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Autore: arisky    14/04/2017    3 recensioni
Perché? Perché non hai pietà di me? Perché è così difficile pensare che anche un prete possa macchiarsi di una colpa? La colpa di essere uomo...
***
Una one-shot che ci fa entrare nella mente perversa dell'arcidiacono Frollo, seguendo i suoi pensieri passo dopo passo. Una sintesi tra la scena di "Un mattino ballavi" del musical di Riccardo Cocciante e l'atmosfera e lo stile caratteristici di Victor Hugo e di uno dei romanzo più belli di sempre.
Genere: Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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-Ti amo!-
Il mio grido straziante riempie l’oscurità di questa segreta, la sua eco mi stordisce, e mi rende consapevole di ciò che ho appena fatto.
Ero venuto qui, nelle viscere di questa prigione, in questo luogo oscuro in cui si dimentica persino che esista il sole. Il proposito era quello di annunciarti l’imminente condanna e nient’altro, per riuscire a fuggire in tempo da te e dalla tua aura incantatrice.
Povero illuso che sono! Come ho potuto pensare che questa misera veste sacerdotale sarebbe bastata a proteggermi da te? Questa veste, che dovrebbe essere intessuta di morale, di austerità, di rigore, di castità... Questa veste, da quel maledetto giorno in cui ti vidi ballare sul sagrato di Notre Dame, io l’ho vista logorarsi, consumata poco a poco da quel fuoco di passione e lussuria che sentivo crescere in me attimo dopo attimo, fino a sentirlo bruciare la mia stessa carne. Come ho potuto pretendere di non cedere all’istinto presentandomi nudo davanti a te?
 
Subito dopo averti comunicato la condanna, stavo per andarmene, ma tu, dannata gitana, tu, bella bocca straniera[1], hai voluto soffiare su quel fuoco!
Ti ho sentita urlarmi contro che non saresti morta, che te la saresti cavata. E mentre vedevo la mia freddezza venir meno, mentre vedevo quella lastra di ghiaccio posta a protezione del mio essere iniziare a sciogliersi per il troppo calore, tu hai continuato, spietata.

 
“Ma che cosa vi ho mai fatto?
Perché voi mi odiate tanto?”[2]
 
Di fronte a quel tuo viso da bambina terrorizzato ma fiero, al tuo dolore e alle tue lacrime, alle tue parole ingenue, ho sentito un violento strappo dentro di me: la barriera si era infranta del tutto.

 
“Non capisci! Questo odio è che... ti amo!”[3]
 
Ebbene sì, prima che potessi rendermene conto, ti avevo confessato ciò che mi ostinavo ancora a non accettare, quel segreto che non ero stato in grado, fino a quel momento, di rivelare neanche a me stesso.
Ed ora sono qui, davanti a te, immobile, immerso in quel silenzio e in quella tensione che sempre seguono una sconvolgente rivelazione, immerso in un’atmosfera così pesante e densa da comprimere il mio corpo fino a farmi male.
Nella mia mente affiora la folle idea di andare fino in fondo, di raccontarti tutto. Che tu possa vedere che è fuoco quello che mi brucia l’anima, piombo fuso il liquido che scorre nelle mie vene, un pesante martello il cuore che batte dolorosamente nel mio petto! E che, magari, tu possa provare pietà per questo misero prete travolto dal peccato...

 
“Un mattino ballavi...”
 
Ricordo perfettamente quel maledetto giorno in cui ti vidi per la prima volta: la tua danza ipnotica e travolgente, la gonna che girava vorticosamente risvegliando in me fantasie ignote e proibite, la tua sovrumana bellezza, quella bellezza che può provenire soltanto dal cielo o dall’inferno[4]... poi l’ossessione, l’ossessione del tuo corpo, l’ossessione di averti...
Do voce a tutte queste immagini, e le urlo a te, Esmeralda, che mi guardi come se non riuscissi a credere alle mie parole.
Perché? Perché non hai pietà di me? Perché è così difficile pensare che anche un prete possa macchiarsi di una colpa? La colpa di essere uomo...
Sfogo tutto il mio rancore e la mia rabbia su di te, che sei la causa della mia perdizione, avvicinandomi alla gabbia e percuotendo furiosamente quelle sbarre di ferro che ti separano da me.
Con uno scatto, ti allontani, fino ad incollarti con la schiena alla parete opposta della tua prigione. Hai l’espressione del terrore dipinta sul volto, e ti comprimi, ti schiacci ancora di più contro il metallo, tentando di aumentare al massimo la distanza fra me e te.
E intanto continuo la mia confessione, e prendo a girare attorno alla gabbia senza riuscire a staccare i miei occhi accecati di lussuria dal tuo corpo.
Tu tremi... Tremi e scivoli lungo le pareti, ti sposti impedendomi di avvicinarmi, come fossimo due calamite che si respingono.

 
“Io rimasi inchiodato a te che non hai, non avrai
mai pietà di me che rabbioso ti amai!”[5]
 
Un altro grido, e un altro colpo violento della mia mano sul ferro. Quel pugno racchiude la crudeltà, la perversione, la frustrazione che voglio urlarti in faccia, che voglio scaricarti addosso.
Solo a questo punto riprendo fiato. Attendo ansioso l’effetto della mia confessione su di te, immobile, pronto ad accogliere in adorazione qualsiasi parola, qualsiasi suono emesso dalle tue belle labbra.
Ma tu, spietata, pronunci quel nome, quel nome maledetto, quel nome indegno di essere pronunciato con tale slancio d’amore, quell’unico nome che annienta ogni traccia di bontà in me: Febo!
Mille lame affilate trafiggono il mio cuore. Il mio sguardo torna torvo.
Odio quel soldato, capace di darti l’universo dell’amore senza che tu glielo chieda.
Odio quel soldato, perché tu, resa cieca dall’amore, non vedi che il suo cuore è vuoto.
Ma soprattutto, odio quel soldato, perché lui è e sarà sempre libero di amare, mentre io, prete, arcidiacono, incatenato all’altare dal voto di castità, non potrò mai averti.
Non posso sopportare oltre la tortura di ascoltare frasi d’amore rivolte ad un altro. Riprendo a colpire violentemente le sbarre, sperando che il loro suono metallico possa sovrastare la tua voce.
All’improvviso, qualcosa attira la mia attenzione: il tuo tono è cambiato. Dal suono dolce e carezzevole che ha appena accompagnato la tua ennesima dichiarazione d’amore per quel Febo, la sento diventare dura e rabbiosa.
Allora torno di nuovo a concentrarmi sulle parole. Parole piene di disprezzo, di odio.

 
“L’assassino sei tu! Morirai, ma di più!
Sarai pazzo e geloso, ma tu
non avrai il mio amore,
quel tesoro no!”[6]

 
E’ la goccia che fa traboccare il vaso.
Ho cercato di parlarti con dolcezza, ti ho confidato ogni mio oscuro segreto, mi sono spogliato del mio onore e della mia dignità pur di riuscire ad ottenere una parola di conforto, di comprensione da te. E invece no! Mi hai sputato in faccia che sono un assassino, che mai mi amerai, che mai vorrai essere mia.
Non avevi mai espresso prima d’ora i tuoi sentimenti per il capitano e per me in modo così ravvicinato. Questa tua durezza, questa tua schiettezza, mi ha fatto comprendere chiaramente che l’intensità di questi sentimenti è uguale: è immensa. Ma è immenso amore per lui... e immenso odio per me.
E’ questo che fa più male, la consapevolezza di questo violentissimo contrasto, dell’impossibilità di invertire i ruoli ai tuoi occhi: nessuno può essere né diventare l’opposto di se stesso...
Il dolore provocato da questo pugno nello stomaco si diffonde, fino ad arrivare al mio cuore. Ma un cuore di ghiaccio non prova dolore, lo trasforma in rabbia, in crudeltà. Un ghigno satanico si dipinge sul mio volto.
Ti desidero. Ti voglio. E sono disposto a giocare qualsiasi carta...

 
“Scegli tu a chi tieni di più:
al patibolo o a me! O la morte o l’amore,
impiccata o svestita, se la morte o la vita!”[7]
 
E’ un patto diabolico, un ultimatum, una minaccia... ma anche l’unica ancora di salvezza, per me e per te.
Un’idea perversa invade la mia immaginazione.
Vedo noi insieme già lontani, avvolti dalle fiamme del peccato, della voluttà, dell’inferno, dar sfogo ai nostri più volgari istinti, soddisfare le nostre voglie, saziarci l’uno dell’altra, senza averne mai abbastanza.
La voglia di te esplode con violenza e, in balia della passione bruciante che mi consuma, apro la porta della gabbia. Non posso più aspettare, sento il fuoco scorrermi nelle vene, il cuore scoppiarmi nel petto, quell’immagine di me e di te travolti dalla lussuria offuscarmi la mente.
Entro piano. Avanzo lentamente.
La perversione mi rende cieco alla vista del terrore impresso sul tuo volto mentre scuoti disperatamente le sbarre di ferro alle tue spalle per tentare di scappare da me.
La perversione mi rende insensibile al contatto delle tue belle mani contro il mio petto, che mi spingono, mi allontanano con tutta la forza che hanno.
La perversione mi rende sordo al suono della tua voce rotta dal pianto e dalla paura che mi urla di andare via.
Devo averti ora. Anche se con la forza. Anche se contro la tua volontà.
Arrivato ad un soffio da te, vedo le tue braccia muoversi nell’ultimo tentativo di respingermi. L’idea che tu possa, con quel gesto, ritardare anche solo di qualche attimo ancora il momento in cui ti avrei toccata, assaporata, mi strazia.
Con rabbia, afferro i tuoi esili polsi e li blocco. Faccio scorrere su di te i miei occhi scintillanti di desiderio, per fissare nella mia mente quell’immagine di te, bella, sottomessa, totalmente esposta e così dannatamente vicina a me.
Varco anche quest’ultimo limite e incollo le mie labbra alle tue spalle brune. E’ un bacio lento, timido all’inizio, di quella timidezza un po’ impacciata caratteristica delle prime volte.
Ma subito il tuo profumo e il tuo sapore inebriano i miei sensi, annientano la ragione e accendono l’istinto. L’istinto dell’uomo, non del prete.
Il bacio diventa sempre più ardito e passionale. Salgo piano verso il tuo collo, lentamente, esplorando ogni centimetro della tua pelle, mentre la mia mano lasciva inizia a percorrerti. Nulla può arrestare il mio cammino, neanche l’eco dei tuoi singhiozzi appena percettibile. Il mio petto è scosso da sospiri smaniosi, le mie labbra accelerano la loro salita, ansiose di incontrare la tua bocca, di assaporarla, di fondersi con lei in meraviglie infinite.
Ma improvvisamente un colpo. Il dolore fisico mi strappa da quel vortice di sensazioni nuove e incredibili.
Mi accascio, e l’attimo prima di cadere, scorgo un uomo, forse il capo degli zingari, prenderti per mano, trascinarti via spossata, quasi priva di forze, e stringerti in un abbraccio fraterno.
Tornano alla mia mente tutte le immagini di questo mio incontro con te, Esmeralda. Prendo consapevolezza di ciò che ho appena perso.
Poi il buio. E cado.

 
 
 
 
 
[1] “tu, bella bocca straniera”: dal testo del brano “Mi distruggerai” del musical Notre Dame de Paris di Riccardo Cocciante
[2] Dal testo del brano “Visita di Frollo a Esmeralda” del musical Notre Dame de Paris di Riccardo Cocciante
[3] Come sopra
[4] “quella bellezza...inferno”: citazione dal romanzo di Victor Hugo
[5] Dal testo del brano “Un mattino ballavi” del musical Notre Dame de Paris di Riccardo Cocciante
[6] Come sopra
[7] Come sopra
 
 
 
 
 
 
Nota dell’autrice
Ciao a tutti! Finalmente sono riuscita a dedicarmi a uno dei miei personaggi letterari preferiti. Il mio intento era quello di farvi immedesimare in Frollo, di farvi vedere i suoi pensieri dall’interno, seguendo passo dopo passo la scena di “Un mattino ballavi” del musical di Riccardo Cocciante; però allo stesso tempo non ho rinunciato ad alcuni riferimenti presenti nel romanzo. Spero vi sia piaciuta.
Recensite se volete, grazie.
 
Arisky
   
 
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