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Autore: crimsontriforce    07/06/2009    1 recensioni
Sì, piccina, quello del gioco.
Riff su Lezioni siciliane: Atrus, 1994, fluff... fluff... eh, magari fluff. Emo!fluff?
Genere: Malinconico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Atrus, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '1. Gente che viaggia nei libri'
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Brava, continuiamo a scrivere di roba che sta due Ere avanti a dove siamo al momento, continuiamo... puah. Se non altro, due Ere avanti a dove sono al momento finisce la serie, quindi è l'ultima volta che posso accampare la becera ignoranza come scusa per inesattezze.
Quinta settimana di Fluffathlon @ fanfic_italia: 1500 parole per un AU di un fluff già postato. Io ho preso il primo, Lezioni siciliane; ho modificato la variabile temporale, dal 1820 al 1994; ho cercato di dare un taglio all'angst che sempre impera in quella parte di storia lì (enfasi sul “cercato”) (si chiama Emo of Ages mica per nulla) e il risultato dovrebbe essere almeno un pochino fluffettoso.
Idealmente prima storia di una raccolta a titolo “L'età di mezzo”, su Atrus e i tempi recenti. Vedremo se altre seguiranno.

E BRAVA, RICORDIAMOCI MALE LE DEADLINE, RICORDIAMOCI. 'fanbagno alla mia testa.


Disclaimer: Gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte né offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da intendersi come tributo di affettuosa stima.






Ultima tettoia accogliente





C'erano giorni in cui Atrus non sopportava di vedere casa. Restava a letto, sepolto sotto più coperte di quante la stagione richiedesse, tendendo l'orecchio e immaginando rumore di passi e di voci provenire dalle serre, dai ponti, dalla cucina. Era solo lo scrosciare delle cascate nelle sue mille forme, attutito dalla spessa parete di pietra fino ad acquisire dimensione umana, e Atrus non era invecchiato tanto da non rendersene conto. Ascoltarli in quel modo lo aiutava ad attendere.
I camminatoi al di fuori gli sembravano estendersi lungo i fianchi di montagne intere, o attraversare sterminate distese d'acqua. E li avrebbe dovuti attraversare per andare dove, poi? A cercare conferma della sua solitudine, stabilendo che, no, non era rimasto proprio più nessuno ad abitare quelle mura? A guardare verso D'ni e sapere che da qualche parte, laggiù, l'unica figlia che gli era rimasta stava soccombendo sotto il peso di tutti i suoi fallimenti?
Preferiva restare sotto le coperte.

C'erano giorni in cui anche quelle pesavano troppo.
Quella particolare mattina rientrava nella categoria e l'aveva visto inerpicarsi fino al suo studio, per la prima volta da settimane intere, in cerca di aria nuova che alleviasse la pressione che sentiva sul petto. Così sedeva sul bordo della piattaforma d'attracco, tracciando con la memoria la scia zigzagante della vecchia funicolare che seguiva il fiume per poi terminare sulla piatta terra rossa, malamente nascosta dalle ultime propaggini del canyon. Tutto finito. Di quel macchinario meraviglioso erano rimasti solo dei grossi fori nella parete rocciosa e la lastra di ferro su cui stava riposando, grato che il sole del mattino l'avesse scaldata senza ancora renderla incandescente.
Studiò la linea dell'orizzonte e pensò che erano troppo rare, per non dire inesistenti, le volte in cui aveva occasione di vedere i tetti di Tomahna spiccare fra quelle rocce frastagliate, abituato com'era a lasciare che il suo tempo scorresse sotto di essi o a universi di distanza. E l'uno e l'altro estremo non contenevano la cura per quel suo male, perché erano nati al fianco di Catherine e sarebbero stati sempre intrisi di lei.

Si stava invece aprendo a un richiamo diverso, l'unico a stagliarsi sullo sfondo di una malinconia uniforme: la prospettiva di abbandonarsi al tranquillo ignoto che lo attendeva appena oltre il costone, all'opera grande di Ri'neref di cui, in duecento anni di vita piena, aveva calcato solo poche pagine.

Quel giorno e sotto quel sole la tensione, fino ad allora indefinita, stava rapidamente prendendo una forma concreta. La via lo chiamava.
Non se lo fece ripetere.


***



Atrus camminava al margine della strada. I suoi passi erano affaticati; col bastone suonava rintocchi regolari, subito dispersi nella distesa di terra bruciata che lo circondava.
Il sentiero polveroso dei suoi ricordi d'infanzia era stato ricoperto da bitume, a sigillare una cicatrice che correva dritta fino all'orizzonte. Pochi veicoli osavano affrontare la strada infinita, sfrecciando al suo fianco con un frastuono cui avrebbe rinunciato volentieri – e tuttavia, curioso!, un motore a scoppio di dimensioni ridotte applicato alla ruota, con possibilità di sterzo. Ingegnoso.
Non sapeva dove fossero diretti i suoi piedi né fino a quando l'avrebbero sorretto. Camminava, accettando i dolori e accettando il riverbero che gli feriva gli occhi come un qualsiasi abitante di superficie. Camminava e lasciava dietro di sé, come un gomitolo sfatto, un lungo filo di quei pensieri in cui Tomahna lo costringeva ogni giorno, aggrovigliato in una ragnatela che non raccoglieva altro che polvere.

I confini del paesaggio sfumarono dolcemente dalla sua attenzione. Alla fine non rimasero che lui, la colata grigia che lo guidava e una striscia di terra ad accompagnarla, graziata ora da due steli d'erba, ora da un cartello inintelligibile, ora da un cespuglio. Il resto era bianco abbagliante.



Cosa vedi, Atrus?
Mi volto e vedo che 'casa' è un concetto, Nanna. Un'idea che prima o poi va stretta ai luoghi che con essa adorniamo.
E davanti a te, bambino mio?
Sono vecchio, Nanna, e non vedo più bene. E ho paura di avvicinarmi per scoprire la realtà dietro a sagome confuse.



I cartelli si fecero più frequenti. Atrus leggeva, ma non capiva. Annunciavano, o promettevano, parole che non riusciva a ricondurre ad alcuna lingua, in un codice che non gli era dato di decifrare.

Un edificio spoglio sorgeva al margine della strada, stretto fra il nulla e il nulla in una vallata che fino a quel momento aveva offerto solo arbusti, sterpi e piante grasse. Era un unico capannone squadrato, verniciato di bianco e di due toni di rosso. “Gas”, informava una scritta in cima alla tettoia che si estendeva dalla costruzione fino quasi a toccare la strada. Le lettere lampeggiavano, ma sembrava essere dovuto a un circuito rotto più che a una precisa volontà del costruttore.
Dietro i vetri erano assiepati utensili e ricambi di ogni genere; davanti, la piazzola era segnata dai contrasti netti delle ombre pomeridiane, vuota e immobile nell'afa fuorché per un dettaglio. L'unico cui Atrus seppe dare un nome e una funzione: un tavolo, una scacchiera, due giocatori.

Un vecchio e una bambina si affrontavano solenni dall'alto di due malferme seggioline pieghevoli. Il tavolo non era più pregiato. Solo i trentadue pezzi spiccavano, figurette di piombo fuso cui l'uso e l'età avevano tolto parte della lacca, ma non la bella fattura. Erano ancora tutti in fila, lucidi e ordinati, tranne un pedone bianco coraggiosamente avanzato di due caselle, pronto a sfidare il mondo.

La bambina aveva il nero e, concentrata come un grande maestro, valutava le possibili difese a quel primo sgarbo, tracciando ogni idea con movimenti affannati di entrambe le mani.
Dimostrava una decina d'anni. Aveva la pelle olivastra, un'enorme maglietta arancione indosso e gli occhi nascosti dietro alle palpebre socchiuse – oltre che dietro a una frangia troppo lunga, che scuoteva truce. Il suo avversario, per contro, poteva far parte dell'ambiente. Aveva già dato il suo contributo e attendeva serafico con le braccia incrociate dietro la nuca, studiando le nuvole all'orizzonte senza dare impressione di curarsi di quando sarebbe toccato di nuovo a lui.

Atrus si avvicinò.
“Prova l'altro pedone”, propose.

La bambina si voltò a squadrare quel vecchietto comparso dal nulla a darle lezioni di scacchi. Senza togliergli gli occhi di dosso, allungò due dita a mo' di pinza sul pedone di donna e restò lì.
“Quello appena più a destra”, consigliò Atrus abbozzando un sorriso. Sentì su di sé anche l'attenzione del giocatore anziano, che dovette giudicarlo innocuo per sé e per la piccola, dato che tornò a rimirare il cielo.

“Perché?”, chiese lei, con le sopracciglia fermamente aggrottate sotto la cascata di capelli neri.
Perché?, si ripeté lui. Perché è divertente restava il suo motivo principe per giocare quella variante, ma ebbe l'impressione che non sarebbe bastato. Se Sirrus gli aveva mai insegnato qualcosa, era che a quell'età uno sguardo serio richiede una risposta seria.
Ci pensò su, grattandosi la barba.

“Perché anche lui controlla il centro, anche se non lo occupa”, spiegò.
Parve bastare.

Il bianco rispose lesto affiancando un altro pedone al primo. Tre secondi di tregua e il turno era tornato al nero. Altra indecisione. Altri arabeschi di mani sulla scacchiera. Chinò la testa da un lato, si scostò la frangia e lanciò un muto appello al suo soccorritore.
“Prova con l'opposto di quel che ha fatto lui, amica mia”, azzardò Atrus, confortato dall'averla vista infine uscire dal guscio.
La bambina seguì il consiglio.
Appena ebbe posato il pezzo, il bianco si sviluppò mettendo in chiaro che ci teneva parecchio, al suo pedone centrale.
Due secondi di tregua e il turno era tornato al nero.
“Signore, puoi restare?”

“Maria, non dare noia al cliente. E vai a chiamare tuo padre”, le disse l'altro, “che qui ci sarà un'auto in panne da andare a ripescare per strada.”
No, no. Niente del genere”, s'intromise Atrus tenendosi sul vago. “Camminavo per diletto e non ho...” non ho una meta? “Non ho fretta.”
“Allora puoi, signore?”
Annuì, indicando il pedone di re.
“Visto, nonno Jack? Può!”
“Almeno alzati e fallo sedere al tuo posto, Maria.”

Le fasi iniziali della partita si svolsero in tutta calma, ognuno a casa sua. Jack giocava veloce e preciso; Atrus prendeva i suoi tempi di riflessione e ne comunicava l'esito alla bambina in modi sempre meno vistosi, così da non usurparle il ruolo di sfidante ufficiale. Si era fatto l'idea che fosse la sua prima vera partita contro il suo maestro dopo un lungo apprendistato e non voleva intromettersi anche sotto l'aspetto formale.
Quando si rese conto che le lettere e i numeri segnati ai lati della scacchiera potevano individuare un punto al suo interno senza possibilità d'errore, iniziò a comunicare alla sua alleata la casa d'arrivo di ogni mossa con gesti delle mani, nascosti all'avversario dallo spessore della scacchiera stessa. Se lei fraintendeva il pezzo da muovere, un colpetto veloce sul tavolo la riportava all'ordine.

La prima presa arrivò molto tardi, seguita da entrambi gli arrocchi: corto per il bianco, lungo per il nero che così tolse il suo re dal lato che già minacciava da lontano, donna e alfieri puntati come segugi.

“Ma così perdo un cavallo!”, lamentò Maria.
“Non preoccuparti, amica mia: da quelle parti hanno altro da fare, ora.”
Il cavallo infiltrato difatti resistette eroico, aprendo la strada a una mossa ancor più stravagante.
“Ma così perdo una torre!”
“Temo di sì”, concesse Atrus. “Ma questo non significa che abbiamo scritto la nostra fine.”

Il sacrificio della torre diede inizio a una breve serie di mosse forzate, a vantaggio materiale del bianco. Quando però Maria spinse l'altra torre in luogo della scomparsa, offrendo anch'essa al massacro, Jack si trovò a osservare la sua posizione con occhio più critico.
Si passò una mano fra i capelli bianchi.
Trattenne il respiro.
Ricominciò a respirare perché era diventato rosso.
E abbassò il suo re in segno di abbandono, in vista di un ineluttabile scacco matto entro la terza mossa.

Prese fiato. Per amore dell'educazione di sua nipote, offrì una stretta di mano all'avversario.
“La ringrazio, signor... Signor?”

“Atrus. Piacere mio”, sorrise loro mentre, muscolo intorpidito dopo muscolo intorpidito, si appoggiava al tavolo per alzarsi.

*

Col Libro già in mano e un acciarino pronto, si girò per guardarli un'ultima volta, nipote e nonno raccolti in un vincolo che non gli sarebbe mai appartenuto.
Non era abbastanza per tenerlo legato a un mondo che era assieme fatiscente e troppo nuovo. Ma era la felicità di un giorno e imparò a tenerla stretta fino a sera.

*

Maria si era rannicchiata a pensare sulla sedia, con i piedini scalzi che sporgevano appena dal bordo e le braccia strette alle ginocchia. Le associazioni di idee le riuscivano sempre difficili. “Isola”, le si era presentato d'istinto, come se seguisse per natura quel nome insolito. Ma poi? Cosa veniva dopo?

Alzò la testa di scatto.
“Isola! Ma, signore, Atrus come quello del...?”

Lo straniero, però, era già andato, inghiottito dalle ombre lunghe della via che si stendeva fino all'occidente.



Illustrazione regalo di Skull Kid!
   
 
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