Lacrime. Lacrime bollenti, brucianti. Lacrime di sangue che le
rigano il volto e la pelle pallida. Lacrime che le pizzicano le guance, le
riempiono gli occhi arrossati.
Non vede, non vuole vedere. Non sente, non parla.
Troppo, troppo dolore, troppo, troppo di tutto, troppo nulla nell'anima.
Il corpo è vuoto, il cuore batte, il sangue fluisce, tutto funziona, ma lei non
va. È lì, gelata e basta, svuotata di ciò che la rendeva vera. È grigia e
inutile, povera d'ogni cosa che non sia dolore.
Morta, è morta. Come lui. Resa nulla dal corso degli eventi. Morta come il suo
cuore.
Perché batte ancora? Come fa? Come può? Non deve!
Fermati dannazione fermati! Smetti di battere! Muori come sono già morta!
E invece lei è ancora lì, con il suo cuore che batte, il sangue
che scorre e l'anima bruciata.
E allora urla, urla soltanto, non può fare altro. Urla e la gola le brucia,
secca, scorticata, vuota. Presto la voce finirà insieme alle lacrime, ma nel
frattempo lei può continuare ad urlare sperando che gli dei si accorgano di
lei.
Lo afferra, lo scuote, forte, piangente e tremante come a
digli "vivi, vivi, ti prego". Eppure quel corpo, quel corpo una volta
così pieno di vita, quel corpo che ora è vuoto d'ogni cosa, bucato sul petto,
inzuppato di sangue, quel corpo resta immobile, gli occhi vitrei spalancati,
fissi su un cielo senza stelle e pietà.
-Non tu- singhiozza, piano. Non ha più forza nelle braccia e allora sta lì,
accasciata sul cadavere del ragazzo che aveva amato. -Percy... non tu, tutti ma
non tu-.
Lo accarezza tutto, braccia, busto, viso. Passa le dita tra i
suoi capelli morbidi, neri come il carbone, ribelli proprio come lui. Sfiora la
pelle delle gote, fretta, gelata e intrisa di morte.
-Vivi- supplica, la voce spezzata -ti prego-
Resta stretta a lui, l'orecchio premuto contro il suo petto, pregando che il
cuore riparta, che ora Percy scoppi a ridere e le dica che è solo uno scherzo
di cattivo gusto.
Ed è allora che Annabeth, lei che non si era mai piegata, mai
spezzata, nonostante tutto, chiude gli occhi e, mentre l'odore del sangue le
arriva alle narici e la circonda, spietato, è allora che Annabeth Chase si
mette a pregare. Prega in silenzio, ma nella sua mente sta urlando.
Prega perché gli dei abbiano pietà di lei, dopo tutto quello che ha passato.
Prega perché le braccia di Percy la stringano a sé.
Prega perché quegli occhi, quegli occhi che non ha avuto il coraggio di
chiudere, ai quali non vuole abbassare le palpebre, tornino a vedere di nuovo.
Prega perché il suo cuore possa bastare per far vivere entrambi.
Non sa a chi si sta rivolgendo, prega e basta, il dolore che non fa altro che
diventare più forte, che le stringe la gola in una morsa senza pietà.
A risponderle però e solo il silenzio, solo quello. Dopo tutto ciò che ha
fatto, dopo tutti i pericoli, i pianti e i rischi. Dopo tutte le battaglie e le
morti gli dei restano in silenzio.
Ricomincia ad urlare, ma la voce è flebile, è solo un filo di
fumo che vola in alto nel cielo e che si unisce a tutti gli altri e che
continua a salire, sempre più in alto, sempre più in alto, fino a perdersi,
inesorabilmente, nel buio eterno ed infinito dello spazio.
Batte i pugni contro il suo petto, la rabbia che le monta nel
cuore mentre le viscere le bruciano d'odio per quel mondo per il quale ha fatto
troppo, per cui ha dato tutto e che l'ha ripagata solo con la cenere.
-Ti odio!- grida, le lacrime che non ci sono nemmeno più, il respiro mozzo -Vi
odio tutti!- Si infila le mani tra i capelli e tira, tira e tira fino a che le
ciocche bionde le restano in mano, il cranio le duole e il rivolo di
sangue cola dalla tempia e le riga la guancia come una lacrima.
-Qualunque cosa- dice allora, singhiozzando, incurante del dolore alla testa
-Farò qualunque cosa ma, vi prego, riportatelo indietro-.
Geme di nuovo, ma ciò che le esce dalle labbra è un semplice rantolo, nulla di
più.
Un soffio di vento le accarezza il volto e ad Annabeth pare, per un secondo, di
riuscire a respirare di nuovo. Poi un sibilo alle sue spalle. Dovrebbe
voltarsi, vorrebbe farlo, ma non riesce, non riesce a sollevarsi, non riesce a
muoversi, non riesce a imporre al suo corpo di tornare a vivere.
Dita gentili le carezzano le spalle, leggere e consolatorie.
-Mamma?- è l’unica parola che riesce a pronunciare. Nessuno però parla e
Annabeth crederebbe in un’allucinazione se non fosse per quelle dita leggere
che continuano a sfiorarla delicate, come se sapessero che, con una pressione
un poco più forte, la spezzerebbero in milioni di schegge di vetro. Forse è
davvero così.
-Mamma?- sussurra di nuovo la ragazza e allora le dita si allontanano, di
scatto. Annabeth se ne sente privata, come se le avessero strappato via
qualcos’altro, come se quello che ha già perduto non fosse abbastanza.
-Non sono tua madre, figlia di Atena.- la ragazza chiude gli occhi, la voce che
le rimbomba nella mente come una litania sottile, melensa e perversa. Fa rabbrividire,
quella voce, sa di morte. –Ti sentono, ma hanno deciso di ignorarti,
sull’Olimpo-.
Silenzio. Avrebbe dovuto immaginarlo, infondo cosa importa agli dei di loro?
Cosa importa a sua madre di lei? L’ha vezzeggiata e coccolata quando le
serviva, le ha fatto credere di essere la migliore tra tutti, poi l’ha lasciata
indietro non appena terminato il suo compito.
-Chi sei?- sussurra.
Ha paura. Stringe tra le mani la maglia inzuppata di sangue del figlio di
Poseidone e strizza le palpebre sforzandosi di non tremare.
Ha freddo. Brividi gelidi le percorrono la spina dorsale, brividi che
assomigliano tanto alla stessa morte che ha conosciuto Percy.
-L’unica che ha avuto la forza di rispondere alle tue preghiere, figlia di
Atena-. Di nuovo brividi. Le dita tornano a sfiorarle la schiena e salgono
lentamente verso l’alto, verso la nuca. Quando le sfiorano la pelle ad Annabeth
sembra di svenire. Si appoggiano sulla base del collo, lì dove il sangue scorre
impazzito.
-Va tutto bene, figlia di Atena-. Il sussurro è a un centimetro dal suo
orecchio, ma la ragazza resta immobile, avvolta da quell’orrida presenza che
pare permeare ogni cosa, ogni molecola dell’aria che entra a scatti nei suoi
polmoni. –Ti ho sentito, hai pregato per lui… ed io sono qui per aiutarti-.
Annabeth smette di respirare, come quella volta in cui, da
piccola, ha ingoiato una biglia. Stringe ancora di più tra le mani la maglia
arancione del figlio di Poseidone e annaspa senza però osare sollevare lo
sguardo: qualcosa le dice che, se guarderà in su, se cercherà di capire con chi
parla, quella divinità che le incute tanto orrore sparirà e con essa l’unica
possibilità che possiede.
-Non devi avere paura- dice di nuovo, e la ragazza quasi ci crede tanto quella
voce le risuona nelle orecchie. –Posso farlo davvero, posso ridartelo-.
Strizza gli occhi, se ne pentirà, lo sa, ma non importa.
-Cosa vuoi?-
No,
Annabeth!
-Un favore, tuo e del tuo…amico-
Annabeth
dannazione!
-Che tipo di favore?-
Annabeth
ascoltami!
-Uno qualunque che potrò riscuotere in qualunque momento-.
Figlia
mia…
Le dita ora le stringono i capelli e giocano con le ciocche
bionde sporche di rosso. No, quella non è sua madre, lei l’ha abbandonata tempo
fa, ha permesso al Fato e agli dei di farle quello.
Probabilmente quella è semplicemente la sua coscienza, Annabeth lo sa, ma le
piacerebbe credere, almeno per un istante, che quella sia davvero Atena, le
piacerebbe illudersi.
Sa che è sbagliato, ma sa che se darà ascolto a quella voce perderà la sua
occasione, perderà Percy… e questo non può permetterlo. Lui si è gettato nel
Tartaro per lei… e lei ora farà lo stesso, perché non vale la pena di
continuare, non senza di lui.
Annuisce impercettibilmente e le dita si arrestano. Sa cosa vuole, non c’è
bisogno di alcuna parola.
-Lo giuro-.
La mano dell’entità stringe la presa ferrea sui suoi capelli e
poi tira. Annabeth geme, ma non può fare altro che reclinare la testa mentre il
sangue continua a scorrere più veloce, sempre più veloce, fino a che non le
pare che la testa le stia per scoppiare.
Gelide labbra di posano sulle sue, sono viscide, come se fossero di melma. La
figlia di Atena non ha il coraggio di guardare, schiude le labbra perché sa che
quello è ciò che deve fare, è l’unica via, ma la lingua che sfiora la sua le fa
venir voglia di vomitare. Avverte il suo corpo riempirsi di ghiaccio e il cuore
che si svuota d’ogni cosa. Ora è lei, quella gelida, le labbra dell’entità sono
bollenti contro le sue mentre un sapore di mandorle le invade la bocca,
inebriandola. Ma non sa di mandorle zuccherate, di quelle che si mangiano ogni
tanto o si mettono sopra le torte, no, sa di amaro.
Come il
cianuro, pensa.
Poi il buio.