Erano
le 6
del pomeriggio, una semplice giornata di primavera, in quella semplice
città
portuale conosciuta come Busan.
Poi tanto semplice non era in realtà, essendo
la città portuale più grande della nazione,
tuttavia così l’aveva sempre
considerata, Jimin: una città semplice, piena di abitanti
semplici e monotoni.
In
questa stessa ottica si rapportava a tutto ciò che aveva
intorno, che
fossero persone o oggetti, avvenimenti:
la verità, secondo lui, era che fossero gli uomini a
complicare le cose che,
seppur semplici, gli apparivano troppo complicate per la loro vita
mediocre e
priva di avvenimenti sensibilmente rilevabili come
“diversi”.
Gli
uomini avevano sempre avuto questa mania del controllo, del controllare
qualsiasi cosa venisse a contatto con loro, per questo, solitamente, si
lasciavano prendere dal panico di fronte a qualcosa di troppo
“grande”.
Nonostante tutto però, gli uomini erano quasi sempre riusciti a dirigere le cose secondo i loro piani, superando qualsiasi tipo di difficoltà o avversità.
Park
Jimin, invece, non aveva mai avuto un vero e proprio
controllo della sua vita.
Aveva sempre avuto la scomoda sensazione che la sua
esistenza fosse in balia del fato e delle coincidenze più
assurde e
inconcepibili.
Quelle stesse coincidenze stavano dirigendo la sua vita e il suo
percorso di studi, quelle stesse coincidenze avevano fatto in modo che
venisse
eletto rappresentante di classe e quelle stesse medesime coincidenze
avevano
fatto in modo che conoscesse Jeon Jungkook.
Ma facciamo un passo indietro.
Erano passati circa due mesi dall’inizio dell’anno scolastico, e tutto andava a gonfie vele: ottimi voti a scuola, numerose amicizie e docenti soddisfatti del suo rendimento scolastico e del suo svolgimento dell’attività di rappresentante. Tuttavia, qualcosa stava per turbare il suo equilibrio.
- Buongiorno, è permesso? Volevate vedermi? – domandò Jimin entrando nella sala professori, dove ad attenderlo c’era il docente coordinatore di classe, che lo accolse gentilmente:
- Oh, Park Jimin, sisi, entra pure. – disse il professore, invitandolo a sedersi accanto a sé al lungo tavolo al centro della stanza, - Si, volevo vederti in realtà. C’è una cosa di cui dobbiamo discutere. – disse, ridacchiando appena allo sguardo confuso del ragazzo dai capelli color arancia, palesemente tinti nell’ennesimo tentativo di dare una scossa alla sua monotonia.
- Nella tua aula c’è un banco vuoto, lo hai notato? – domandò il docente, ricevendo un cenno in segno di assenso dal giovane:
- Si, professore. Mi sono sempre chiesto a chi appartenesse, ma temevo di risultare indiscreto nel chiederlo, pur essendo rappresentante di classe. – rispose il ragazzo, suscitando un leggero sorriso da parte dell’uomo;
-
Educato come sempre, ti fa
onore. Tuttavia è proprio di quello studente, che voglio
parlarti. – il
professore fece una leggera pausa, per poi proseguire – Il
suo nome è Jeon
Jungkook, non conosco il motivo della sua assenza, tuttavia so che, in
quanto
rappresentante, il tuo compito sarà portargli a domicilio
gli appunti delle
spiegazioni che ha perso nel corso della sua assenza.
Ti fornirò io le
dispense, che abbiamo già preparato, e
l’indirizzo, al quale dovrai recarti
oggi stesso dopo la scuola. – il ragazzo annuì e
si limitò ad accettare il
compito ed essere congedato, avendo troppi quesiti per la testa e
troppe
curiosità che non sarebbe probabilmente riuscito a
soddisfare.
E fu proprio in quella giornata di primavera, alle 6 del pomeriggio, che conobbe Jeon Jungkook.
Non
ci impiegò molto ad arrivare
all’indirizzo che gli era stato assegnato, il quale indicava
una bellissima
villetta dallo stile moderno, ubicata non troppo lontano dalla
scuola.
Gli ci
volle un po’ per suonare il campanello, ma alla fine vi
riuscì: in poco tempo
la porta si aprì davanti a sé e un ragazzo
probabilmente della sua età fece la
propria comparsa sulla soglia.
- Ti serve qualcosa? – chiese con uno sguardo infastidito il ragazzo che avrebbe dovuto essere leggermente più giovane; se non avesse letto i documenti poco prima, avrebbe tranquillamente potuto pensare fosse un ragazzo più grande.
- Oh, si. Ecco, sono Park Jimin, il tuo rappresentante di classe! Sono qui per conto di un professore. – il ragazzo, tuttavia, lo interruppe brutalmente:
- Non ti ho chiesto questo, ti ho chiesto se ti serve qualcosa. – Jimin si trovò improvvisamente in soggezione, ancora una volta le lunghe coincidenze che dominavano la sua vita lo avevano messo in una situazione a dir poco scomoda.
- Ho portato gli appunti. Delle lezioni. – disse, ricambiando lo sguardo torvo del ragazzo, porgendo al ragazzo dai capelli scuri il blocco rilegato, contenente i tanto discussi appunti.
Il ragazzo lo guardò leggermente sorpreso, poi prese gli appunti e fece un cenno con la testa, mormorando appena un ‘grazie’ prima di chiudere la porta.
- Che tipo strano.. bha. – pensò tra sé e sé il rappresentante di classe, tanto infastidito quanto incuriosito; purtroppo per lui la stessa scena si ripetè un’altra volta, e un’altra ancora, ma alla quarta qualcosa di inaspettato successe:
- Vuoi accomodarti? Ti offro qualcosa. – chiese Jungkook con il solito sguardo serio, che lasciò il maggiore ancora più perplesso delle volte precedenti.
La casa era moderna e ben arredata, dava l’idea che il ragazzo abitasse in una famiglia facoltosa: ma poteva una casa così grande sembrare così vuota?
-
Hai una casa molto bella. Vivi
qui solo? – chiese il maggiore osservandosi attorno curioso,
facendo rabbuiare
gli occhi scuri del padrone di casa, che rispose:
- I miei ci sono poco,
lavorano molto e sono occupati. Io passo il mio tempo qui, praticamente
solo,
si. -.
Jimin, per la prima volta, si sentì incredibilmente stupido.
- Oh, non avrei dovuto, chiedo scusa.-
- Non scusarti, non ha senso. Cosa ti piacerebbe? Tè verde?-
- Andrà benissimo, si. Cosa fai nel tempo libero?- chiese il ragazzo curioso mentre l’altro armeggiava con la teiera e l’infuso verdognolo:
- Oh, dipingo. Nulla di che.-
-
Ma come, io lo trovo bello. Mi
piacerebbe poter vedere qualcosa.- domandò implicitamente,
per poi prendere la
bevanda che il ragazzo gli aveva porto poco prima; egli poi gli fece
segno di
seguirlo al piano superiore, dove lo attendeva probabilmente la stanza
con i
dipinti: la camera era davvero meravigliosa, piena di quadri
paesaggistici di
ogni genere che lasciavano trasparire la bravura del ragazzo, seppur di
giovane
età.
D’un tratto la bellezza di quei quadri fu sovrastata da un
pensiero, che
pian piano si fece largo nella mente del ragazzo:
- Jungkook,
perché hai cambiato atteggiamento
nei miei confronti? Perché mi mostri ciò?
–
- Perché?
Perché ti trovo interessante. –
- Interessante?
–
- Si, un soggetto
interessante. E vorrei
dipingerti, se me lo permetterai. -.
Da quel giorno, Jimin passò regolarmente a trovare Jungkook per farsi dipingere: inaspettatamente, scoprì che anche Jeon Jungkook era capace di sorridere, ogni tanto.
Quando il ragazzo dai capelli corvini era impegnato a dipingere il maggiore, questi gli faceva le boccacce per farlo ridere, cosa che spesso e volentieri gli riusciva, con suo grande piacere; spesso si lamentava, ad alta voce, di proposito, di quanto l’attesa sembrasse infinita:
- Jungkookie, sono giorni che va avanti così, quando terminerai?-
- Ci vuole tempo, non essere impaziente.-
- Posso almeno vederlo?-
- Non esiste.- .
E
così continuava ogni giorno,
ininterrottamente, uno stupido teatrino, un loro copione di battute di
proposito sempre uguali, in cui ognuno sfidava la pazienza
dell’altro e che
puntualmente terminava in sonore risate.
Jungkook aveva un modo strano di
sorridere, sembrava quasi un roditore ma, prima che potesse rendersene
conto,
Jimin cominciò ad amare quella risata stramba.
Qualche giorno dopo, Jimin fu
costretto a mettere gli occhiali e il pensiero della reazione di
Jungkook lo
tormentò per tutta la strada; tuttavia la reazione del
minore non vu proprio
quella che si aspettava:
- Mh, bhe in effetti ti donano.-
- Trovi? Non so, non ti infastidiscono per il dipinto? Posso toglierli se vuoi.-
- No, davvero, ti stanno bene, anzi credo li aggiungerò.-
- Va bene, va bene, come preferisci. –
- Bravo, Jiminie Hyung. –
- Come scusa?-
-
Non lo ripeterò di nuovo, mi
spiace. – Jimin rise di nuovo sonoramente mentre
l’altro fingeva, come al
solito, una faccia annoiata e un sonoro sbuffare infastidito.
Tuttavia, quella
faccia fintamente annoiata si trasformò in una smorfia di
dolore: Jungkook mise
una mano sulla testa, poggiandosi appena sul cavalletto, in un atto di
riposo
costretto dal dolore.
- Devo aver lavorato troppo ultimamente, cavoli.- mormorò appena il minore, evidentemente stressato – Ti spiacerebbe andare a casa per oggi, penso mi serva una dormita per rimettermi in sesto. -; lo congedò frettolosamente, ma Jimin non gli diede peso, in fondo era stato lui a insediarsi nella casa di un ragazzo di salute cagionevole come fosse la propria, magari gli aveva infettato il raffreddore o aveva una qualche allergia, dopotutto era primavera.
Il giorno dopo, Jungkook lo rimandò a casa, dicendo che non stava bene. E così fece il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Si
conoscevano oramai da un
mese,da due settimane Jimin continuava a fare quel tratto di strada
invano, da
due settimane Jungkook lo scacciava: non poteva essere solo febbre, non
allergia, nessun raffreddore.
Non appena la porta si aprì,
nemmeno lo lasciò parlare: si fiondò in casa,
urlando con gli occhi gonfi di
lacrime che non poteva scacciarlo per sempre, che non aveva senso
allontanarlo
senza un motivo, che avrebbe voluto sentirgli dire qualcosa di diverso
da un
semplice “oggi non sto bene, facciamo un’altra
volta!”.
Jungkook ascoltava in
silenzio con gli occhi bassi, lo lasciò urlare e sfogare,
lasciò che inveisse
contro di lui, per poi puntare solo un dito verso la porta:
- Vattene via.
Smettila di essere una
fottuta spina nel fianco. Ti odio.- .
Furono
pochissime parole che
bastarono a farlo sentire l’essere più stupido del
mondo: aveva provato a
controllare la sua vita, e questo era stato il risultato, per la
seconda volta
da quando lo conosceva, si sentì un idiota.
Lasciò quella casa, senza dire
nulla, giurando di non tornarci mai più.
… Ma come
avrebbe potuto?
Il
giorno dopo si ripresentò a
casa sua, per l’ennesima volta, bussò a quel
campanello ma non fu il suo
Jungkook ad aprire.
Una donna adulta, lo guardò appena e sgranò gli
occhi,
quasi come se lo riconoscesse: Jimin capì, e
iniziò a piangere.
Chiese di entrare e corse dritto
verso la camera dei dipinti, dove finalmente lì, incustodito
al centro della
stanza, vi era il suo dipinto, sotto una tela; sulla sedia, una
semplice
lettera:
“Caro
Jiminie Hyung,
non
era così che sarebbe dovuta finire, non era questo che
volevo. Avrei voluto
poter vedere il tuo volto ammirando il mio dipinto, il nostro dipinto.
Scrivo
questa lettera tra le lacrime, tu sei appena corso via da casa mia,
sbattendo
la porta: ti ho detto che ti odio, ti prego non crederci. Ho voluto che
tu mi
odiassi, non volevo che il sorriso che tutti i giorni illuminava la mia
prigionia fosse spento così, non potevo permetterlo.
Quando
quel giorno sei venuto a consegnarmi gli appunti, ho subito sentito
qualcosa,
una connessione. Nemmeno io so come mai ti abbia lasciato varcare la
mia
soglia, non so spiegarlo: sentivo solo che in quel momento era la cosa
giusta
da fare. Mi dispiace averti conosciuto per così poco tempo,
che nonostante
tutto è servito a migliorarmi e a farmi scoprire nuovi
aspetti di me stesso.
Voglio
che tu legga questa lettera ricordando sempre che, nonostante tutto, io
provavo
qualcosa. E chissà, forse avrei potuto innamorarmi davvero
di te.
Non
appena fossi stato meglio ti avrei invitato a uscire, probabilmente, e
chissà
se avresti accettato. Tuttavia, se hai questa lettera tra le mani, non
mi è più
possibile farlo. Ma ho voluto lasciarti un ultimo pezzo di me, della
mia anima
e del mio cuore. Il dipinto è tuo, tienilo. Spero che,
guardandolo, mi
penserai. Arrivederci, Park Jimin.
Tuo,
Jeon Jungkook”.
Le
lacrime sgorgavano oramai sulle guance del ragazzo, inarrestabili
nel loro cammino e, finalmente potè togliere il telo: non
era il suo dipinto,
era davvero il loro dipinto.
Le figure dei due ragazzi, schiena contro schiena,
in uno sfondo calmo e tranquillo, una pace imperturbabile; a lato vi
era una
semplice dedica, che portava il riconoscibile tratto di un pennello
sottilissimo:
“
Di proprietà di Park Jimin, lo hyung che amo di
più al mondo.”.
Volle lasciare la tela lì dove si trovava,
l’avrebbe presa più tardi.
Si diresse verso la camera da letto, dove il ragazzo giaceva, oramai
pallido e freddo, tra le inesorabili braccia di un eterno sonno; gli
baciò
lentamente la fronte, accarezzandogli dolcemente i capelli:
- Pensavi davvero che avrebbe fatto meno male? Stupido che non sei altro. Avrei voluto conoscerti, avremmo potuto fare così tante cose. Avrei accettato il tuo invito, lo sai? Prima forse avrei sorriso come un idiota, poi avrei balbettato, ma avrei accettato. Vorrei poter tornare indietro.- disse, prima di dirigersi verso la porta – Buonanotte, Jungkookie.- sussurrò appena, per poi varcare la soglia, mentre un’altra lacrima bagnò le sue guance, oramai umide.
Park Jimin, non aveva
mai avuto un vero e proprio controllo
della sua vita.
Aveva sempre avuto la scomoda sensazione che la sua esistenza
fosse in balia del fato e delle coincidenze più assurde e
inconcepibili.
Quelle
stesse, stupide coincidenze avevano fatto in modo che conoscesse Jeon
Jungkook
e che se innamorasse, senza tuttavia poterlo ottenere: quelle stesse
coincidenze, glielo avevano portato via.