarmi per la cortesia che ti riservo,” sentenziò quindi. “Sbarazzarmi di te sarebbe molto più comodo. Più sicuro, se non altro,” disse, indugiando con lo sguardo sul viso coperto dell’altro, col desiderio di captare qualsivoglia sua reazione. E moriva letteralmente dal desiderio di saperlo spezzato, non solo nel corpo. “Sei un animale testardo, Heian. Credi che resistendo il più possibile uscirai fuori da qui? Che ci sia un futuro diverso da questo per te? Per curiosità, dopo avermi strangolato con quella catena, che cosa pianificavi di fare?”
Le domande caddero nel vuoto e sfumarono nel silenzio, prive di risposta ma non di ascolto. Scosse dolentemente il capo, come se avesse a che fare con un bambino capriccioso.
“Nessuno verrà a salvarti, il tuo corpo è stato ufficialmente ritrovato insieme a quello degli altri. La carcassa stessa di Lauthian Glantreth, la futura Guida, è stata riconsegnata agli eletti della Dea, trucidato dai miei soldati, sfigurato e irriconoscibile come un pezzo di carne. E che cosa ha fatto la tua gente? Niente,” sottolineò. “Si sono accontentati delle scuse di quel pagliaccio di Abadon Encratis e mentre piangono la dipartita del loro adorato principe dei selvaggi, tu sei qui a marcire nel mio sotterraneo. Perciò la tua vita vale meno di questo, meno di una banale scusa.”
Zemilos percepì l’esitazione e lo sconforto di Heian dalle piccole e inconsce reazioni del corpo. Le spalle che si stringevano, le dita che tremavano, affondate maggiormente nel tappeto con un vigore che sapeva di disperazione, il capo che si chinava inesorabilmente verso il pavimento, sovrastato da un peso troppo grande da essere sostenuto. Ecco, era così che gli piaceva, sottomesso a un destino più forte di lui. Sottomesso a Zemilos Sulescu, signore di Arthia. E la mera forza di volontà poco avrebbe potuto contro la concretezza del ferro che gli tratteneva la caviglia, così come sarebbe valsa a niente contro di lui e il potere di vita e di morte che esercitava nel suo feudo.
Distese le braccia lungo i braccioli e si rilassò sulla poltrona allungando anche le gambe, mentre godeva della prostrazione dell’altro.
“Sei patetico,” infierì con freddezza, guardando lo schiavo schiacciato a terra dall’alto in basso, forte della propria supremazia e della postazione privilegiata. “Una volta eri un guerriero, eri fiero, eri abile e rispettato dalla tua gente. Perfino temuto,” rise, lisciandosi la barba che gli ricopriva il mento con indice e medio. “Adesso non sei che la mia puttana.”
L’insulto sortì il suo effetto perché Heian smise di tremare, contrasse i muscoli delle braccia e raddrizzò perfino le spalle. Quasi gli sembrò di sentire lo scricchiolio dei suoi denti. Era un guerriero, lo era nell’anima e in ogni fibra del corpo, e la volontà di combattere era forse il primo e suo più forte istinto. E quando l’aveva rinchiuso c’erano voluti non meno di sei soldati per trascinarlo fin laggiù.
Il ricordo della prima volta in assoluto che l’aveva preteso per sé andò a stuzzicarlo e riuscì largamente ad arroventargli le membra, facendogli sembrare il cavallo dei calzoni quanto mai stretto. Il conte inspirò profondamente, piantò le unghie nei braccioli e deglutì, gli occhi che si facevano cupi e colmi di desiderio, puntati inesorabilmente sull’oggetto delle sue fantasie più recondite.
A dispetto di ciò – invero a dispetto di tutto – Heian sollevò nuovamente il capo verso di lui; e attraverso la matassa di capelli scuri da cui spuntavano solo il mento e le labbra sporche di zuppa – quelle labbra per cui sarebbe valso scatenare una guerra – Zemilos fu certo che stesse guardandolo di rimando, con odio impresso nelle iridi. Ma se era vero che adorava farlo a pezzi, era anche vero che era proprio quel suo resistergli strenuamente a rendere il gioco così eccitante.
Un brivido più intenso degli altri gli risalì la schiena e lo indusse ad abbandonare la poltrona per dirigersi lì dove lo schiavo stava abbandonato. Preso dall’impulso del momento il conte poggiò il ginocchio a terra, si chinò su di lui e l’afferrò per il mento, desideroso di portare alla luce i lineamenti celati dalle lunghe e selvagge chiome.
Heian cercò di scansarsi, di voltare il capo dall’altro lato o di allontanare da sé con blande e inefficaci spinte la mano che lo teneva fermo, ma complice la droga che l’intontiva non poté impedirgli di scansargli i capelli dalla faccia.
Ad attendere Zemilos sotto gli arruffati fili corvini c’erano gli occhi che ricordava, verdi come il mare e carichi di un oscuro, ardente desiderio che non aveva nulla a che vedere né con la paura né con la rassegnazione. No, quello sguardo sembrava volergli scavare dentro per giocare con le sue viscere ancora calde. Erano spiragli pieni d’odio e promesse di morte che s’aprivano su di un viso dai lineamenti esotici – gli occhi a mandorla, le sopracciglia sottili e leggermente arcuate, gli zigomi alti e la mascella triangolare tipica degli elfi – e di una bellezza senza pari, almeno per i suoi personali gusti.
“Eccoli qui,” disse, in adorazione di quelle iridi, “gli occhi di quella notte. Ricordi? Ti stavi allenando con le lame gemelle sotto la luna, pensando di non essere visto,” suggerì.
Per tutta risposta Heian strattonò la testa all’indietro, serrando per contrasto le dita sul suo avambraccio e spingendolo in avanti nel tentativo di scansarlo da sé, ma se gli era rimasta della forza l’aveva già sprecata per tendergli l’agguato. Zemilos sorrise.
“Sembrava baciarti, mentre volteggiavi nell’arena, come se Celenes in persona accompagnasse i tuoi passi,” continuò, scivolando col pollice su quella bocca impertinente, punita nella peggiore delle maniere in un passato non troppo lontano.
Ma anche se aveva impedito a Heian d’insultarlo o di rispondergli a tono – dettaglio che gli mancava terribilmente da che la rabbia del momento era sfumata in un silenzio tanto perenne quanto pesante da ascoltare – erano gli occhi che comunicavano per lui. E in quel momento come in passato lo disprezzavano dal più profondo del cuore, come se da quella sera nell’arena non fosse trascorso un solo giorno.
“Quando ti accorgesti di non essere solo, mi guardasti con sprezzo e mi desti le spalle, sottraendoti alla mia vista,” sottolineò, ripulendo con un rapido gesto i rimasugli di zuppa ai margini delle sue labbra. “Un comportamento inaccettabile e inappropriato nei confronti del signore di Arthia, non trovi? Specie se in visita diplomatica presso il limitrofo villaggio di sporchi selvaggi.”
E se era stata l’insonnia a spingerlo fuori dal giaciglio messo a disposizione e a condurlo lungo gli sterrati fra le capanne elfiche in cerca di pace, era stato invece quell’incontro inaspettato e quasi mistico a strappargli definitivamente via il sonno; e per le notti a venire, popolando i suoi sogni con l’immagine di un giovane elfo che danzava armato di sciabole sotto la luce della luna. Un fascio di muscoli e nervi scattanti in totale armonia di forme e di movimenti, le cui membra erano un tutt’uno con il metallo costituito dalle lame e con l’argento proiettato dalla luna. E che gli aveva dilaniato cuore e orgoglio con un solo sguardo, rendendo la pace tanto agognata null’altro che un lontano e vacuo miraggio.
“Così bello,” sussurrò, indugiando in contemplazione dei suoi tratti, “e così crudele. Selvaggio.”
Zemilos ritrasse il pollice con cui stava delineandogli la bocca l’istante successivo, prima almeno che Heian potesse assestargli un morso; e non sarebbe stata la prima volta, soprattutto quando i ricordi prendevano il sopravvento e lo rendevano malleabile, oltre che distratto. Non doveva mai dimenticare che la creatura che aveva innanzi era più simile a un animale selvatico che a una persona e che come tale andava trattata.  
Gli lasciò andare il viso. Di rimando Heian chinò il capo e alcune ciocche tornarono a coprirgli la faccia. Lo lasciò fare e gli passò invece il braccio attorno alla vita, posizionando la mano maestra fra le scapole dell’elfo. Era dimagrito, constatò brevemente quando percepì le ossa sotto i polpastrelli, senza provare effettiva preoccupazione per il fisico debilitato dell’altro.
Lo schiavo invece s’irrigidì e mugugnò qualcosa d’incomprensibile, sicuramente conscio di quanto voleva da lui. Gli piantò ambo le mani sul petto e cercò di spingerlo via per l’ennesima volta, ma non riuscì a smuoverlo di un millimetro. Non se si considerava che il conte pesava almeno il doppio dell’elfo.
Zemilos si alzò dal pavimento e trascinò Heian con sé con l’ausilio di un braccio solo. Impiegò invece la mancina per afferrargli i polsi ed evitare così che cercasse di cavargli gli occhi, ammesso e non concesso che trovasse nuova linfa per reagire. E lo schiavo già slittava coi piedi per terra nel tentativo di acquisire posa eretta.
Non aspettò che avesse ragione del proprio corpo intontito, il signore di Arthia ignorò il letto e si diresse senza ulteriori indugi alla scrivania cui solo qualche tempo prima si era appoggiato per riprendere fiato e donare luce all’ambiente.
Intrappolò lo schiavo fra sé e il piano e lasciò scivolare la mano con cui lo sosteneva dalle scapole al coccige, infilando le dita sotto la camicia lercia di zuppa. Intercettò il margine dei calzoni e l’oltrepassò, sfiorando la pelle lì nascosta.
Heian accusò un guizzo esasperato, contorcendosi sotto di sé. Zemilos godé del panico provocato; e gli occhi dello schiavo, due smeraldi appena visibili attraverso i fili corvini e arruffati che gli scendevano sulla fronte, saettavano da una parte all’altra senza requie alla ricerca di una scappatoia che non esisteva.
Sogghignò e si protese maggiormente su di lui.
“A te la scelta, puoi optare per le cattive,” disse, sfiorandogli l’orecchio con le labbra, “o le buone, tanto per cambiare.”
Heian digrignò i denti, senza che potesse effettivamente rispondergli. Anche così Zemilos immaginò tranquillamente gli insulti a lui rivolti e quale delle alternative fosse la prescelta. Ciononostante non godé ulteriormente della supremazia, perché con uno scatto e una torsione ben impressi l’elfo liberò la sinistra dalla morsa preventiva e corse con le dita alla cappa di pelliccia che indossava.
L’azione fu più rapida del pensiero perché Zemilos boccheggiò per una manciata di secondi a bocca aperta, confuso dall’avvenimento inaspettato e inconsapevole di quanto stesse effettivamente accadendo. Il braccio dell’elfo si tese e scattò nuovamente verso il basso. Contemporaneamente, con una torsione della destra ribaltò la presa, l’afferrò per il polso e gli schiacciò la mano sulla scrivania.
Zemilos captò il baluginio argentato del colpo che calava sull’arto così esposto troppo tardi; e la spilla donatagli da Lord Davus – la spilla appuntatagli sul petto da Lady Ilyana in persona, l’unico dettaglio fuori posto e che aveva dimenticato di calcolare quando aveva messo piede in quella stanza – gli si conficcò di netto sul dorso della mano, inchiodandolo al piano di legno.
Il dolore l’accecò per attimi che parvero infiniti. Urlò, piegandosi in due sul piano e tenendosi l’estremità ferita con quella rimasta sana. Urlò ancora e appoggiò la fronte contro il legno, mentre le vene del collo gli si gonfiavano a dismisura e il sudore l’avvolgeva da capo a piedi, gelido.
Le catene che strisciavano sul pavimento gli diedero la vaga percezione di dove quel piccolo, sporco elfo fosse andato; ma nell’incertezza di ciò che sarebbe potuto accadere non poteva concedersi il lusso di dargli le spalle più del dovuto.
Batté le palpebre per ricacciare le lacrime e mettere a fuoco la vista. Si raddrizzò con sommo sforzo, serrò la mascella e afferrò lo spillone conficcato nella scrivania, estraendolo con un unico, stizzito gesto. Di conseguenza il sangue fluì più copioso e si riversò sulle venature della mano, sulle dita e fin sull’avambraccio.
Il conte lanciò l’orpello dorato in un angolo della stanza, troppo furibondo per pensare di sistemarlo altrimenti, e si voltò in direzione dello schiavo col braccio teso. Il manrovescio colpì Heian che l’elfo stava goffamente muovendosi da quella parte, probabilmente per recuperare l’unica arma a disposizione che avesse da mesi – almeno da quando il carceriere aveva saggiamente smesso di lasciare nella sua cella utensili da usare impropriamente.
Lo schiavo cadde a terra con un gemito strozzato, prono sui gomiti e sulle ginocchia. Gattonò malamente sul tappeto per portarsi il più lontano possibile, ma Zemilos pestò la catena col proprio stivale e ne arrestò il fluire mano a mano che l’altro si spostava. Di rimando l’elfo subì uno strattone improvviso e finì di lungo sul pavimento per alcuni, fatali istanti; quel tanto che servì al conte per annullare la distanza, acciuffarlo rudemente per i capelli e trascinarlo nuovamente alla scrivania.
Zemilos lo sbatté sul piano e gli assestò due decisi pugni in faccia. Se la droga era insufficiente, ci avrebbe pensato lui ad ammorbidirlo alla vecchia, infallibile maniera.
“Cattive siano,” sibilò quindi, contraendo le bocca in una smorfia di disgusto, gli occhi ridotti a due implacabili fessure. “Finora sono stato fin troppo buono con te, ti ho dato la possibilità di vivere, una stanza confortevole e due pasti assicurati al giorno. Invece sei un animale come gli altri e come gli altri avrei dovuto fare di te carne da macello!”
Con orribile schianto il conte gli assestò un altro pugno; e un altro ancora, finché persino la mano buona cominciò a pulsargli di dolore ed Heian smise di divincolarsi, restando finalmente inerte sulla scrivania. Un sordo fischio gli risaliva dal naso, forse gli aveva rotto qualcosa e di sicuro il labbro gli si era spaccato sotto le nocche, perché il sangue fluiva dalla matassa incolta di capelli per riversarsi sul piano in piccole, dense pozze ogni volta che tossiva.
Ancora affannato per lo sforzo, Zemilos si asciugò il sudore che gl’imperlava la fronte con la manica della camicia e continuò a fissare il suo operato, indugiando sul corpo abbandonato ed esanime sotto di sé. L’elfo aveva un che di eccitante, anche nell’incoscienza. Gli indumenti spiegazzati dalla colluttazione gli lasciavano scoperti il collo, la spalla e parte del pettorale. La lampada a olio, invece, sembrava carezzare gradevolmente ciascuna di quelle curve, riverberando sul velo di sudore e rendendole addirittura morbide, come fossero accaldate di piacere e in attesa di lui.
Peccato che a rovinare il quadro ci fosse il viso tumido e livido dello schiavo, che gli rimandava senza margine d’errore ai reali termini di quell’incontro. Che seccatura
Ciononostante il signore di Arthia non si scoraggiò né si fece scrupoli. Semplicemente lo girò a pancia in giù sul piano, tirò fuori la propria virilità e gli abbassò le brache. 
Ed eccoci qua, la vicenda prosegue, altri personaggi fanno il loro ingresso in scena e aggiungono nuovi dettagli. Lol. Sono davvero tanti e in proposito sono davvero insicura, dacché temo che cambiare così spesso il punto di vista possa spezzare la narrazione e confondere il lettore. Ciononostante per rendere tutto ciò che accade non ho altro modo. >-< Mah!
Nelle note ho aggiunto la dicitura "non-con". Non descriverò mai l'atto in sé, ma credo che data la situazione servisse in ogni caso. ^^' Nel prossimo capitolo Calardir e Destro faranno il loro trionfale (mmaddeché? ndTutti) ritorno. Per il resto, al solito, se c'è qualche critica, consiglio o parere non esitate a farmelo sapere. Mi farebbe piacere. ^^ Alla prossima!
CompaH
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Michan_Valentine