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Autore: Sapphire_    08/04/2017    2 recensioni
Se una donna fissata con il rosso incontra un uomo dai capelli rossi che ha paura del sesso opposto, cosa pensate che possa succedere?
April Montgomery è quella donna, Aaron Marlowe quell'uomo, ed entrambi vivono la propria vita in quel pulsante nucleo sempre vivo di New York, che in seguito a un fortuito evento tra i due - un vero e proprio cliché - farà da sfondo anche ai loro successivi incontri.
In fondo, il modo migliore per eliminare una fobia è affrontarla, no? Forse non tutti sarebbero dello stesso avviso...
Dal testo:
«Ma sei un idiota?» furente, alzò lo sguardo verso l'idiota che le aveva appena fatto fare una figuraccia di fronte a tutti. Gli occhiali le erano scivolati sul naso e in un primo momento non vide niente, ma li tirò su e una visione la colpì.
Alto, bell'aspetto, sguardo freddo e dagli occhi scuri, piercing al labbro e un importantissimo dettaglio.
«Che bellissimi capelli rossi!»
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ed eccomi qui dopo più di venti giorni...
Devo ammettere una cosa: questo capitolo è pronto da più di dieci giorni, ma per un motivo o per l'altro non riuscivo mai ad avere il tempo di aggiornare! Ho anche passato una settimana con la febbre, e non è stata una bella esperienza...

Comunque sia, in questo capitolo finalmente la situazione inizia a muoversi: April ed Aaron si incontrano di nuovo!
Spero che vi piaccia il loro nuovo incontro e che vi divertiate a leggere il capitolo almeno la metà di quanto mi sono divertita io nello scriverlo.
Detto questo non starò ancora a tediarvi, vi auguro semplicemente buona lettura e spero che possiate lasciarmi qualche commento per sapere cosa ne pensate!
Un abbraccio,

~Sapphire_

 


 

 

~It's too cliché

 

 

 

Capitolo dieci

«Mi aiuteresti a occultare un cadavere?»
Aaron alzò lo sguardo dal cubo di Rubik che, fino a quel momento, aveva catturato la sua attenzione. Tom non spostò il suo dallo schermo del computer.
«Ovvio»
Risposta secca, senza ombra di un dubbio.
«Il cadavere in questione è già tale o deve ancora diventarlo?» domandò Tom con lo stesso tono che avrebbe adoperato per dire la sua tonalità di azzurro preferita.
Aaron riabbassò lo sguardo, cercando di capire in che modo gli convenisse muovere il cubo.
«Non ancora, ma lo sarà presto» rispose, il medesimo tono dell'amico.
«Posso sapere chi è?»
«Il nostro capo»
A quella risposta, Aaron sentì l'amico sbuffare.
«E io che credevo fosse per qualcosa di serio. Ce l'hai ancora con lui?» borbottò Tom, scontento – probabilmente perché i piani omicidi erano appena crollati come un
castello di carte. Insomma, non poteva di certo uccidere il proprio capo, no?

Aaron lo guardò truce, distraendosi per l'ennesima volta dal gioco che stava tra le sue mani.
«Ha rivelato a quella ragazzina il mio peggior segreto e tu mi chiedi se ce l'ho ancora con lui?» fece retorico.
Il moro alzò gli occhi al cielo.
«“Il mio peggior segreto”... Neanche facessi riti sacrificali in onore di Satana. Hai solo paura delle donne, che sarà mai» disse annoiato Tom.
Aaron si costrinse a stare zitto e a sopprimere la crisi di nervi che stava per averla vinta su di lui.
«Stai rischiando» fece funereo.
Tom lo guardò con un sorriso diabetico
«Cosa?» domandò con voce soffice, una luce divertita negli occhi.
Aaron stava per non rispondere o lanciargli addosso direttamente il cubo di Rubik – se fosse diventato completamente rosso si poteva definire risolto, in fondo – ma la porta si aprì di scatto e Daphne interruppe lo scambio amorevole tra i due giovani.
Aaron, vedendola, si immobilizzò come suo solito mentre Tom lo osservava e rideva sotto i baffi.
«Tom, tesoro, Nevil ti vuole nel suo ufficio» fece la ragazza, per poi accorgersi della presenza del rosso nella stanza.
Notandolo, arrossì.
«Oh, Aaron, sei anche tu qui. Nevil vorrebbe vedere anche te» disse mettendosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Va bene, grazie Daphne» rispose allegro Tom. Il rosso tacque e, dopo una vaga occhiata da parte di Daphne, quest'ultima se ne andò con un semplice cenno al moro.
«Guarda che se la ringraziavi non le spuntavano corna e coda, sai?»
«“Tesoro”? Da quando ti chiama così?» fece schifato Aaron, ignorando la frase dell'amico. Quest'ultimo scoppiò a ridere.
«Lo fa amichevolmente, non è successo niente tra noi due se è quello che pensi. Lo farebbe anche con te se le dessi più confidenza, invece sei tutto rigido e serio» spiegò Tom, alzandosi dalla propria poltrona.
«No, grazie. Ho un nome e preferisco che venga usato quello» rispose seccato Aaron.
E poi sentirsi chiamare “tesoro” da una donna che non rientrava nella categoria “familiari” l'avrebbe terrorizzato a morte. Rabbrividì; quelle bestie cercavano di addolcire le proprie prede con nomignoli vari prima di saltar loro alla gola e sgozzarli.
«Principino, vuoi alzare il tuo regale fondo schiena o ti serve un bianco destriero?»
Aaron lanciò il cubo prima che Tom potesse rendersene conto ed evitarlo; lo beccò in pieno e, dopo un suono secco, il giocattolo cadde a terra con un tonfo.
«Tu sei fuori di testa» gli urlò contro Tom, mentre si massaggiava la testa in corrispondenza del punto colpito. Aaron sorrise zuccheroso.
«Io l'ho detto che rischiavi» gli rispose angelico, alzandosi dalla sedia su cui era stravaccato e aprendo la porta.
«Stai attento, potresti ritrovarti misteriosamente chiuso nella stessa stanza con una donna. O meglio, chiuso a chiave e con più donne» gli sibilò nell'orecchio Tom, superandolo e ghignando in sua direzione.
Aaron sentì distintamente un brivido corrergli per tutta la schiena alla sola idea che quella minaccia prendesse concretamente forma – e, per quanto Tom gli volesse bene, qualcosa gli diceva che sarebbe stato in grado di farlo – ma non poté fare altro che tacere e seguire l'amico che lo anticipava verso l'ufficio del capo. Dopo aver bussato e aver sentito la voce di Nevil che permetteva loro di entrare, Tom aprì la porta.
Dentro l'ufficio, Nevil era come sempre adagiato comodamente sulla propria poltrona di pelle, con in mano un bicchiere pieno a metà della sua acqua e limone; il giorno aveva rinunciato alle sue solite giacche e cravatte per indossare una semplice camicia azzurrina che si intonava ai suoi occhi color cielo. Decisamente più casual rispetto al solito e decisamente più adeguato al proprio ufficio.
Purtroppo per Aaron, l'uomo non era l'unica persona che li attendeva nella stanza: la ragazza che quella mattina gli aveva fatto un'adorabile e spaventosa sorpresa era lì, seduta su un puff giallo canarino spuntato da non sapeva dove, che li osservava entrare con un preoccupante sorriso stampato sul bel viso.
Aaron deglutì e cercò lo sguardo di Tom, che però si trovava di fronte a lui e gli dava le spalle.
Qualcuno mi dia la forza, pensò tragico.
«Tom, Aaron, eccovi qui. Zoe mi ha accennato che vi siete già presentati stamattina» fece Nevil allegro.
Questa sopracitata allegria faceva a pugni con il volto gelido di Aaron, la cui espressione pareva quella di un condannato a morte. Solo a quel punto Tom si volse verso l'amico, ancora rimasto in prossimità della porta, e gli fece un sorriso incoraggiante per poi voltarsi di nuovo verso il superiore.
«Non so se “presentati” possa essere il termine corretto, diciamo che ci siamo visti» puntualizzò Tom, con un sorriso pacato.
Aaron sentì la giovane ridacchiare – sentì perché cercava in tutti i modi di evitarla con lo sguardo – mentre notò chiaramente Nevil scoppiare a ridere.
«Scusami Aaron, non ho potuto fare a meno di accennarle il tuo problema. Non capiva perché fossi così riluttante a lavorare con lei» disse con un vago tono di scuse l'uomo, sempre con il medesimo sorriso giocoso che mostrava come in realtà non fosse realmente dispiaciuto dalla situazione.
Nel frattempo, l'istinto omicida di Aaron tornava a fare capolino e Tom dovette essersene accorto perché, dopo essersi seduto e aver lanciato uno sguardo all'amico sempre fermo vicino alla porta, gli lanciò un'occhiata pregante.
No, Tom, un'altra battuta del genere e commetto un omicidio, pensò Aaron, ma nonostante ciò si costrinse a fare un sorriso che risultò palesemente forzato.
«Me ne sono accorto» non riuscì a trattenersi dal dire, avvicinandosi e sedendosi come già aveva fatto Tom.
Nonostante questo, la sua posizione continuava a rimanere rigida.
«Come avrete intuito, Zoe è l'autrice della graphic novel di cui dovrete sviluppare il gioco» iniziò l'uomo. I due ragazzi annuirono.
«Vi ho chiamati qui per fare delle presentazioni ufficiali, sapete com'è...» continuò l'uomo, lasciando però la frase in sospeso.
No, non so com'è, brutto idiota, pensò infastidito Aaron, ma per amore del suo lavoro si costrinse a fare un sorriso che risultò come quello precedente.
«Prima le signore» disse Nevil, facendo un cenno alla giovane. Quest'ultima si alzò e Aaron non poté fare a meno di girarsi e guardarla.
Lì in piedi, con un sorriso stampato in volto, gli sembrò una pantera di fronte a un povero e spaventato coniglietto. Non è necessario specificare chi fosse cosa.
«Anche se l'ho già detto, Nevil pare voglia fare le cose per bene, quindi... Io sono Zoe Patterson, ho vent'anni e sono l'autrice della graphic novel con cui dovrete collaborare. Vi dico sin da subito che tengo particolarmente al mio lavoro, quindi non permetterò a nessuno di voi di rovinarmelo, anche se avete dei bei faccini. Qualsiasi vostra iniziativa o idea che vi balzi in mente, dovrete prima comunicarmela e solo dopo il mio esplicito consenso potrete usarla nel vostro gioco» disse la ragazza, parlando con un tono sicuro e rapido che non ammetteva discussioni.
Se a Tom un atteggiamento del genere fece sorridere – forse perché lo diceva una ragazza, forse perché la ragazza in questione era alta un metro e sessanta con dei tacchi di dieci centimetri – ad Aaron sembrò una dichiarazione di guerra da parte di una potenza mondiale verso un piccolo villaggio sperduto che ancora non aveva inventato la ruota.
Deglutì, il volto che diventava cereo. Tom, conscio della situazione in cui si trovava l'amico, prese l'iniziativa.
«Io sono Tom Wayne, molto piacere. Sono sicuro che riusciremo ad andarci incontro senza alcun problema. In fondo, nell'ambiente lavorativo bisogna essere collaborativi, e anche se sei giovane confido che tu sia abbastanza matura da comprenderlo» rispose a tono Tom, senza essere minimamente scalfito dall'atteggiamento combattivo della giovane. Quest'ultima, sentendo la risposta, assottigliò leggermente gli occhi e lo fissò baldanzosa, per poi spostare con un sorriso vittorioso lo sguardo verso Aaron.
Vittorioso perché aveva già compreso che il rosso non sarebbe stato in grado di replicare – non perché non ne aveva le capacità, ma perché si trovava di fronte una donna – motivo per cui aveva fatto un discorso così “aggressivo”.
Aaron, del canto suo, non sapeva come reagire, immobilizzato dalla sua paura.
«Aaron Marlowe, piacere. Spero che riusciremo a collaborare» finì per dire, con tono gelido.
Dentro di sé fu contento: almeno era riuscito a non far tremare la propria voce, e considerò la cosa già una grande vittoria.
Zoe sembrò scontenta di quella reazione – sperava in degli urletti isterici, forse? Di certo Aaron aveva abbastanza orgoglio da non lasciarsi andare in atteggiamenti del genere. O almeno, non in pubblico.
Nevil riprese in mano la situazione.
«Beh, ora che le presentazioni sono state fatte direi che potete andare: io non posso mettere mano ai vostri lavori, come sapete, ma aspetterò dei risultati al più presto» concluse rapido l'uomo.
Di sicuro anche lui si rendeva conto del gelido silenzio di Aaron, in fondo sapeva perfettamente come si comportava il ragazzo normalmente e quel suo essere taciturno non era normale. Forse aveva qualche rimorso anche lui.
Aaron si dovette costringere a non scattare in piedi come morso da una tarantola, e si alzò solo quando notò Tom fare lo stesso, per non destare troppe occhiate.
«Bene, allora direi che possiamo iniziare questo pomeriggio. Sia io che Aaron dobbiamo terminare delle modifiche a una versione demo che stiamo per lanciare. Speriamo tu possa essere paziente» fece con un sorriso di sufficienza il moro, in direzione della ragazza.
Zoe gli fece un sorriso, mascherando senza troppo successo quella che sembrava irritazione.
«Ovviamente. A questo pomeriggio allora»
Aaron si limitò a tacere, uscendo per primo dalla stanza e non salutando nessuno.
Vaffanculo Nevil, pensò però rabbioso, e ci mancò poco che non sbattesse la porta dietro di sé.
Un minuto dopo sentì la mano di Tom poggiarsi sulla sua spalla in segno di conforto.
«Aaron...»
«Vado a lavorare» lo interruppe il rosso.
E magari a prepararmi psicologicamente per questo pomeriggio.

Solo quando l'ascensore si fermò April si accorse di quanto fosse stanca.
Si trascinò fuori dal cubicolo, sbadigliando. Erano solo le otto ma le sembrava fossero le due di notte; eppure non era stata una giornata tanto impegnativa: a lavoro, per quanto il clima con Gwen fosse ancora piuttosto freddo, era stata una giornata tranquilla e neanche il carico di lavoro era stato esagerato.
Durante il giorno le era venuto in mente Damian e aveva pensato che magari avrebbe potuto chiedergli di trascorrere la pausa pranzo insieme, ma poi si era bloccata e aveva deciso di aspettare a quando l'uomo si sarebbe fatto vivo; oltretutto, in caso l'avesse fatto e le cose fossero andate bene, non era minimamente intenzionata a cedere subito. E poi, alla fine, neanche aveva fatto la pausa pranzo preferendo continuare a lavorare.
Mentre iniziava a fantasticare su quanto sarebbe stato comodo il letto, si fermò di fronte alla porta e si accorse di non avere le chiavi – cosa che notò solo in quel momento dato che al portone principale la porta era stata lasciata casualmente aperta.
Poco male, mi aprirà May, pensò scrollando le spalle. Se non ricordava male, il giorno staccava sul primo pomeriggio.
Perciò suonò il campanello confidando nell'arrivo della sua amica.
Passò un minuto, e nessuno venne ad aprirle.
Suonò un'altra volta, pensando che l'amica non avesse sentito – magari aveva la televisione ad alto volume – ma nessuno arrivò e ciò rimase uguale anche quando incollò il proprio dito al campanello, facendolo suonare senza interruzione.
Niente, non c'era nessuno.
Merda, pensò con una smorfia.
Si accorse solo in quel momento del bigliettino poggiato al limite dello zerbino su cui stava; un pezzo di carta piegato in due, dove riuscì a leggere “per April” scritto nella familiare calligrafia di May.
Si chinò e lo raccolse.
Cara April, se stai leggendo questo biglietto non sono ancora tornata dal mio appuntamento dall'estetista e tu sei rimasta chiusa fuori. Non posso farci nulla: stamattina sei fuggita via senza farmi parlare e durante il giorno il tuo cellulare doveva essere dimenticato negli abissi della tua borsa, perché non hai risposto alle mie chiamate nemmeno una volta. L'altra opzione era un piccione viaggiatore, ma non sapevo dove prenderlo. Quindi ti conviene metterti comoda e aspettare il mio arrivo, perché non so quanto ci metterò! Un bacio, ti voglio bene!”
«Non ci credo» mugugnò April.
Evidentemente il suo vestito fortunato non faceva più effetto, se continuavano a capitarle cose del genere.
Solo leggendo il biglietto si ricordò del cellulare spento e abbandonato in borsa: aveva deciso di spegnerlo appena arrivata a lavoro, preferendo concentrarsi meglio su ciò che aveva da fare, e dato che aveva saltato la pausa pranzo non l'aveva nemmeno acceso per dargli un'occhiata.
In fondo era colpa sua, ne era cosciente, e non poteva fare nulla.
Sospirò.
Cosa poteva fare? Stare lì di fronte alla porta e aspettare l'arrivo di May?
Lo stomaco le brontolò.
No, non era un'opzione. Decise di andare in un bar lì vicino e mangiare qualcosa, almeno non avrebbe buttato il tempo. E poi, ora che ci pensava, aveva veramente fame.
Iniziò quindi a frugare nella borsa fino a quando non trovò una vecchia penna senza tappo che dovette strisciare sul palmo per qualche secondo prima di farle riprendere vita – da quanto stava lì? Ere geologiche di sicuro – e a quel punto riprese il foglietto di May e aggiunse qualcosa sotto.
Sono una stupida, lo so. Vado a mangiare qualcosa qui vicino, chiamami quando hai fatto!”
Lo ripoggiò per terra, cercando di lasciarlo bene in vista.
Poteva anche mandarle un messaggio, ma tanto sapeva che May non l'avrebbe letto: quando era dall'estetista non c'era per nessuno.
Si avvicinò poi all'ascensore, chiamandolo, e ben presto si ritrovò di nuovo in strada; si guardò intorno, i taxi che sfrecciavano di fronte a lei, le persone che la urtavano sul marciapiede.
«E ora dove vado?» bofonchiò tra sé.
Prese una direzione a caso: destra. Si inoltrò perciò tra le strade newyorkesi, guardando i bar e i piccoli ristoranti alla ricerca di qualcosa che catturasse la sua attenzione.
Fu strano, perché alla fine, ad attirarla, non fu un ristorante o un bar, bensì una chioma rossa che riconobbe dopo un attimo di incertezza.
Si avvicinò, un poco incerta.
«...Aaron Marlowe?» domandò, allungando una mano per toccare la spalla di quello che sì, era proprio Aaron Marlowe.
L'uomo in questione sobbalzò e si allontanò di scatto, irrigidendosi ancora di più nel riconoscerla.
Non deve avermi ancora perdonata per l'ultima volta, pensò dispiaciuta. I suoi occhi però furono catturati dai capelli rossi, facendole considerare che avrebbe pagato oro per averli della stessa tonalità.
«Ti ricordi di me? Sono April, la ragazza dell'agenzia matrimoniale» disse, sorridendogli speranzosa. Era praticamente certa di essere stata riconosciuta, ma meglio esserne sicuri.
Il giovane stette in silenzio tanto che per un attimo April considerò l'idea di non essere stata sentita – eppure non aveva sussurrato!
«Sì, mi ricordo di te» rispose alla fine il ragazzo.
April sorrise gentile. Più ci pensava, più considerava assurdo il proprio comportamento dell'ultima volta. Doveva essergli sembrata una pazza scatenata – non che non lo fosse, ma doveva cercare di mantenere una certa apparenza con gli estranei.
«Meno male, per un attimo credevo che non ti ricordassi di me. Che ci fai qui?» continuò poi.
Vide il ragazzo fare un passo indietro e cercare di tergiversare, ma alla fine capitolò.
«Sto tornando a casa» rispose secco.
April notò come fosse gelido nelle risposte e nell'atteggiamento ma si costrinse a non levarsi il sorriso dalla faccia, anche se la cosa la feriva in una certa misura.
Poi però le venne un'idea in testa.
«Senti, so che l'ultima volta non sono sembrata una persona proprio a posto – scusa per il mio comportamento, a proposito, non so cosa mi sia preso – ma che ne dici se per scusarmi ti offro qualcosa da mangiare? Tanto io non posso ancora tornare a casa e tu non hai impegni, no?» chiese speranzosa.
Veramente per quanto ne sapeva il ragazzo poteva avere anche una cena di Stato, ma considerò che invece lei non aveva nulla di meglio da fare ed era da sola: stare un po' in compagnia di qualcuno di certo non le avrebbe fatto male, e poi il tempo sarebbe passato più in fretta.
Alla sua proposta però vide l'altro sbiancare in tal modo che le venne da chiedersi cosa avesse detto di così strano o assurdo.
Magari sembra che ci stia provando?, pensò, indecisa. Si affrettò a specificare.
«Non ho intenzioni strane, lo prometto! Voglio solo mangiare qualcosa in compagnia, che ne dici?» insistette, sorridendo e avvicinandosi a lui. Aaron però arretrò ancora.
«A dire il vero-»
«Per favore!» lo interruppe April, e con queste parole gli afferrò una mano con gentilezza, guardandolo nel modo più dolce e innocente che poteva.
Qualcosa le diceva che fare l'ammiccante e la seducente con lui avrebbe ottenuto l'effetto opposto.
Prendendogli la mano, però, si accorse di come avesse delle mani lisce e più curate di quelle che si aspettava; erano calde.
Il ragazzo la osservò incerto e cercò per un momento di evitare lo sguardo, ma April glielo impedì non perdendo il contatto visivo e sorridendogli. Per un attimo, le sembrò di notare paura in quegli occhi castani e si sentì quasi in colpa.
«...va bene» sussurrò infine il ragazzo. Ad April sembrò che quelle parole gli fossero costate un'intera vita, ma decise di ignorare questa sensazione e, lasciandogli andare la mano, sorrise raggiante.
«Perfetto! Hai qualche preferenza riguardo il cibo?» gli fece, prendendolo per un braccio e trascinandolo avanti verso la strada.
Aaron, del canto suo, si lasciava docilmente accompagnare.
«Non amo il pesce» disse secco. April si girò a guardarlo e rise.
«Che coincidenza: nemmeno io! Allora che ne dici di andare in una hamburgeria? Ora che ci penso, qui vicino ce n'è una davvero fantastica!» continuò allegra. L'altro si limitò ad annuire.
April sorrise.
«Allora andiamo!» disse, continuarlo a trascinarlo con gentilezza.
Era contenta di aver incontrato Aaron; una cosa che odiava era mangiare da sola, anche se purtroppo ci aveva fatto l'abitudine contando la vita da bilocale. Certo, erano numerose le volte che mangiava con May, ma cenare con un ragazzo le avrebbe permesso di fantasticare, anche se solo per un'oretta, su come sarebbe stato avere un ragazzo e cenare in sua compagnia.
Le venne da ridere a quel pensiero, ma fu una risata con una punta di amarezza; doveva essere proprio disperata se si accontentava di mangiare con uno sconosciuto e far finta che fosse il suo ragazzo. Si sentiva parecchio fuori di testa.
«L'ultima volta non abbiamo avuto occasione di parlare meglio» iniziò poi la bionda, evitando di accennare che la colpa fosse stata sua. Si girò verso il ragazzo, in attesa di una sua replica, ma notò che il rosso manteneva lo sguardo fisso davanti a sé, senza guardarla un minimo.
Sono così un mostro?, le venne da pensare.
«Sì, beh, so che è stata colpa mia. Non volevo sembrare così aggressiva, non so proprio cosa mi sia saltato in testa» continuò, ridendo forzatamente.
E invece lo sapeva bene: era una che saltava subito alle conclusioni e che preferiva agire e poi pensare alle proprie azioni che il contrario.
In seguito all'ennesimo silenzio di Aaron, si sentì come se stesse parlando da sola. Poté però evitare di continuare quella conversazione sempre più imbarazzante perché arrivarono di fronte al locale.
«Che ne dici? Come ti sembra? Preferisci qualcos'altro?» domandò ancora, cercando di costringerlo ad aprire bocca.
Il locale era piuttosto semplice, almeno dal di fuori; non era molto pretenzioso e aveva un aspetto informale, cosa che forse avrebbe aiutato il ragazzo a sentirsi meno a disagio. Dalla vetrata che permetteva di vedere all'interno notò sia famiglie, che gruppi di amici, che qualche coppia qui e là.
Perfetto, sembra un posto tranquillo, sospirò mentalmente April.
A dire il vero non c'era mai andata, ci era solo passata davanti qualche volta e le era parso di sentire May parlarne – di sicuro ci era andata una volta con Adam, considerò
– ma le era sembrato subito il posto perfetto per un pasto tranquillo e senza doppi fini.

«Va bene» Aaron rispose con il solito tono freddo, lanciandole appena un'occhiata.
April lo guardò per un attimo, cercando di capire se gli andasse veramente bene o lo stesse dicendo solo per cortesia. Non riuscì a capirlo, perciò decise di fidarsi delle parole dell'altro e lo condusse con gentilezza verso l'entrata.
Ad accoglierli si avvicinò una cameriera molto giovane – non doveva avere più di diciannove anni – che sorrise loro.
«Buonasera, un tavolo per due?» domandò subito.
«Buonasera. Sì, grazie» rispose April, già consapevole che il ragazzo non avrebbe aperto bocca.
Notò però che Aaron si fece ancora più rigido e gli lanciò un'occhiata di sottecchi – cosa poteva essere successo da renderlo così a disagio? Iniziò a pentirsi di averlo trascinato fin lì, ma ormai non poteva farci niente: di certo non lo avrebbe mandato via a quel punto.
«Prego, sedetevi pure qui» li condusse la cameriera, facendo cenno a un tavolo leggermente più appartato rispetto agli altri, che manteneva la stessa atmosfera informale rendendola forse un poco più intima.
April annuì ringraziandola e si sedette, levandosi poi la giacca.
Guardò Aaron, il quale sembrava indeciso sul da farsi.
«Non ti siedi?» domandò, confusa.
Dopo un altro attimo di incertezza, il ragazzo si sedette nella sedia opposta alla sua; April notò dalle nocche che si facevano più bianche come stesse stringendo i pugni.
A quel punto non riuscì più a trattenersi.
«Senti...» iniziò, guardandolo dritto negli occhi; l'altro per un attimo sfuggì allo sguardo, per poi riportarlo su di lei «Non volevo costringerti a venire qui con me. Non sembri a tuo agio, non volevo crearti qualche problema, quindi se preferisci andare via sappi che per me non c'è alcun problema. Preferisco che me lo dici chiaramente se non vuoi stare qui con me, piuttosto che passare tutto il tempo in silenzio ed evitando il mio sguardo» spiegò, cercando di mantenere il tono più gentile possibile. Alla fine sorrise pure.
Il fatto che non ci fosse nessun problema non era vero: ci sarebbe rimasta molto male se il rosso, a quel punto, si fosse alzato e se ne fosse andato; si sarebbe sentita veramente irritante e fastidiosa.
Ovviamente, però, non poteva dirglielo, per questo continuò a sorridere in attesa di una sua risposta.
Notò Aaron che apriva i pugni, rilassando le mani; lo vide prendere profondi respiri nonostante cercasse di non darlo a vedere e infine si passò una mano tra i capelli rossi.
«Io...» iniziò incerto «Scusa. Non volevo sembrare maleducato. È stata una lunga giornata a lavoro» disse infine.
Dentro di sé, April tirò un sospiro di sollievo.
Allora non sono io il problema!, pensò esultante. La seconda cosa che le venne in mente fu che quella frase fosse la più lunga che gli avesse sentito pronunciare.
«Sta tranquillo, posso capire. Anche io in quest'ultimo periodo ho avuto qualche problema al lavoro» spiegò, finalmente sciogliendosi anche lei. Anche se era sembrata tutto il tempo allegra, quel silenzio da parte del ragazzo l'aveva messa a dura prova.
«Come mai?» domandò il ragazzo.
April lo guardò stupita: non si aspettava che le ponesse una domanda del genere, notando come si stesse comportando per tutto il tempo.
Aaron però dovette fraintendere la sua espressione perché spostò rapido lo sguardo e riprese la sua posa rigida. In quella freddezza, ad April parve di notare un lieve imbarazzo.
«Scusa. Non volevo essere invadente»
Alla bionda venne quasi da ridere, ma si trattenne.
«Non preoccuparti, non lo sei stato assolutamente! Mi ha stupito solo un po' la domanda, non pensavo me la facessi» spiegò con una mezza risata «Comunque niente di particolarmente grave: una mia collega pensa che le stia soffiando tutti i ragazzi» disse.
Aaron, notando la sua tranquillità, riprese la posa rilassata. April trattenne un'espressione meravigliata notando un accenno di sorriso da parte del ragazzo.
«Ed è la verità?» domandò il rosso.
April si costrinse a non fare una battuta per dirgli di farsi gli affari suoi – che, appunto, sarebbe stata solo una battuta – per timore che il ragazzo fraintendesse. In qualche modo le stava salendo il sospetto che avesse una sorta di paura nei suoi confronti, anche se la cosa le sembrava abbastanza strana.
«Non proprio. Per casualità, pare che gli uomini a cui è interessata finiscano per infatuarsi di me» rispose semplicemente, scrollando le spalle e accennando un sorriso.
Non aveva granché voglia di prendere quel discorso, ora che ci pensava, ma ormai l'aveva intavolato; per questo motivo cercò di sviare la conversazione.
«E tu, invece?» domandò poi.
Vide il giovane lanciarle un'occhiata confusa mentre prendeva il menù lasciato sul tavolo dalla cameriera che, silenziosa, si era avvicinata giusto per portarli.
«Io cosa?»
April cercò di non ridere per l'ennesima volta, ma le fu difficile; più lo guardava e passava il tempo, più Aaron le sembrava un cucciolo spaesato. Le faceva tenerezza.
«Quali sono i tuoi problemi a lavoro?» specificò.
L'uomo, a quella frase, sbiancò. April si diede mentalmente della stupida.
«Scusa, non sono affari miei in fondo. Non preoccuparti, non devi rispondere, era solo per fare conversazione!» si affrettò a dire.
Cavolo, non riesco proprio a capire questo ragazzo, pensò.
In effetti, era difficile capire cosa gli passasse nella testa. Anzi, per essere più precisi quale problema avesse nei suoi confronti.
April capiva che, magari, l'atteggiamento che aveva assunto nel loro ultimo incontro – e va bene, anche nel primo, nel negozio – non fosse del tutto normale; ma da lì a trattarla in quella maniera ce ne voleva. E poi, anche se le faceva strano il solo pensiero, sembrava spaventato da lei, e April proprio non capiva come una come lei potesse spaventare uno come lui: insomma, era una mosca in confronto al giovane.
Cercò di non mettergli pressione prendendo l'altro menù sul tavolo e iniziando a sfogliarlo con enorme interesse.
«Preferisco non parlarne, mi spiace»
April alzò lo sguardo: Aaron la fissava con espressione di scuse, mordicchiandosi il piercing sul labbro come antistress. Improvvisamente, a disagio e con quell'espressione imbarazzata, lo trovava fin troppo sexy.
Arrossì.
«Certo, sono pur sempre cose private!» rispose rapida, riabbassando lo sguardo verso il menù.
Di sicuro doveva essere arrossita all'improvviso, cosa che la faceva imbarazzare ancora di più.
Cercò di non pensarci e si concentrò su cosa avrebbe potuto scegliere; dal silenzio – e anche grazie a uno sguardo di sottecchi – capì che anche il rosso stava facendo lo stesso.
Dopo pochi minuti di difficile scelta – dove April cercava più che altro di riacquisire un colorito normale – la cameriera arrivò, chiedendo loro le ordinazioni.
Così com'era arrivata, rapidamente sparì dopo averle prese.
«Come sta Rosalie?» domandò April all'improvviso; il ragazzo sobbalzò.
«Emh, bene direi. È da qualche giorno che non la sento a dire il vero, ma immagino sia alle prese con i preparativi» spiegò il giovane, iniziando a giocherellare con il bordo della tovaglia.
«Dev'essere frenetico starle affianco» considerò la bionda con un sorriso.
Aaron fece un blando sorriso tra sé.
«Sì, non è facile. Ma per fortuna c'è mia madre e le mie sorelle che se ne occupano, io non devo starle troppo appresso»
Il tono, man mano che il tempo passava, diventava più tranquillo e ciò fece sorridere April.
«Sorelle? Allora non siete solo tu e Rosalie» commentò la bionda.
Un altro mezzo sorriso da parte di Aaron.
«No, direi proprio di no» fece scrollando le spalle.
«Altri fratelli? Sorelle?»
«Sorelle, altre quattro escludendo Rose»
«Quattro? Mi stai dicendo che siete cinque sorelle e un solo ragazzo?» disse April stupida.
Aaron fece una smorfia.
«Sì»
April scoppiò a ridere.
«Non dev'essere per niente facile» considerò.
Aaron stava per rispondere, se non ché la cameriera arrivò con le loro ordinazioni.
April, dopo un attimo, si accorse di come il giovane si irrigidì quando la cameriera si piegò verso di lui per poggiare il piatto; le sembrò che trattenesse quasi il respiro.
Aprì la bocca in automatico per chiedergli il perché, ma la richiuse praticamente subito. Stava andando tutto bene, sembrava essersi sciolto; aveva paura di rovinare tutto, perciò decise di tenere la bocca chiusa.
Appena la cameriera se ne andò, Aaron si rilassò di nuovo.
«Non è per niente facile. Sono pettegole, impiccione, isteriche e spaventose» snocciolò il ragazzo.
April inarcò un sopracciglio.
«Addirittura? Dai, avranno dei lati positivi. Rosalie mi sembra un angelo!» replicò.
«Fidati, è tutta apparenza» le disse con un sorriso ed April sorrise di rimando.
Si sentiva stranamente leggera come un palloncino.
Non sapeva perché, forse il motivo era che non stava cercando di conquistarlo, ma solo di metterlo a proprio agio – e le stava riuscendo! Si sentiva fiera di sé.
Iniziarono a mangiare, continuando a scambiarsi frasi tra un boccone e l'altro.
«Rosalie è una delle peggiori: sembra tanto un angioletto e invece, quando vuole, diventa il demonio in persona. Non ti consiglio di parlarci in una delle sue giornate no» la avvisò Aaron, prendendo poi un boccone.
«E immagino se la prendano con il loro fratello preferito»
Il rosso sembrò pensarci un attimo.
«Sì, direi che sono il loro bersaglio preferito» considerò.
«E riescono a beccarti?»
«Quando premono il tasto giusto»
E quale sarebbe questo tasto?
April pensò quella domanda, ma non la fece. Qualcosa le diceva che avrebbe ottenuto solo un gelido silenzio e la medesima rigidità di sempre.
Aaron dovette accorgersi del suo silenzio perché, forse non volendo che la conversazione morisse, fece a sua volta una domanda.
«E tu? Hai fratelli o sorelle?»
April fece cenno di no.
«Nessuno dei due, sono figlia unica» spiegò scrollando le spalle.
Sono una scema, pensò. Aveva fatto un'enorme stronzata a intavolare il discorso “famiglia”: era uno degli argomenti che odiava di più.
Beh, lui non lo sa, rifletté.
«Beh, ma immagino che in tutte le famiglie ci siano più o meno le stesse dinamiche, no?»
April perse il sorriso all'improvviso.
“Dinamiche”... Come se si potessero considerare quelle di casa sua delle “normali dinamiche”.
Il ragazzo si accorse subito del cambiamento di umore di April – cosa chiara come il sole, d'altronde – e quest'ultima, di sottecchi, notò come ridivenne rigido e a disagio.
«Perdonami. Non volevo tirare fuori argomenti problematici» lo sentì dire.
April si diede della stupida.
Complimenti April: tu sì che sai come mettere a proprio agio le persone. Medaglia d'oro, davvero! Ora dovrò rifare tutto da capo per far sì che ritorni normale, pensò.
Si costrinse a sorridere radiosa, anche con un certo risultato.
«Non hai nulla di cui scusarti! È solo un argomento che non amo, ma tu non potevi saperlo, quindi non c'è alcun problema» fece sorridente.
Una cosa che faceva parte del suo carattere, e che spesso May le aveva rimproverato, era il suo desiderio di non mettere a disagio gli altri: escludendo i casi in cui le persone la facevano arrabbiare – per esempio quell'idiota di Gwen – cercava di rendere il clima piacevole. Non amava quando, a causa sua, la gente si trovasse a disagio, perciò quando capitavano episodi come quello appena accaduto con Aaron cercava di rimediare al più presto, facendo finta che nulla fosse successo.
Il ragazzo però non sembrò sicuro del suo sorriso; la guardò per la prima volta dritta in volto in una maniera che April arrossì e cercò di deviare lo sguardo.
Si sentì come se il rosso la stesse mettendo sotto torchio.
«Va bene» disse alla fine il giovane, con tono arrendevole.
Avevano già finito di mangiare e April quasi non se n'era accorta.
Stava per aprire la bocca e dire qualcosa – odiava il silenzio che si era venuto a creare – ma il suo cellulare iniziò a suonare furiosamente, facendola quasi saltare sulla sedia.
Diede un'occhiata al display: May.
«Scusami un attimo» disse con un sorriso in direzione del ragazzo, e appena vide lui fare un cenno si alzò dal tavolo.
Accettò la chiamata.
«Pronto?»
«Ehi, sono appena arrivata a casa e ho letto il biglietto. Dove sei?» chiese May. In sottofondo sentì la porta che si chiudeva e poi un tintinnio di chiavi che venivano poggiate.
«Mi sono fermata a mangiare qualcosa, te l'ho scritto»
«Questo lo so, grazie. Intendevo dire dove sei andata a mangiare. Vuoi che ti raggiunga?» fece inizialmente sarcastica l'amica. April lanciò un'occhiata ad Aaron, che in quel momento era alle prese con il cellulare e si mordicchiava il piercing.
«Sarebbe inutile dato che ho appena finito di mangiare, adesso torno» rispose.
Dall'altra parte del telefono, sentì May tacere per un attimo.
«Con chi sei?» fece infine l'amica con tono inquisitore. April alzò gli occhi al cielo.
Ma come fa a capirlo sempre?, pensò.
«Ti spiego dopo, ora non mi sembra il caso di stare venti minuti al telefono se sono con qualcuno» puntualizzò. Sentì May sospirare scocciata.
«Come preferisci, ma almeno mi dai un indizio?»
April sorrise istintivamente pensando alla faccia della sua amica: conoscendola, aveva gonfiato le guance come farebbe una bambina di sei anni scontenta perché non le è stato dato il gelato.
«Ha dei bellissimi capelli rossi» rispose, ma non lasciò che l'altra rispondesse «Ci vediamo fra poco a casa, ciao!» e le chiuse il telefono in faccia.
Solo dopo considerò che non era stata una bella mossa: May poteva sempre decidere di farla dormire fuori.
Scosse la testa, decisa a pensarci dopo, e si voltò per ritornare al tavolo da Aaron; peccato che il ragazzo non fosse più lì.
Si avvicinò al tavolino per prendere la giacca e la borsa, poi si guardò intorno alla ricerca del ragazzo. Lo trovò subito: era alla cassa e stava pagando.
«Ehi!» esclamò la bionda fiondandosi sul ragazzo. Lo afferrò per una manica e questo sobbalzò, tirandosi subito indietro.
«Cosa stai facendo?» gli fece arrabbiata.
«...sto pagando?» rispose l'altro, confuso. Come al solito, spostò lo sguardo cercando di non fissarla dritta in volto, e grazie a quel gesto April si rese conto del tono usato.
«Ti avevo detto che avrei pagato io! Volevo scusarmi per l'ultima volta» protestò, mantenendo però un espressione più tranquilla. Aaron fece un mezzo sorriso.
«Scusa, deve essermi sfuggito» rispose, scrollando le spalle.
April sospirò notando lo scontrino che gli veniva consegnato dall'uomo dietro il bancone.
«Ti odio per questo, sappilo» fece categorica, per poi iniziare ad uscire dal locale dopo aver ringraziato.
Sentì i passi dietro di sé, segno che il ragazzo la stesse seguendo.
Le venne in mente un'idea.
«Vorrà dire che la prossima volta pagherò io, e non intendo ascoltare alcun tipo di scusa, sono stata chiara?» disse fermandosi di botto e girandosi verso il rosso, il quale si bloccò a sua volta.
La guardava spaesato e ad April venne voglia di accarezzargli i capelli.
«Prossima volta?» ripeté Aaron, inclinando un poco la testa confuso.
April lo guardò con un sorrisetto, per poi iniziare a frugare nella borsa e tirare fuori la penna usata in precedenza per il bigliettino. Afferrò la mano sinistra del ragazzo, scrivendo poi sul palmo il proprio numero di telefono.
«Esatto, la prossima volta» fece soddisfatta.
Il ragazzo sembrò farsi più pallido e la bionda si affrettò a spiegare.
«Non preoccuparti: non voglio provarci con te. Solo che mi piacerebbe offrirti qualcosa come ringraziamento, e in ogni caso ci si potrebbe trovare un altro giorno per un'altra chiacchierata, che ne dici?» propose adottando il sorriso più innocente del suo repertorio.
Aaron era ritornato per un attimo gelido come sempre, ma alla fine capitolò e si rilassò.
Le fece un mezzo sorriso, uno di quelli che April comprese fossero il massimo che il giovane potesse fare – e le andava bene così.
«La prossima volta» acconsentì.
April rise.
«Perfetto, allora grazie per oggi e buona serata!» gli disse, per poi fuggire via con una seconda risata mentre gli faceva “ciao” con la mano. Lo vide scuotere un poco la testa e ricambiare il saluto.
Per un attimo, le parve anche di vederlo sorridere.

Quando entrò nel proprio appartamento e il silenzio lo accolse, Aaron non accese subito la luce.
Chiuse la porta in silenzio e godendosi il buio che avvolgeva le stanze, appena affievolito dalla luce che entrava dalle finestre scostate, prese una sigaretta dal pacchetto abbandonato sul tavolino basso di fronte alla tv e uscì nel balcone.
Lassù tirava più vento rispetto alla strada, ma non gli dispiacque: lo trascinava via da quella strana sensazione di essere ubriaco.
Solo dopo aver preso uno, due, tre tiri della sigaretta scoppiò a ridere,
Fu una risata strana, liberatoria, e si sentì un idiota a ridere da solo, al buio, mentre fumava una sigaretta.
Sono riuscito a passare del tempo con una ragazza senza avere un attacco di panico, pensò raggiante.
Era qualcosa che mai e poi mai avrebbe pensato di riuscire a fare; era come un sogno irrealizzabile e qualcosa che neanche avrebbe mai voluto sperimentare – erano troppo spaventose le donne.
Eppure quel giorno, grazie a quella April...
Era felice. Sentiva di aver fatto un enorme passo in avanti – sapeva che in realtà non era niente di ché, ma per i suoi standard era qualcosa di straordinario e aveva voglia di chiamare Tom e raccontargli di cosa fosse successo.
Lo stava anche per fare – prendere il cellulare e chiamare l'amico – ma poi si bloccò.
Glielo racconterò domani, pensò, mentre il sorriso raggiante sfumava in uno più rilassato.
Non sapeva neanche com'era finito in quel ristorante a mangiare con quella biondina: si ricordava solo che voleva a tutti i costi fuggire da lei e dai suoi occhioni verdi terribilmente spaventosi, ma aveva così paura che non era nemmeno stato in grado di dire di no, e aveva finito per acconsentire.
Incredibilmente, la ragazza non gli era più sembrata spaventosa – non capiva cosa in effetti avesse smesso di fargli paura, ma vederla lì, sorridente, con quei capelli biondi e quel vestitino rosso gli era sembrata una bambolina docile e tranquilla; non più una tigre pronta a sbranarlo, ma un gattino che faceva le fusa.
Certo, con la cameriera non era stata la stessa cosa – faceva praticamente un salto ogni volta che si avvicinava – ma April, in uno strano modo, sembrava avere lo straordinario potere di metterlo a suo agio. Per certi versi, a dire il vero: ogni tanto lo spaventava anche lei.
Ma era un inizio, no?
Si guardò la mano, dove il numero di cellulare della ragazza spiccava con l'inchiostro nero.
Prese il cellulare in mano e lo trascrisse.
Sì, può essere un inizio.

 
  
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