Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: emme30    15/04/2017    5 recensioni
[Jean/Marco] [Eren/Levi] [Reincarnation!AU]
“Come è successo?”
Jean prende un bel respiro e glielo racconta. Gli racconta che gli incubi ci sono sempre la notte, più numerosi e devastanti di prima, gli dice che si sente oppresso e schiacciato e che non sa come fare. Piange, perché si sente inerme e inutile di fronte a quello che gli sta succedendo, ma va bene così, con Eren può farlo, Eren è l’unico che lo capisce. Anche Eren combatte contro i suoi mostri, la notte.
Si asciuga la guancia bagnata e guarda davanti di fronte a sé. “E quando ho toccato quel ragazzo, quel Marco, sono caduto in uno stato di trance e li ho visti ad occhi aperti, cazzo. Erano lì e c’era tantissimo sangue in giro ed è stato perfino peggio di quelli notturni perché sapevo di essere sveglio e… non so cosa fare,” tira su col naso. “Non so davvero cosa cazzo fare, Eren.”
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Tasting Happiness

 

If Winter comes, can Spring be far behind?
~ P. B. Shelley

 

 

Beep. Beep. Beep.

Stende il braccio, un colpo secco spegne la sveglia e la stanza torna ad essere immersa nel silenzio.

Non che abbia davvero bisogno dell’allarme, dopotutto; sono ore che guarda il soffitto con gli occhi sbarrati in attesa che arrivi l’alba, in attesa di strascicarsi verso un’altra monotona giornata.

Gli incubi gli tengono compagnia, suo malgrado, e agli incubi non interessa farlo riposare dopo una sessione d’esame estenuante. Gli incubi sono l’unica presenza costante, notte dopo notte dopo notte. Gli incubi lo svegliano grondante di sudore e col respiro corto. Gli incubi ci sono sempre stati, fin da quando ha memoria. È certo che non se ne andranno mai.

Si mette a sedere e si stropiccia le palpebre, allungando poi la mano per afferrare il cellulare. Fa scorrere le dita lungo le venature dello schermo rotto e controlla annoiato la chat di gruppo in cui i suoi amici hanno scritto cazzate fino a tarda ora. Legge qualche messaggio, ma poi lo blocca con uno sbuffo.

Abbandona lo smartphone tra le coperte e si trascina in bagno per una doccia, pronto ad essere ingoiato nella monotonia di un altro giorno tedioso.

 

 

È l’inizio del nuovo semestre e la classe di filosofia del diritto è gremita di studenti. Jean si guarda attorno mentre si sfila il cappello rosso dalla testa, sicuro che più di un terzo degli attuali presenti smetterà di venire dopo la seconda lezione.

Prende posto sul lato destro tra le prime file, quello più vicino alla porta, per poter sgattaiolare via il prima possibile. Caccia il cappellino sotto il banco e sfila un blocco di pagine bianche stropicciate dallo zaino, assieme a una penna con il tappo mangiucchiato.  Appoggia un gomito sul banco e il mento sul palmo della mano, fissando annoiato il via vai degli studenti che si siedono, amici che si rincontrano e gente che commenta svogliata l’andamento della sessione invernale.

Jean non aspetta nessuno. I pochi amici che ha frequentano tutti corsi diversi e non ha davvero necessità di farsene di nuovi. Le persone possono essere invadenti, asfissianti e monotone, con i loro problemi e le loro stupide chiacchiere. Jean ha altro a cui pensare, non ha bisogno di caricarsi il peso di altre noie sulle spalle.

Mentre scarabocchia qualcosa nell’angolo in basso del primo foglio, avverte qualcuno che si siede accanto a lui e gli viene naturale sbuffare. Spera solo che chiunque abbia deciso di prendere posto al suo fianco abbia quantomeno la decenza di non infastidirlo.

“Era libero? Mi sono seduto senza neanche chiedere.”

Evidentemente, Jean non è così fortunato.

Annuisce con gli occhi fissi sul suo pezzo di carta, cercando di invogliare il ragazzo che lo ha disturbato a non fargli ulteriori domande.

“Sei di economia?”

A quel punto, Jean si sente quasi obbligato ad alzare lo sguardo, visto che il tipo accanto a lui ha deciso di ignorare il suo comportamento assente e la sua evidente misantropia.

Lo prima cosa che nota sono le lentiggini che gli cospargono le guance arrossate dal freddo; la seconda sono gli occhi scuri che lo guardano curiosi; la terza è un sorriso fin troppo grande per un lunedì mattina.

Jean alza un sopracciglio. “Facoltà di Legge,” mormora, lasciando scorrere gli occhi sul ragazzo che ha di fronte a sé.

“Giusto,” dice lui, sorridendo ancora di più. “Visto che si tratta del corso di filosofia del diritto.”

“Già.”

“Io sono iscritto a filosofia, invece,” continua lui, ignorando il tentativo di Jean di chiudere la conversazione. “Mi chiamo Marco.”

“Jean,” commenta secco, facendo un cenno col capo. “Non pensavo che quelli di filosofia seguissero queste lezioni.”

“Infatti, di solito non si fa... è il mio esame a scelta del secondo anno.”

Jean lo squadra poco convinto. “Ne sei proprio sicuro?”

Marco lo scruta confuso per qualche attimo, ma non riesce a chiedergli spiegazioni perché il professore comincia la lezione ed entrambi si ritrovano a voltare il capo per ascoltare la voce gracchiante che esce dagli autoparlanti.

Jean prende appunti per due ore di fila senza alzare lo sguardo dai suoi fogli, concentrato sulla voce del docente e cominciando ad assimilare concetti e nozioni. Quando il professore pone fine alla lezione, Jean sfoglia soddisfatto le quattro pagine fitte di note prima di cacciare il blocco stropicciato nello zaino, ripescare il cappellino da sotto il banco, afferrare la giacca e avviarsi verso la sua prossima lezione.

E’ solo quando è in corridoio che si accorge che, nella fretta, ha preso da sotto il banco anche un cappello nero di lana che non è decisamente il suo. Deve essere dell’altro ragazzo, di cui ha già dimenticato il nome.

Si guarda intorno, lo cerca nella folla e lo individua poco lontano a parlare con alcune ragazze. Gli si avvicina scocciato, guardando l’orologio e pensando che sta facendo tardi per Diritto Privato.

“Ehi,” prova a chiamarlo, ma il ragazzo lentigginoso non si volta.

Fa roteare gli occhi e scansa un paio di matricole nel corridoio affollato per potersi avvicinare di più.

“Ehi!” lo chiama di nuovo, cercando di ricordarsi il suo nome, ma nulla, il tipo rimane a scherzare con le ragazze e Jean è costretto a mettergli una mano sulla spalla per richiamare la sua attenzione.

Jean lo sfiora e, in un attimo, è buio.

La terra scompare da sotto i suoi piedi e gli incubi, quelli che lo tormentano ogni notte, sono davanti a lui. I mostri sono davanti a lui.

Sono tanti, si avvicinano e Jean ha paura, così tanta paura che non riesce a muovere un solo muscolo. Vede cadaveri fatti a brandelli, avverte l’odore del sangue fresco nell’aria, schizzi che imbrattano le strade e i palazzi, colorano tutto di un rosso vivo accecante. Sente l’olezzo della morte avvicinarsi e non ha neanche la forza di respirare, di gridare aiuto, di pregare Dio di lasciarlo vivere.

Poi, la caduta viene interrotta: il suo sedere incontra il pavimento e la luce dei neon nel corridoio gli fa restringere le pupille. Sente il proprio respiro pesantissimo, come se avesse appena finito di correre una maratona, e avverte il sudore bagnargli la fronte e il retro del collo.

La prima cosa che riesce a mettere a fuoco è una marea di lentiggini su un volto stupito.

“Jean, va tutto bene?”

Il ragazzo - Marco, ora se lo ricorda, gli porge la mano per aiutarlo a rialzarsi, ma Jean non la afferra. Si rimette in piedi tremolante da solo e gli lancia tra le dita il berretto, ignorando gli sguardi curiosi di tutti gli studenti nell’androne.

“Lo avevo preso per sbaglio... è tuo,” borbotta, cercando di controllare la nausea che lo sta facendo sudare ancora di più.

Non riesce a sentire Marco ringraziarlo perché gli volta le spalle e scappa nel corridoio, il cuore che gli batte all’impazzata nel petto.

 

 

 

 

Jean sta ancora tremando quando vede Eren avvicinarsi al sottoscala di metallo sotto il dipartimento di Storia con passo svelto. Lo guarda in volto, ma non dice nulla; sa di essere pallidissimo, visto che ha appena vomitato la colazione.

Eren lo raggiunge e pesca subito una bottiglietta di succo dallo zaino. Gliela lancia, abbandonando la borsa accanto a quella di Jean e sedendosi sul gradino dietro di lui senza dire una sola parola.

Jean beve un paio di sorsi della bevanda dolce e accetta di buon grado la mano di Eren che si posa sulla sua spalla.

“Come è successo?”

Prende un bel respiro e gli dice tutto. Gli racconta che gli incubi ci sono sempre la notte, più numerosi e devastanti di prima, che si sente oppresso e schiacciato e che non sa come fare. Piange, perché si sente inerme e inutile di fronte a quello che gli sta succedendo, ma va bene così. Con Eren può farlo, Eren è l’unico che lo capisce. Anche Eren combatte contro i suoi mostri, la notte.

Si asciuga la guancia bagnata e fissa davanti di fronte a sé. “E quando ho toccato quel ragazzo, quel Marco, sono caduto in uno stato di trance e li ho visti ad occhi aperti, cazzo. Erano lì e c’era tantissimo sangue in giro ed è stato perfino peggio di quelli notturni perché sapevo di essere sveglio e… non so cosa fare,” tira su col naso. “Non so davvero cosa cazzo fare, Eren.”

Il ragazzo rimane in silenzio; Jean sente ancora il calore della sua mano sulla spalla.

“E’ mai successo a te?”

“Sì… una volta sola.”

Jean si volta a guardare il suo volto pensieroso, in attesa di una risposta.

“La prima volta che ho conosciuto Levi,” sussurra, scostandosi i capelli dalla fronte. “Ero nel suo ufficio. Ero andato a fargli un paio di domande sull’esame che avrei sostenuto con lui a fine corso e, per caso, gli ho sfiorato una mano mentre mi passava un libro. E li ho visti... ho visto i mostri, il sangue e la morte.”

“Non me l’avevi mai detto.”

“Li sognavo ogni notte, pensavo fosse una diretta conseguenza.”

Jean annuisce, non sa cosa dire.

“Ho notato una cosa però, poi,” continua Eren. “Gli incubi sono diminuiti da quando ho conosciuto Levi, da quando siamo diventati amici e, soprattutto, da quando… beh, hai capito.”

“Da quando hai cominciato a scoparti il tuo professore?”

Eren gli tira un pugno sulla spalla e Jean vorrebbe sorridere a quel gesto, ma è ancora scosso da quello che gli è appena successo.

“Se devo essere sincero, non so neanche quando è stata l’ultima volta che ho avuto un incubo,” commenta laconico Eren.

Jean si morde il labbro. Deve essere bello poter andare a dormire con la tranquillità di non svegliarsi nel bel mezzo della notte con la fronte imperlata di sudore e atroci immagini di morte davanti agli occhi.

“Forse dovresti provare a fare lo stesso con questo Marco.”

“Portarmelo a letto?” Jean si volta, alzando un sopracciglio scocciato. “Mica sono gay io.”

Eren gli tira un altro pugno. “Diventarci amico, cretino.”

Jean torna a guardare davanti a sé e sente il pallore tornare.

“E se dovessi vederli di nuovo in pieno giorno?” è la questione che gli esce dalle labbra. “Ho paura, Eren. Cosa faccio se li rivedo un’altra volta?”

Eren a quella domanda non sa trovare una risposta; gli posa nuovamente le dita sulla spalla e rimane in silenzio.

 

 

Jean ci mette due settimane a trovare il coraggio di andare a parlare con Marco.

Dopo averlo ignorato ed essersi quasi nascosto da lui, gli si siede accanto un glaciale lunedì mattina. Marco è intento a sfogliare i suoi appunti scritti con una grafia ordinata e non lo nota.

“Posso sedermi?”

Marco lo guarda stupito e gli fa un mezzo sorriso. “Certo.”

Jean mette il cappellino sotto il banco, ripesca il blocco stropicciato e la biro dallo zaino e, con la coda dell’occhio, osserva Marco leggere il suo quaderno. Sotto le lentiggini, è arrossito un poco.

“Mi dispiace per come mi sono comportato quella volta in corridoio.”

Marco si volta di nuovo verso di lui, ma Jean non gli lascia il tempo di replicare. “Stavo poco bene, non c’entravi tu.”

“Quindi… non ti sto antipatico.”

E’ il turno di Jean di alzare le sopracciglia dalla sorpresa. “No, figurati! Sono solo io che sono un… idiota. Mi hai preso solo nella giornata sbagliata.”

Se Marco non è particolarmente convinto da quelle parole, non lo dà a vedere; si limita a sorridere e ad annuire. “Nessun problema, succede a tutti.”

Jean abbozza a sua volta un sorriso e comincia a giocherellare con la penna.

“Ti sta piacendo il corso?” Sa che è una domanda superficiale e abbastanza stupida, ma non ha idea di cosa parlare. Non conosce questo Marco e non sa nulla di lui. Gli sembra un modo come un altro di rompere il ghiaccio.

“Mi piacerebbe se ci capissi qualcosa,” borbotta il ragazzo con una smorfia. “Ora mi è chiaro perché nessuno tra i miei colleghi di filosofia sceglie questo esame per i crediti a scelta.”

“Te l’avevo detto io.”

“Già. Sono davvero tentato di cambiare e sceglierne un’ altra materia.”

Jean ci ragiona su per una manciata di secondi.

“Posso aiutarti io, se vuoi.”

Marco lo guarda stupito. Un’altra volta. E, di nuovo, arrossisce lievemente sotto le lentiggini.

“Davvero?”

“Perché no? Per me la parte di diritto è piuttosto semplice, è solo di filosofia che ho bisogno di un ripasso.”

“A quella posso pensarci io.”

Si scambiano un gran sorriso.

“Ci troviamo in biblioteca per le tre? Ti va?”

Jean annuisce e percepisce la serenità riempirgli il cuore quando Marco lo sfiora e i mostri non oscurano la luce del giorno.

 

 

In biblioteca non c’è un buco libero manco a pagarlo.

“Merda,” impreca Jean, guardando i tavoli pieni di persone. “E adesso?”

“Se ti va… io abito qua dietro, possiamo andare a casa mia per studiare.”

Jean lo fissa pensieroso. “Sicuro non sia un problema?”

“No, figurati,” gli risponde con le labbra piegate all’insù. “Così posso sdebitarmi per l’aiuto e offrirti uno spuntino.”

Jean annuisce; uno spuntino gli sembra davvero un’ottima idea.

 

 

Marco abita da solo a un paio di isolati dall’università. L’appartamento è piccolo ma confortevole, sa di casa e nell’aria c’è odore di pulito.

Studiano per tutto il pomeriggio, bevono una tazza di tè caldo e Jean si strafoga di biscotti al burro, promettendo di comprargliene degli altri per il loro prossimo pomeriggio di studio.

Quando la sera lo saluta, Marco gli sembra contentissimo, anche se Jean gli ha finito i biscotti e lo ha obbligato a spiegargli dieci volte alcuni passaggi dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, che non ha comunque capito e mai capirà.

Si è ritrovato a toccare Marco decine di volte quel pomeriggio, ogni volta sempre con meno timore della precedente perché i mostri non si sono presentati e Jean sente davvero il cuore più leggero.

 


 

 

 

“Basta, mi sta andando in tilt il cervello!” Jean chiude il quaderno e si porta una mano a massaggiare le tempie.

Marco alza lo sguardo dal suo blocco di appunti. “Abbiamo cominciato dieci minuti fa.”

“Ne sei proprio sicuro? Secondo me, stiamo studiando da ore intere,” commenta Jean, facendo scorrere pigramente la home di Facebook sullo schermo venato del suo cellulare.

“Sei arrivato qui alle tre e sono appena le tre e venti.”

Jean abbandona il cellulare sul tavolo cosparso di fogli e libri e sospira. “Oggi non ho voglia.”

“Non…” Jean non capisce perché Marco sembri, tutto a un tratto, imbarazzato. “Non eri obbligato a venire. Cioè, se non hai voglia di studiare e hai di meglio da fare non ti preoccupare e-”

“Ce l’hai Netflix?” Jean lo interrompe e gli chiude in malo modo il quaderno, sfilandogli addirittura la penna dalle mani.

“Sì, perché?”

Jean si alza e si avvicina agli sportelli della cucina. “Vai a mettere un film o una serie tv, io faccio il tè.”

Marco non risponde e non si alza neanche: lo guarda imbambolato mentre traffica con il bollitore, le tazze e le bustine di tè.

“Marco, guarda che se non ti spicci scelgo io cosa vedere, eh. Poi, però, non voglio sentire lamentele.”

“Certo che sei proprio un tipo strano.”

Jean si volta e scrolla le spalle. “Voglio passare il pomeriggio con te, ma non ho voglia di studiare. Che c’è di strano?”

Marco gli fa un sorriso così luminoso che Jean si chiede cosa abbia mai detto di così particolare per meritarselo.

 

 

“Ma se facessimo dieci minuti di pausa davanti a Netflix?”

“Zitto e studia.”

Ma Marco!”

“I tuoi dieci minuti di pausa sono sempre un’ora e mezza di cazzeggio davanti alla tv e abbiamo l’esame tra tre giorni.”

“Uffa, che noia.”

“Ancora un’ora, dai… poi puoi stenderti sul divano e alzarti domani mattina.”

“Lo faccio solo ed esclusivamente perché me lo chiedi tu.”

 

 

Jean sta fissando la porta dello studio del professore da dieci minuti ormai, incapace di distogliere lo sguardo. E’ tremendamente in ansia, nonostante abbia già sostenuto l’esame e si sia guadagnato un meritato trenta con lode.

La porta si apre e, in un secondo, è in piedi, gli occhi a cercare il volto di Marco per sapere il prima possibile il voto della prova orale appena sostenuta.

Quando lo vede sorridere, Jean non resiste: gli va incontro e lo abbraccia, cogliendolo di sorpresa.

Marco gli stringe le braccia attorno alla vita e Jean chiude gli occhi, inspirando a pieni polmoni. Ha un buon profumo.

Quando si allontana da lui, hanno entrambi le guance un po’ rosse per quel gesto così inaspettato.

“Comunque, mi ha dato anche la lode,” dice Marco, sistemandosi la cartella sulla spalla per spezzare la tensione che si è formata.

“Non avevo dubbi… cazzo, sapevi tutto.”

“Tutto merito tuo! Non avrei capito metà del corso senza il tuo aiuto!”

Jean alza le spalle e recupera lo zaino. Si avviano verso l’uscita a passo lento, parlando dell’esame e delle domande del professore.

“Sai,” esordisce Marco poco più tardi, quando sono entrambi seduti sul divano di casa del primo a festeggiare i loro trenta e lode con una montagna di cibo cinese e Netflix acceso. “Anche se abbiamo passato filosofia del diritto, puoi venire comunque qui il pomeriggio per studiare. O per guardare Netflix o… per fare quello che vuoi. A me fa piacere.”

Jean lo guarda da sopra il suo raviolo. “Lo so, sono fantastico. La gente fa la fila per rimpinzarmi di cibo.”

“Guarda che sono serio.”

“Lo so, pure io.”

Marco gli tira una gomitata e Jean ridacchia, masticando piano il raviolo.

“Io lo davo per scontato, non mi serviva un invito. Siamo amici, no?”

Marco gli sembra così felice che quella sera gli lascia persino decidere cosa vedere.

 



 

Jean decide di chiederglielo mentre stanno studiando.

“Tu sei gay, vero?”

Marco smette di scrivere e lo guarda incuriosito. Posa la penna sul quaderno e Jean lo imita, appoggiandosi allo schienale della sedia.

“Pensavo che lo avessi capito,” mormora stupito. “Sì, comunque.”

“Volevo la conferma,” commenta Jean con un tono leggero, perché Marco sembra essersi irrigidito di colpo.

“È per caso un problema?”

Marco gli pare improvvisamente insicuro e Jean un po’ si maledice per la sua costante mancanza di tatto.

“Se pensi che per me lo sia, ti tiro il libro dritto in fronte.”

Marco fa un piccolo sorriso e scrolla le spalle, ma non smette di guardarlo.

“Perché ti serviva la conferma?”

Jean scuote la testa. “Stamattina c’erano due tipe sedute accanto a me che parlavano di quanto fosse ‘bello il tuo culo’,” mima addirittura le virgolette in aria. “E bada bene che sto quotando quello che ho sentito.”

“Ok? E… quindi?”

“E quindi sono intervenuto e ho detto loro che potevano scordarselo, visto che sei gay.”

Marco alza un sopracciglio, chiaramente divertito.

“E loro?”

“E loro mi hanno risposto tutte impettite che non era vero, che ero solo geloso, ma solo perché a una di queste io avevo chiesto di uscire e mi aveva detto di no. Hanno aggiunto che ti avevano visto con una tipa e quindi mi sbagliavo nel sostenere che tu fossi gay.”

Marco ridacchia e Jean continua il suo ragionamento.

“Solo che poi ci ho pensato e sai... non sei uno che parla troppo di ragazzi o ha mai menzionato un ex in particolare e boh, mi sono venuti i dubbi, nonostante ti conosca come le mie tasche,” spiega, portandosi la tazza di tè caldo alle labbra. “Sai com’è, non si può mai sapere.”

Marco sospira, ma sorride. “Al momento, sto bene così come sto.”

Jean annuisce.

Tornano a scrivere in silenzio, ma Jean non riesce a concentrarsi. Alza lo sguardo dal foglio e lo scruta.

“Non è che hai una cotta per me, vero?”

Marco lo fissa incredulo. “Scusa?”

“Non ti biasimo. Sai, sono proprio un figo!”

“E’ giornata di confessioni oggi?”

“Dipende... hai qualcosa da confessare?”

Marco ride e scuote la testa. “Non ho una cotta per te, Jean. Sei il mio più caro amico.”

Jean sorride. “Beh, meglio così. Non potrei mai pensare di perderti per un motivo simile, tengo troppo alla nostra amicizia.”

Marco lo guarda in silenzio per qualche istante. “Già,” dice, passandosi una mano tra i capelli. “Ora possiamo tornare a studiare o hai altre domande imbarazzanti da farmi?”

Jean ridacchia, però torna a guardare il libro.

E se Marco non ride più per il resto del pomeriggio, Jean dà la colpa al fatto all’esame pesante e complicato che deve dare a breve.

 

 

“Ti va di rimanere a cena? Ordiniamo una pizza.”

“Ho già chiamato, ce la portano alle otto.”

“Dovrei davvero cominciare a farti pagare l’affitto.”

“Non oseresti!”

“Che pizza mi hai preso, almeno?”

“La tua preferita.”

“E come sai qual è la mia pizza preferita?”

“Mi ricordo che una volta mi hai detto che vai pazzo per la pizza con le olive.”

“Ma te l’avrò detto mille anni fa.”

“E quindi? Io mi ricordo tutto quello che dici.”

“Tranne Hegel.”

“No, ecco... quello non me lo ricorderò mai.”

 



 

“I tuoi amici sono molto simpatici, sai?”

Jean non sa neanche perché sorride a quel commento.

“Anche se non mi aspettavo proprio di incontrare il professor Ackerman! Pensavo che le voci su di lui ed Eren fossero solo pettegolezzi.”

“E invece hai visto coi tuoi stessi occhi quanto sono disgustosi.”

Marco gli tira un buffetto sul braccio. “Non è vero, dai! Sono solo innamorati.”

Jean fa roteare gli occhi a quell’esternazione. “Possono fare gli innamorati anche senza pomiciare di fronte a tutti.”

“Ma quanto sei noioso, un bacio solo si sono scambiati.”

“Quello basta e avanza.”

Camminano in silenzio per qualche attimo.

“Devono avere proprio un bel rapporto, però.”

Jean lo guarda interrogativo.

“Non so come spiegarti,” Marco si porta una mano tra i capelli e Jean è sicuro che stia arrossendo, nonostante non possa vederlo per via del buio della sera. “Si guardano come se si conoscessero da una vita intera, come se nella stanza insieme a loro non ci sia nessuno.”

Jean non sa cosa rispondere, perché sa che ha pienamente ragione.

“E’ normale che sia un po’...” Marco tentenna, come se non sapesse che parola usare. “Invidioso?”

“Cosa avresti da invidiare loro?”

“Sembra abbiano una storia d’amore epica,” fa una pausa. “A te non piacerebbe avere qualcosa del genere?”

“A me piacerebbe che qualcuna me la dia, ogni tanto.”

Marco gli dà una spallata scherzosa e Jean ridacchia.

Camminano vicini in silenzio finché non arrivano al punto in cui devono dividersi per tornare ognuno alla rispettiva dimora. Si guardano e a Jean sembra quasi che gli occhi di Marco brillino di luce propria. Dà tutta la colpa alle birre che ha bevuto quella sera.

“Non ti preoccupare,” gli dice, mettendogli una mano su una spalla. “Prima o poi arriverà un amore epico pure per te. E sicuramente con uno più simpatico di Levi.”

Marco ride di gusto. “Grazie Jean... ci vediamo domani?”

“Ovvio, ormai ho la residenza a casa tua.”

Si salutano con un sorriso.

 

 

Jean li vede arrivare da lontano. Si ergono altissimi sopra le case e lo stanno cercando. Cercano le sue carni, il suo sangue, la sua vita.

Vuole correre, ma non ci riesce. I muscoli non rispondono alla paura che gli sta attanagliando lo stomaco.

E’ pietrificato e i mostri si avvicinano sempre più grossi, più alti.

L’odore della morte e del sangue lo pervade; sa che è la fine, sa che manca poco, e non ha mai avuto così tanta paura in vita sua.

Urla, urla con tutto il fiato che ha in gola.

Apre gli occhi quando dà una spallata sul pavimento e sente la voce preoccupata di Marco chiamare il suo nome. Si mette a sedere e si porta una mano ad asciugare il sudore sulla fronte. Sente di avere il fiato corto, come se avesse appena fatto una corsa.

Le lentiggini di Marco sono la prima cosa che riesce a mettere a fuoco.

“Jean, va tutto bene... ci sono qui io.”

Solo quando Marco lo abbraccia si rende conto che sta tremando violentemente.

Avvolge le braccia al petto del ragazzo e nasconde il viso nell’incavo del suo collo. Si asciuga le lacrime sul colletto della sua felpa e cerca di nascondere un singulto, ma Marco comincia ad accarezzargli la schiena e Jean si sente autorizzato a lasciarsi andare completamente.

Piange come un bambino tra le braccia di Marco, mentre lui gli passa una mano sulla schiena e gli sussurra in un orecchio che non è solo, che c’è lui al suo fianco.

Più tardi, davanti a una tazza del tè preferito di Jean, il ragazzo gli confessa degli incubi, dei mostri che non lo fanno riposare e che lo tormentano sin da quando ha memoria. Non gli dice però di quella volta che li ha visti in pieno giorno quando lo ha conosciuto; l’espressione di Marco è già fin troppo preoccupata così.

Lui lo lascia parlare, gli lascia raccontare tutti gli orrori che ha visto e che vede, lo lascia piangere un altro po’ e Jean non ha vergogna di farlo. Non lo interrompe neanche una volta.

Quando Jean non sa più cosa dire e il tè si è raffreddato nella tazza, Marco lo fa distendere sul divano e gli fa appoggiare il capo sul suo grembo. Lo copre con la sua coperta di pile preferita e comincia a passargli le dita tra i capelli.

Jean lo fissa interrogativo, ma Marco gli sorride.

“Dormi.”

“Ho paura.”

“Veglio io su di te, dormi.”

Jean lascia che le carezze di Marco lo facciano addormentare.

Per la prima volta, dopo tanto tempo, i mostri non disturbano il suo riposo e, quando Jean si sveglia ore più tardi, fa davvero fatica a non guardare Marco con occhi nuovi.

 

 

“Sono abbastanza sicuro di avere il malocchio.”

“Devo davvero ricordarti che una cosa del genere non esiste?”

“E allora come mi spieghi il fatto che sono mesi che vado in bianco?”

Jean alza lo sguardo dal cellulare e poi glielo passa, sospirando. “Leggi qua, pure questa mi ha dato un due di picche. Che cazzo di sfiga.”

I libri sono ormai dimenticati sul tavolo della cucina e i due si sono sdraiati sul divano. O meglio, Jean è sdraiato sul divano con i polpacci sulle cosce di Marco, seduto normalmente dall’altro capo.

“Forse non sono le tipe giuste per te?” azzarda Marco, restituendogli il cellulare.

“Ma io sono un figo, cioè... guardami!” Si passa una mano tra i capelli e si mette seduto. “Oggettivamente, e tu puoi dirlo perché sei gay e sei mio amico, sono un bel tipo, no?”

Non capisce perché Marco diventi tutto rosso. “Beh, direi di sì. Oggettivamente.”

“Ecco, vedi!” esclama, mettendosi a sedere a gambe incrociate accanto a lui. “E allora perché non me la dà nessuna?”

“Non ne ho idea, però…” Marco fa una pausa e si mette a sedere in modo più composto. “Secondo me, chiunque sarebbe fortunato ad averti.”

“E’ quello che dico sempre anche io, cazzo,” Jean sospira e abbandona il cellulare sul divano.

Rimangono in silenzio un paio di attimi, in sottofondo il film che stavano guardando prima che Jean se ne uscisse con quel discorso.

“Sai cosa, però? Potrebbe essere che qualcuno abbia messo in giro brutte voci sul mio conto.”

Marco lo guarda poco convinto. “Del tipo?”

“Beh, quando mi ha mollato, la mia ex ha detto che baciavo da schifo. E se avesse messo in giro lei questa voce?”

Marco ride. “Lo trovo altamente improbabile.”

“Ma quella era una pazza, ce la vedo a fare una cosa così.”

Jean guarda il suo amico scuotere la testa divertito e tornare a guardare il film, ma i suoi occhi non si fissano sulla tv.

“Potresti smentirmi anche su questo.”

Marco si volta lentamente, guardandolo confuso. “...come scusa?”

“Potrei mostrarti la mia tecnica e tu potresti dirmi se bacio bene oppure no.”

“E come pensi di fare una cosa simile?”

“Baciandoti?”

Jean non capisce perché Marco sbarri gli occhi e diventi praticamente viola in volto. Così come non capisce la sua risposta.

“Assolutamente no.”

“E perché, scusa? Io e te siamo amici.”

“Proprio perché siamo amici è un no, Jean, andiamo! Gli amici non si baciano.”

Jean alza un sopracciglio. “Non ti ho mica chiesto di scopare! Un bacio solo, cosa vuoi che sia.”

“Ma tu… tu non sei gay!”

“No.”

“E allora perché vuoi baciare proprio me? Ti pare un gioco? Una presa in giro?”

Jean inclina la testa di lato e lo osserva per un attimo. Marco è diventato un pomodoro e sembra a disagio, quasi imbarazzato.

“Ovvio che no, non potrei mai prenderti in giro,” gli mette una mano sulla spalla. “Ma non capisco perché stai reagendo così! E’ solo un bacio e io neanche ti piaccio. Poi, se la cosa ti dà così fastidio non preoccuparti... la mia era solo un’idea.”

Marco si morde un labbro e fa un sospiro sconfitto.

“Ok.”

Jean si avvicina a lui con un sorriso, ignorando il cuore che ha iniziato a battere più veloce nel petto. Guarda i grandi occhi scuri di Marco per qualche secondo, prima di avvicinarsi alla sua bocca. Chiude le palpebre un attimo prima che le sue labbra lo sfiorino.

Lo bacia piano, quasi con timore, trattenendo il respiro e senza approfondire il contatto.

Si allontana da lui per un secondo, apre a malapena gli occhi e quasi gli manca un battito quando vede l’espressione di Marco.

Gli bacia il labbro inferiore, poi quello superiore, si sposta verso l’angolo della bocca e poi si allontana di nuovo per fissarlo in volto.

Poi, Marco dischiude di poco le labbra e Jean si sente autorizzato ad avventarsi su di esse. Gli porta una mano tra i capelli e gli fa aprire la bocca con la propria, incontra la sua lingua e la accarezza piano, cercando di capire cosa può o non può fare e registrando tutte le più piccole reazioni di Marco, il suo sospiro più marcato, il calore del suo palmo appoggiato sulla sua spalla e il modo cauto in cui sta ricambiando quel gesto.

Jean si sente intossicato, perché Marco è ovunque. Sente il suo buon profumo circondarlo, il suo sapore sulla lingua mischiato al tè che hanno bevuto poco prima, la sua mano calda che gli sta accarezzando il collo. E’ una sensazione nuova, che non ha mai provato prima.

Lo bacia più profondamente adesso, cercando avido la sua lingua, passandogli le dita tra i capelli e sfiorandogli la guancia con l’altra mano, protendendosi verso di lui nonostante gli sia seduto accanto.

Non riesce a staccarsi da quelle labbra; ci prova, ma i sospiri di Marco e il rincorrersi delle loro lingue non glielo lasciano fare. Marco sta ricambiando il suo bacio con lo stesso sentimento di Jean, con la stessa voglia di Jean.

Infine, Marco si allontana ed è, suo malgrado, costretto a lasciarlo andare. Schiude le palpebre come se si svegliasse da un bellissimo sogno. Marco ha le guance rosse, le labbra umide e gli occhi che brillano.

Il ragazzo si schiarisce la voce, facendo scoppiare così la bolla in cui erano rinchiusi.

“Direi che… baci bene. Puoi… puoi stare tranquillo.”

A Jean, però, non basta, non basta più. Alza la mano, gliela appoggia alla guancia e fa scorrere il pollice sul suo labbro inferiore, ancora bagnato dalla sua saliva.

“Voglio continuare a baciarti.”

Non gli sfugge come il pomo d’Adamo di Marco vada su e giù nervosamente.

“Pensavo che non fossi gay.”

“E io pensavo che tu non avessi una cotta per me.”

La stanza si illumina quando Marco gli sorride e si china per baciarlo.

 

 

Jean scopre che baciare Marco gli piace davvero un sacco, sicuramente più di quanto gli piaccia studiare o guardare Netflix. Gli piace sentire le sue grandi mani calde sui fianchi, il suo tocco leggero sul volto, il modo dolcissimo che ha sempre di accarezzargli i capelli, il viso o le labbra. Si sente inebriato dalla sua presenza, anche quando è a cavalcioni su di lui sul divano a far finta di vedere la tv.

Marco gli accarezza la schiena coperta dalla camicia lentamente e Jean ricambia, tenendogli il viso tra le mani e assecondando il movimento della sua bocca.

Ogni volta che si allontanano, Marco lo guarda sempre come se fosse la cosa più bella che abbia mai visto e Jean non sa davvero cosa pensare. Spera solamente di avere lo stesso sguardo dipinto in volto, perché Marco è perfetto e si merita qualunque cosa bella di questo mondo.

“Continui a sorprendermi,” mormora a un certo punto il ragazzo contro la sua bocca.

Jean alza un sopracciglio. “Lo so, è la mia specialità.”

La risata leggera di Marco riempie lo spazio tra loro due. “Continuo a pensare che prima o poi darai di matto e tu invece sembri la persona più tranquilla del mondo.”

“Perché dovrei dare di matto?”

“Perché fino a due giorni fa pensavi di non essere gay.”

Jean gli mette le mani sulle spalle e comincia a giocare con l’attaccatura dei capelli dietro al collo. “Non ci avevo pensato, onestamente,” mormora pensieroso. “Mi sa che un pochino gay lo sono.”

“Solo un pochino?”

Marco è chiaramente divertito e Jean si deve trattenere per non tornare a baciare quel sorriso.

“Forse un po’ tanto, visto che non riesco a smettere di pensare a te.”

Le lentiggini di Marco spariscono dietro l’improvviso rossore che colora le sue guance.

“Davvero?”

Jean gli lascia un bacio leggero sulle labbra. “Davvero.”

Marco gli passa una mano tra i capelli e lo trascina verso la sua bocca per baciarlo e togliergli il fiato.

“Da quanto tempo sei cotto di me?” gli chiede Jean quando si staccano per respirare.

Marco ridacchia e scuote la testa. “Non vuoi saperlo davvero.”

Certo che voglio saperlo davvero.”

“Ma non prendermi in giro!”

“Non potrei mai. Sono un tale angioletto...”

Marco ride e Jean è sicuro di poter passare ore ad ascoltare quel suono senza stancarsi.

“Diciamo… fin da subito.”

“Da quando ho preso residenza qui?”

“Prima.”

“Dall’esame di filosofia del diritto?”

“Prima.”

“Da… quando ho cominciato a venire qui a studiare?

“Te l’avevo detto che mi avresti preso in giro.”

“Non ti prendo in giro, dai... da quanto tempo?”

Marco sospira e gli passa una mano sulla guancia.

“Praticamente dalla prima volta che mi sono seduto accanto a te quel lunedì mattina, alla prima lezione di filosofia del diritto.”

Jean spalanca gli occhi, stupito.

“Ti ho visto appena entrato in aula e non lo so… non so cosa mi è preso. Sapevo solo che volevo parlarti, conoscerti ed entrare nella tua vita. Mi sarebbe bastato anche solo essere tuo amico,” gli accarezza la guancia con dolcezza e Jean è abbastanza sicuro di essere a tanto così dallo sciogliersi completamente tra le sue braccia. “Non pensavo sarei stato così fortunato.”

Jean gli prende delicatamente il volto tra le mani. “Marco Bodt,” esordisce, guardandolo dritto negli occhi. “Sei il ragazzo più perfetto di questo mondo, letteralmente un angelo sceso in terra. Tra i due, sono io quello fortunato.”

Gli occhi di Marco sono lucidi, il suo sorriso splendente e il cuore di Jean sta per scoppiare.

Lo bacia di nuovo, perché davvero, che altro può fare?

 

 



 

La prima volta che si spingono oltre i semplici baci, Jean è impacciato e nervoso. Ha paura di sbagliare tutto, che Marco abbia dei ripensamenti e che non siano compatibili a quel livello.

Si fa venire i dubbi sul suo fisico e sul fatto di non essere adeguato, così chiude gli occhi imbarazzato quando Marco lo fa cadere sul letto e gli sfila piano i pantaloni e i boxer. Desidera Marco, lo desidera così tanto che le ultime sere si è addormentato mormorando il suo nome mentre con una mano si dava piacere. Eppure, in quel momento, è terrorizzato all’idea di non essere abbastanza.

Ma Marco è davvero il ragazzo perfetto e lo rassicura con uno sguardo, con un bacio e con una carezza. Gli dice che per lui è la cosa più bella che esista al mondo e che se non se la sente possono aspettare tutto il tempo che vogliono.

Jean, però, è testardo, quindi si concentra su quello sguardo rassicurante e gli dice che vuole farlo, che vuole davvero compiere quel passo avanti con lui.

Marco lo tocca e Jean si dimentica come formare parole di senso compiuto.

Gli sembra di essere cera tra le sue mani bollenti che lo sfiorano, lo guidano, lo rassicurano e lo fanno sentire al sicuro. In quel momento, c’è solo Marco e Jean non riesce quasi a respirare.

Chiama il suo nome ad alta voce più e più volte. Marco, Marco, Marco, Marco, Marco. Non riesce a smettere di dirlo, perché Marco è ovunque e Jean non ha mai provato quel tipo di sensazioni con nessuno.

Si lascia andare inarcando la schiena, guardando fisso il soffitto e stringendo forte le lenzuola tra le dita. Sulle sue labbra, ancora quel nome e nella sua mente un unico viso, un unico sorriso.

Quella notte, tra le braccia di Marco, Jean riposa come mai ha riposato in vita sua.

 

 

Dio, quanto sei bello.”

“Puoi anche chiamarmi Jean, eh.”

“Il tuo ego non riposa proprio mai?”

“Perché dovrebbe? In fondo, vai matto pure per il mio ego.”

“Purtroppo.”

“Per fortuna, vorrai dire.”

 

 

Se c’è una cosa di cui Jean sa non riuscirà mai a stancarsi è il sorriso stupito e meravigliato di Marco quando lo va a prendere a fine lezione.

Jean ha imparato che i sorrisi di Marco sono tantissimi e tutti diversi. C’è quello quando lo saluta la mattina dopo che è rimasto a dormire da lui, luminoso come il sole anche se fuori piove. C’è quello rassegnato quando Jean chiude i libri annoiato e si sistema sul divano. C’è quello imbarazzato quando Jean lo sorprende con qualche frase dolce e stucchevole. C’è quello divertito quando stanno scherzando, dicendo stupidaggini. C’è quello paziente quando i suoi amici li prendono in giro. C’è quello innamorato quando sono avvolti dalle lenzuola e nulla più.

E poi c’è quello meravigliato e stupito quando Jean lo sorprende con qualche gesto inaspettato, come appunto aspettarlo un’ora e mezza in università per tornare a casa assieme.

Marco gli va incontro in fretta quel pomeriggio e Jean lo saluta portandogli una mano su una guancia e baciandolo sulle labbra.

“Cosa ci fai qui?”

Jean abbassa la mano e intreccia le dita con le sue. “Ti aspettavo per andare a casa.”

Ed ecco un altro sorriso, diverso da tutti gli altri; uno di quelli che Marco fa invece di dirgli che lo ama davvero tanto. E Jean lo sa, ma non perché glielo abbia ancora confessato in qualche modo. Lo sa perché ha la stessa identica espressione in volto in risposta a quel sorriso.

 

 

“Ti fermi per cena stasera?”

“Secondo te dove altro dovrei andare?”

“A casa tua?”

“Qui è meglio.”

“Perché casa è dove sono io?”

“Perché casa è dove ci sono i ravioli al vapore.”

“Ah.”

“E dove ci siamo io e te.”

“...Quanto hai ancora da studiare?”

“Ho finito poco fa, perch-ehi, non tirarmi! Arrivo, arrivo! Piano con la camicia che è nuov-”

 

 

L’odore della morte è una presenza costante nei suoi incubi, come lo è pure quello del sangue appena versato. Questa volta, però, c’è qualcosa di diverso, qualcosa che Jean non ha mai sperimentato.

Non c’è traccia dei mostri.

Jean si guarda intorno, eppure non li vede da nessuna parte. Non percepisce la loro presenza, non vede i loro volti agghiaccianti e non sente le loro urla.

C’è silenzio e, in qualche modo, è ancora più terrificante.

La cittadina dei suoi sogni, sempre la stessa, è deserta. Le strade sono imbrattate di sangue e i palazzi sono in rovina, come se fosse appena arrivato un terremoto.

Sente il suono dei suoi passi rimbombare nel silenzio e, inevitabilmente, si sente attratto verso un punto preciso.

Si ferma quando vede il cadavere di un uomo.

Cade a terra quando posa gli occhi sul suo viso.

Marco. Vorrebbe urlare il suo nome, vorrebbe correre verso di lui, vorrebbe piangere.

Ma non ci riesce, perché Marco è morto e di lui rimane solo un corpo senza vita, sul suo volto l’ombra di uno dei sorrisi in cui Jean ama perdersi.

Prova a muoversi, ad andare verso di lui, ma i suoi muscoli non reagiscono. Riesce solo a rimanere fermo lì, a fissarlo distrutto mentre un dolore che mai ha provato prima gli dilania il petto.

Marco, Marco, rispondimi, non puoi essere morto.

Prova a respirare ma non ci riesce, l’aria gli viene risucchiata via dai polmoni.

Marco, aiutami, Marco!

Vorrebbe chiudere gli occhi, ma non ci riesce. Il corpo dell’amore della sua vita rimane lì inerme, davanti ai suoi occhi.

Marco, Marco, Marco, Marco.

Vuole gridare, ma non ci riesce. Non ha aria nei polmoni, sta soffocando e l’unica cosa a cui riesce a pensare è Marco.

Marco!

Apre gli occhi, scatta seduto e quell’immagine tetra scompare; ad avvolgerlo, la familiarità della camera da letto e le lenzuola impregnate del loro odore.

“Jean, cosa succede?” Il palmo caldo di Marco gli accarezza la spalla nuda e la sua voce addormentata arriva lontana al suo orecchio.

Si volta e gli prende il viso tra le mani. È buio, ma riesce lo stesso a vedere i suoi occhi nella penombra.

“Marco…” Al suono tremante della sua voce, si chiede quando ha cominciato a piangere. “Marco, sei vivo…”

“Jean…”

“Marco, ti prego, non lasciarmi,” si getta tra le sue braccia. “Marco, ti prego, ho bisogno di te,” lo stringe forte. “Niente ha senso senza di te,” e sente Marco che ricambia la sua stretta. “Ti prego, non lasciarmi, ti prego...” I singhiozzi disperati gli stanno togliendo il respiro. “Ti prego, Marco, ti prego.

“Jean, sono qui.”

“Non te ne andare, non posso vivere senza di te. Ti amo così tanto, non lasciarmi.”

Marco gli prende il viso tra le mani e prova ad asciugargli le lacrime. “Jean, guardami... sono qui, mi vedi? Non vado da nessuna parte.”

Gli sfiora il volto con la punta delle dita, ma non riesce a smettere di piangere. “Marco…”

“Sono qui, amore mio. Sono qui.”

Jean lo bacia ed è un bacio salato e disperato, perché il Marco del suo sogno è ancora davanti ai suoi occhi e sovrasta quello in carne ed ossa che è lì con lui e lo abbraccia.

“Marco, ti prego, non lasciarmi. Ti amo Marco, non lasciarmi, ti prego…”

Continua a ripetere questa preghiera tra le lacrime, avvolto in un abbraccio strettissimo, nel tentativo di scacciare quell’immagine così devastante.

Si addormenta singhiozzando, cullato dalle braccia di Marco.

 

 

Mai si sarebbe aspettato di suonare il pulsante del campanello sotto la dicitura “Ackerman” alle sette e mezza del mattino.

Jean aspetta paziente di fronte alla porta, le mani cacciate nelle tasche.

Quando Levi apre l’uscio con la camicia mezza aperta, non commenta il suo volto sconvolto e sull’orlo del pianto, le sue profonde occhiaie o il capo quasi nascosto dal cappuccio della felpa.

“Entra, te lo chiamo,” è tutto quello che si limita a dire.

Jean non ha tempo di ammirare il meraviglioso arredamento di casa di Levi; si siede sul divano di pelle e aspetta.

Vede l’uomo entrare in una camera e uscirne poco dopo, tornando ad abbottonarsi i polsini della camicia e scomparendo in quella che Jean suppone sia la cucina.

Eren emerge da quella stanza qualche attimo dopo, sbadigliando e grattandosi il capo, in boxer, canottiera e a piedi scalzi. La sua espressione muta immediatamente non appena vede il volto di Jean. Si siede sul divano di pelle, portandosi una coperta attorno alle spalle, e rimane in silenzio.

Levi spunta dalla cucina con due tazze fumanti tra le mani. La prima la porge a Jean, la seconda ad Eren, il quale lo ringrazia dandogli il buongiorno e facendolo chinare per un bacio.

“Io vado,” dice poco dopo l’uomo, infilandosi la giacca e tornando a baciare Eren. Jean distoglie lo sguardo e fa finta di non sentire ciò che si mormorano, bevendo un sorso del suo tè caldo.

Non appena la porta si chiude, Jean sente le lacrime tornare a pizzicargli gli occhi e si chiede come possa essere possibile, visto che si sente prosciugato da ogni liquido.

“Ho visto Marco… morto,” è l’unica cosa che riesce a dire, mentre le lacrime tornano a bagnargli il viso

Eren rimane in silenzio; sa che non ha finito.

“Ieri sera abbiamo fatto l’amore per la prima volta e stanotte ho sognato il suo corpo senza vita e la consapevolezza che non fossi riuscito a salvarlo. È stato…”

Non riesce a continuare. Appoggia la tazza sul tavolino, si porta le mani a coprirsi il volto e ricomincia a piangere. Eren non dice nulla. Si avvicina a lui, gli porta un braccio attorno alle spalle e lo lascia sfogare.

“Nel mio ultimo incubo,” gli dice il ragazzo poco più tardi, porgendogli un fazzoletto. “Ho sognato la morte di Levi.”

Jean tira su col naso.

“È stato devastante. Moriva tra le mie braccia e non riuscivo a dirgli che lo amavo. Mi sono svegliato in un bagno di sudore e tremante. Levi, però, era vivo accanto a me, preoccupato per come mi ero svegliato e… ho pianto fino al mattino successivo e lui non mi ha fatto domande. Mi ha abbracciato e basta.”

Jean annuisce. “E poi gli incubi sono scomparsi?”

“Completamente.”

Rimane in silenzio e si asciuga la faccia con le maniche della felpa, la quale, per inciso, non è nemmeno la sua.

“Hai smesso di vederla?”

“Vedere cosa?”

“La sua morte,” sussurra tetro. “Ogni volta che chiudo gli occhi, lo rivedo in una pozza di sangue, senza…”

Non riesce a dire altro ed Eren non risponde.

“Tu la vedi ancora.” E quella di Jean non è una domanda.

“No, non l’ho mai più sognata. Ma spesso mi capita di ripensarci, magari quando litighiamo e non ci parliamo per un po’,” commenta Eren con un sospiro. “E’ come se fosse una sorta di monito atto a ricordarmi che non devo sprecare il mio tempo ad essere arrabbiato e che, senza Levi, io proprio non... funziono.”

Jean si porta una mano tra i capelli e non ha davvero bisogno che Eren si spieghi ulteriormente, perché anche per lui è così: senza Marco non riesce a vivere, è come se gli mancasse un pezzo.

“Con il tempo, vedrai che sarà più semplice e riuscirai a metterti tutto alle spalle. Cerca di apprezzare ogni singolo minuto, perché non si può tornare indietro e il tempo che sprechi adesso non lo riavrai mai più.”

Jean annuisce, visibilmente più calmo.

“Sembra quasi…” mormora stringendosi nella felpa di Marco. “Si tratti di un’altra vita. Questi incubi e tutto il resto, dico.”

Eren fa un sorriso amaro e gli mette una mano sulla spalla. “Potrebbe, anche se evidentemente non si trattava di un’esistenza molto felice,” commenta. “In tal caso, questa è la nostra occasione per cambiare le nostre sorti e non lasciarci sfuggire l’opportunità di trovare ciò che in quella vita non abbiamo mai avuto.”

Jean si sente sorridere alla determinazione di Eren. “Io ho intenzione di approfittare di questa chance con Levi,” afferma risoluto. “E tu?”

Jean fa finta di pensarci un po’, anche se, davvero non ne ha proprio bisogno.

“Con Levi? Non è proprio il mio tipo.”

Eren ride e gli pizzica il braccio.

“Torna a casa Jean e prenditi la tua rivincita. Non lasciare che i mostri ti rubino anche questa vita.”

 

 

Quando Jean entra in casa, la prima cosa che sente è l’improvviso strisciare della sedia in cucina; poi, Marco irrompe nel salotto che funge da entrata e si blocca non appena lo vede.

La porta si chiude e loro si guardano in silenzio.

“Non sapevo dove fossi… non ti sei portato dietro il cellulare,” il tono di Marco è preoccupatissimo.

“Hai ragione, scusami. Sono uscito di fretta… dovevo vedere Eren.”

Marco annuisce e Jean si accorge di come il suo sguardo si soffermi sulla felpa che indossa.

“Ho fatto il tè, ne vuoi un po’?”

Il tono di Marco non è solo preoccupato, ma è anche spaventato e cauto, come se fosse timoroso di dire la cosa sbagliata e farlo scappare di nuovo. È rigido sul posto, come se si stesse trattenendo dall’abbracciarlo, baciarlo e dirgli che lo ama.

Gli fa fisicamente male vedere Marco reprimere ciò che vuole veramente, vederlo sotterrare dietro un'espressione neutra i suoi mille sorrisi.

Le parole di Eren gli risuonano in testa e non ha davvero intenzione di sprecare quest’opportunità.

Gli va incontro piano, cercando la presenza di segni di disagio da parte del suo ragazzo. Marco si limita a guardarlo, anche quando è a un palmo dal suo viso e Jean gli allontana una ciocca di capelli dalla fronte.

Lo bacia sulle labbra con dolcezza e quasi vorrebbe piangere di gioia quando Marco ricambia il gesto e gli porta le mani sui fianchi.

“Scusami se sono fuggito stamattina,” mormora, appoggiando la fronte contro la sua. “Dovevo vedere Eren perché stanotte ho sognato…”

Sente le parole pesanti sulla lingua.

“Non devi per forza parlarne se non te la senti.”

“Ho sognato la tua morte,” ammette con un sussurro, ignorando le lacrime che minacciano di tornare a pizzicargli gli occhi. “I mostri non c’erano. C’eri solo tu in una pozza di sangue e io sapevo che eri morto anche per colpa mia. Non ero riuscito a salvarti.”

Jean…”

“Non ho mai sognato nulla del genere ed è stata la cosa più terrorizzante che abbia mai visto. Nell’incubo non riuscivo neanche a dire il tuo nome, stavo soffocando e-”

Non riesce a finire di parlare, perché Marco lo bacia e lo interrompe. “Sono qui, Jean. Ti amo,” gli sussurra contro la bocca. “Sono qui.”

Jean deglutisce, cercando di ricacciare indietro le lacrime. “Le pensavo davvero tutte le cose che ti ho detto stanotte, non sono state dette nell’impeto del momento e basta.”

“Lo so.”

“Ti amo davvero tantissimo.”

“Anche io, sapessi quanto.”

Si baciano e si stringono, perché il cuore batte forte a entrambi e le parole a un certo punto non sono più sufficienti.

“Pensavo fossi scappato per via di quello che abbiamo fatto ieri sera,” la voce di Marco è titubante quando si allontana dalle sue labbra umide.

“No, no, assolutamente,” Jean lo rassicura, stringendogli le braccia attorno alle spalle. “Ieri sera è stato meraviglioso e voglio rifarlo ancora mille altre volte, finché avrò fiato per dire il tuo nome.”

Marco arrossisce e sfiora il naso contro il suo.

“Stamattina sono scappato perché Eren… Eren capisce i miei incubi.”

“Per quale motivo?”

“Li… li ha anche lui,” spiega. “O meglio, li aveva.”

Marco spalanca gli occhi, scioccato da quell’affermazione. “Ora capisco…”

“Mi ha detto una cosa che mi ha fatto molto riflettere stamattina. Mi ha detto che…” Jean è titubante, non sa come riassumere il discorso di Eren e trasmettere quello che prova. “Abbiamo ragionato sul fatto che quegli incubi sembrino quasi un’altra vita, una passata e molto infelice. Mentre invece questa esistenza, quella che stiamo vivendo adesso… potrebbe l’occasione per essere davvero felici. Per avere tutto ciò che abbiamo sempre sognato allora e non abbiamo mai potuto ottenere”

Marco rimane in silenzio, pensieroso.

“Lo so che tutto questo non ha senso, ma mi ha fatto pensare che non voglio perdere tempo ad avere paura e a chiedermi come sarebbe potuta andare. Ho deciso che voglio essere felice,” cerca le sue mani e intreccia le dita con le sue. “E tu, Marco Bodt, mi rendi felice come mai nessuno è riuscito a fare.”

Gli occhi di Marco sono umidi adesso.

“Prima di conoscerti era tutto grigio, ma tu… tu hai donato a tutto quanto le sfumature più vivaci e vibranti. Hai reso la mia triste esistenza una tavolozza di colori e qualcosa degno di essere vissuto appieno. Hai letteralmente portato la primavera nella mia vita e… non potrò mai ringraziarti per tutto questo.”

Gli bacia via una lacrima prima di tornare a dedicarsi alle sue labbra.

“Non volevo farti piangere,” scherza quando il corpo di Marco viene scosso da un singulto.

Marco non riesce a dirgli altro. Lo abbraccia con tutto se stesso, prova a rimuovergli la sua felpa e lo spinge in camera da letto mentre lui ride e lo bacia ancora e ancora, finché ha aria nei polmoni e forza nei muscoli.

Quello è il giorno in cui Jean scopre che la felicità ha lo stesso sapore del tè lasciato raffreddare nella teiera e delle lacrime baciate via con un sorriso, ma, soprattutto, che la felicità ha tutti i colori che Marco ha donato alla sua vita.

 

 

Beep. Beep. Beep.

Allunga il braccio, un colpo secco spegne la sveglia e la stanza torna ad essere immersa nel silenzio.

Non che abbia davvero bisogno dell’allarme, dopotutto; sono ormai diversi minuti che lui e Marco si stanno baciando, avvolti dalle lenzuola che hanno il loro odore impresso e che probabilmente sono da lavare.

“Buongiorno,” miagola Jean contro le labbra del suo ragazzo.

“Buongiorno,” risponde lui dopo l’ennesimo bacio. “Come hai dormito stanotte?”

Marco glielo chiede ogni mattina, perché vuole sapere se gli incubi sono tornati, se il terrore lo sta tormentando nuovamente.

Ma ormai è da un po’ che i mostri sono spariti e non disturbano più il suo sonno.

“Benissimo,” risponde sincero, specchiandosi nei suoi occhi. Porta una mano verso il basso ad accarezzare i loro corpi nudi, rimasti così dalla sera prima. “Quanto tempo abbiamo prima di essere irrimediabilmente in ritardo?”

Marco ride. “Non abbastanza.”

“Potremmo ottimizzare i tempi facendo la doccia insieme.”

“Lo sai benissimo che fare la doccia insieme equivale ad arrivare in ritardo.”

Si sorridono e si alzano dal letto per andare in bagno, pronti ad affrontare insieme le sfide, le gioie e i dolori di un’altra variopinta giornata.

 

 

Fin.

 
   
 
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