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Autore: Mina_Lightwood    15/04/2017    1 recensioni
[ Long-Fiction. What if...? che parte da "Città del fuoco celeste"]
« Non so se qualcuno di voi ha mai sentito parlato dell’Enclave di Roma,» incominciò lo Stregone, prima di bere una generosa dose di oro nero.
« È stato distrutto da un demone superiore quasi cinquecento anni fa,» replicò Alec, abbastanza sbigottito, come se si aspettasse tutto tranne quell’argomento. Si era accomodato tra Jace e il suo fidanzato e la sua destra era ancora poggiata sull’incavo del gomito del suo parabatai, come se non sopportasse di lasciarlo solo neanche per un istante.
« Un principe dell’Inferno, per essere più precisi. Lucifero in persona, dicono alcuni,» mormorò Isabelle, come nel ricordare un’antica leggenda. Magnus annuì grave a quelle parole. Non che lui avesse vissuto a quel tempo, ma era risaputo che era stata la battaglia più feroce che fosse mai stata combattuta su suolo mortale tra Angeli e Demoni.
« Era l’Enclave più importante al mondo, il centro dei Guardiani,» soggiunse Jace a sorpresa, la voce arrochita di chi non la utilizzava da tempo.
[...]
« Sono ciò che rende la nostra dimensione così com’è. Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Tempo, Spazio e l’Assoluto.»
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Magnus Bane
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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City of Guardians
 
1. 
 
Memory, such a potent force in our lives. All of these Memento Mori for one sobering message; remember that you will die.
Evelyn Poole, Penny Dreadful
 
 
Magnus Bane osservava con pigra indolenza le strade vuote di una New York insolitamente spenta dalla finestra della sala, mentre carezzava distratto il pelo morbido del Presidente Miao.
Mormorii confusi intervallati da qualche rada esclamazione provenivano dalla cucina dove i tre fratelli Lightwood e Simon consumavano cibo d’asporto quasi in silenzio, svogliati. Nutrirsi era diventato un dovere così come incontrarsi per commemorare un defunto. Una veglia funebre che non avrebbe mai avuto fine.
Lo Stregone si lasciò sfuggire un sospiro nel ricordare che nessuna risata avrebbe allietato i cuori di quelle persone che aveva imparato ad apprezzare e amare, non più, non dopo tutto quello che era accaduto qualche settimana prima.
Edom l’aveva lasciato debole e sconfitto, melanconico come poche volte s’era sentito nella sua eternità. Aveva sopportato troppe morti e aveva patito troppe sofferenze e taluni avrebbe potuto credere che avesse  imparato a conviverci, ma Raphael e Clary erano penetrati nel suo cuore con la forza dirompente del loro carattere indomito, del loro coraggio e della loro testardaggine, e non sarebbe stato affatto semplice rimuoverli dalla mente e dall’anima.
Memento mori, solevano ammonire i Romani quando un Generale ritornava vittorioso da una battaglia e riceveva onori e favori della folla. Eppure Edom era stata la più grande sconfitta dei Nephilim che avevano barattato la propria libertà con quella della loro figlia, con la crudeltà di un Dio lontano e insensibile. Se fosse stato vero che gli umani erano stati creati a Sua immagine,- si ritrovò a pensare,- allora erano tutti votati alla dannazione eterna.
« Magnus,» mormorò il suo amore, riportandolo al mondo, con la voce dolce e grave, pervasa di preoccupazione e affetto. Magnus l’avrebbe riconosciuta ovunque, ormai. Quando Alexander aveva pronunciato il suo nome ad Edom, mentre era incatenato e aveva pensato sarebbe morto in ginocchio e non in piedi come un uomo, lo Stregone si era sentito rinascere. Il sollievo e l’amore l’avevano fatto tremare e svenire con la sicurezza di essere tra le braccia di una persona che non l’avrebbe mai tradito.
Alexander lo fissava inquieto con quei grandi occhi azzurri in cui Magnus amava perdersi, due pozze luminose e sincere, prive di malizia e crudeltà.
« Alexander,» ribatté lo Stregone, prima di posare la guancia ormai scarna sulla sua mano forte e callosa, temprata dagli allenamenti e marchiata dalla Vista. Il Presidente Miao scese dalle sue gambe e si andò ad accoccolare ai piedi di Alec, per poi fargli le fusa. Il Nephilim, senza scostare lo sguardo da lui, si chinò per grattargli il capo e il gattino ronfò soddisfatto.
« Che succede?» domandò il Nephilim, carezzandogli i capelli che per una volta non erano cosparsi di gel e glitter. Magnus sospirò e scosse il capo, sollevando lo sguardo verso il viso pallido del suo fidanzato. Cosa non succede, Alec, avrebbe voluto dirgli, ma non era in vena di fare dell’ironia. La situazione diventava sempre più grave e non v’era spazio per il sarcasmo.
« Ho ricevuto un messaggio,» spiegò, tirandolo verso di sé, sfiorandogli la maglietta nera tempestata di buchi per i troppi lavaggi. Era qualcosa di familiare e rassicurante notare quanto Alec non fosse cambiato nonostante tutte le tragedie che li avevano colpiti ed era perturbante per lui riconoscere che fosse diventato la cosa più salda della sua eternità, considerato da quando poco tempo si conoscessero. Lucrezia una volta gli aveva detto che il tempo fisico e quello dell’anima erano ben diversi, ma Magnus non l’aveva capito prima di incontrare Alec.
« Da tuo padre?»
Magnus si lasciò sfuggire una breve risata senza traccia di allegria e scosse il capo. Suo padre aveva troppo cui badare che non pensare a distruggergli ulteriormente l’esistenza. Aveva già fatto abbastanza. Lo Stregone si passò la mancina sulla mascella, grattandosi la rada e fastidiosa barba color delle castagne.  Avrebbe dovuto provvedere subito a radersi: odiava quella sensazione di trascuratezza.
« No, non così tremendo. In realtà è una vecchia amica,» soggiunse trattenendo un sorriso spontaneo. La Signora del Tempo, la Regina delle Sabbie, la Custode del Labirinto, l’unica dei Guardiani che riuscisse ad apprezzare, l’unica che aveva ancora qualcosa di umano, l’unica che sapeva ancora entrare in empatia con il dolore dei mortali.
« Una Stregona?»  chiese curioso il suo ragazzo. In un altro tempo, in un’altra situazione sarebbe stato geloso, ma Alec aveva imparato ormai che quello spazio nel cuore dello Stregone era tutto per lui. Non v’era momento in cui il Nephilim non fosse grato perché la Sorte aveva deciso di risparmiare Magnus, una gioia che era costata cara al suo parabatai e a tutti loro. Per ogni dono concesso mille e più beni venivano sottratti. Era una lezione che avevano dovuto imparare a loro spese.
« Possiamo dire che è una seccatura immortale che bara a carte. Terribile a picchietto,» aggiunse ridacchiando nel ricordare il loro primo giorno a Las Vegas dove aveva perso quasi un milione di dollari. 
« A picchietto?» ripeté il ragazzo come se non avesse mai sentito nulla di simile, gli occhi azzurri spalancati come quelli di un cerbiatto. Magnus lo trovò così adorabile che gli scoccò un lungo bacio a fior di labbra, prima di dirigersi verso la cucina, Alec al seguito. Era ora di mettersi all’opera. La sua ospite non era solita perdere tempo in chiacchiere.  
La stanza era immersa nella penombra della sera, la luce della Luna a rischiarare la zona accompagnata da timide candele rosseggianti, al profumo di mirto, certamente un tocco di Isabelle.
« Forze del bene, un attimo di attenzione,» esclamò lo Stregone, battendo le mani e facendo volare qualche scintilla azzurrina per far apparire cinque caffè dal migliore bar della zona.
Isabelle e Simon sollevarono gli occhi verso di lui, due sfumature diverse e complementari di castano, quasi grati che intervenisse a spazzar via quel senso di inquietudine e quella cappa di dolore che sembrava permeare la cucina.
Da quando Clary era morta, sacrificatasi per tutti loro con una forza che aveva ben poco di umano, Jace aveva perso qualsiasi desiderio verso la vita. Era come un guscio vuoto e suicida, pronto a lanciarsi nelle missioni più pericolose e ad abbandonarsi a se stesso. Se Alec non gli fosse stato costantemente accanto e Izzy non l’avesse aiutato, Magnus era certo che sarebbe morto almeno una ventina di volta nell’arco di tre settimane. L’unica che stava male quanto lui era Jocelyn che, da quando aveva perso la sua bambina, stentava anche a respirare, lei, la donna che aveva combattuto per tutta la vita contro Valentine e contro le sue follie. Il dolore di Simon era diverso perché aveva dovuto imparare ad amarla di nuovo dopo averla perduta.
Il ragazzo non sollevò lo sguardo dorato, le lunghe ciglia scure che sfioravano gli zigomi alti e le gote scavate. Non si era neanche accorto di stringere una tazza di caffè fumante. Era diventato il fantasma di se stesso. Alec si avvicinò al parabatai e gli posò una mano sulla spalla, chinandosi per dirgli qualcosa all’orecchio. Jace sembrò smuoversi per un istante e ricambiò la stretta con saldo affetto, prima di volgersi verso lo Stregone con uno sguardo interrogativo. Gli ricordò così tanto Edmund Herondale che Magnus dovette trattenere un lamento, la gola stretta in una morsa di ferro. La vita era così ingiusta.
« Non so se qualcuno di voi ha mai sentito parlato dell’Enclave di Roma,» incominciò lo Stregone, prima di bere una generosa dose di oro nero.
« È stato distrutto da un demone superiore quasi cinquecento anni fa,» replicò Alec, abbastanza sbigottito, come se si aspettasse tutto tranne quell’argomento. Si era accomodato tra Jace e il suo fidanzato e la sua destra era ancora poggiata sull’incavo del gomito del suo parabatai, come se non sopportasse di lasciarlo solo neanche per un istante.
« Un principe dell’Inferno, per essere più precisi. Lucifero in persona, dicono alcuni,» mormorò Isabelle, come nel ricordare un’antica leggenda. Magnus annuì grave a quelle parole. Non che lui avesse vissuto a quel tempo, ma era risaputo che era stata la battaglia più feroce che fosse mai stata combattuta su suolo mortale tra Angeli e Demoni.
« Era l’Enclave più importante al mondo, il centro dei Guardiani,» soggiunse Jace a sorpresa, la voce arrochita di chi non la utilizzava da tempo.
« Guardiani? Come in Dante’s Inferno?» chiese Simon, tamburellando le dita contro la tazza.
Jace gli rifilò un’occhiata più truce del solito e scosse il capo. I capelli biondi e leonini erano cresciuti incolti come siepi e sembravano urlare il loro bisogno di un taglio.
« I Guardiani degli Elementi, secondi soltanto agli Angeli, mondano. Valentine pensava che fossero i loro figli diretti.»
« Sono ciò che rende la nostra dimensione così com’è. Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Tempo, Spazio e l’Assoluto,» elencò Magnus per riportare la conversazione a uno stato civile. Jace era colmo di rabbia e disprezzo per se stesso e quelle che giudicava come debolezze della sua anima e del suo spirito guerriero e ormai non si faceva scrupoli a riversare il proprio vaso di Pandora verso chiunque lo indispettisse in qualche modo. Soltanto Alec e Izzy erano esentati da quel trattamento perché sapevano come gestirlo. Come i suoi antenati prima di lui, non poteva impedirsi di addossarsi le pene e le colpe del mondo intero. Il sangue degli Herondale era davvero unico nel suo genere. Raggiungeva picchi di vocazione al martirio inusuali persino per gli standard dei Nephilim.
Un rombo squarciò il velo di nebbia della notte, un ringhio basso come quello di un animale feroce pronto a balzare sulla preda per divorarla. Magnus si accostò alla finestra, le pupille verticali come quelle di un gatto che scrutavano nell’ombra, e notò una Triumph T-100 parcheggiata sotto casa sua, all’ingresso del portone. Ai suoi vicini di casa non sarebbe affatto piaciuto.
« Parlando di Guardiani,» biascicò lo Stregone a mezza voce, cercando di allontanare i pensieri negativi che quella visita improvvisa quanto peculiare aveva risvegliato. 
La ragazza sembrava avere circa vent’anni, i capelli scuri e folti, di mille sfumature diverse di castano, dal mogano al bronzo, dall’ocra al terra d’ombra. Negli anni Venti, l’ultima volta in cui si erano incontrati, aveva sfoggiato un caschetto alla Charleston, ma adesso li portava lunghi sulle spalle e ondulati. Le sfioravano appena il chiodo di pelle nera e la clessidra che non toglieva mai.
« Olà, Magnus Bane. Mi lasci entrare o preferisci essere la mia Giulietta?» esclamò la Regina delle Sabbie, la voce dolce e musicale appena velata di sarcasmo, osservandolo con quei suoi occhi dorati che per un attimo gli ricordarono quelli di Jace. Aveva un vago accento europeo, italiano senza ombra di dubbio, un modo adorabile di arrotondare le consonanti per renderle meno aspre. Sembrava recitasse una poesia eterna. S’era portata le mani sui fianchi morbidi, fasciati da un paio di skinny jeans scuri, appena inarcata verso la moto.
« E tu saresti il mio Romeo? Il nome non mi aggrada, signora,»  ribatté lo Stregone divertito, schioccando le dita per aprirle il portone.
La ragazza immortale rise e fu come sentire la risata di un Angelo o di un bambino, alta, tintinnante, sfolgorante e onesta, un balsamo per il dolore. Era un dono che Magnus accettò volentieri.
« Ebbene cos’è un  nome?» domandò con un velo di arguta malizia la Custode del Labirinto, sfiorando la clessidra che brillava dorata sulla maglietta scura. La ragazza preferì usare le scale anti-incendio scivolando con abilità tra i gradini alti, i tacchi degli stivaletti che risuonavano come acqua sulla pietra in una caverna.
« Dimmi che non sei stata a Verona di recente.»
« Le gioie violente hanno fine violenta e muoiono nel loro trionfo ,» recitò la fanciulla immortale in perfetto italiano, con una lieve traccia di dialetto romanesco appena percettibile, mentre si slanciava per entrare dalla finestra. Magnus le porse la destra e la ragazza l’accettò di buon grado, ma non per essere aiutata, bensì per stringerla tra le proprie in un antico cenno di amicizia. Magnus accettò la stretta di buon grado, sebbene fosse certo che non portasse affatto delle buone notizie. Aveva occhi grandi e sinceri, a metà tra il dorato e il verdemare, qualche pagliuzza castana che li rendeva più profondi. Non era truccata, notò lo Stregone, ma in fondo non lo era mai.
« Questa mattina porta una pace che rattrista; nemmeno il Sole mostrerà la sua faccia, » replicò Jace in un italiano appena stentato. Era meno musicale di quello parlato dalla fanciulla, segno che non era un madrelingua, ma era tanto buono che la ragazza lo scrutò con ammirazione e qualcos’altro che Magnus non seppe interpretare bene, un sentimento a metà tra l’affetto e il pentimento, come se osservasse un figlio che credeva perduto per sempre e che aveva ritrovato soltanto per un attimo prima che le venisse strappato via dalle braccia.
« Per rimanere in tema,» mormorò la giovane, annuendo tra sé mentre scrutava i visi dei Nephilim. L’arco di Cupido delle sue labbra di ciliegia si piegarono in un sorriso dolce quanto il miele mentre osservava Alec, come se conoscesse il suo cuore puro e lo apprezzasse, e rivolse un cenno di approvazione verso Izzy, stimandole il coraggio e l’ardimento. Il suo sguardo antico poi si posò su Simon per un attimo più degli altri, con immensa tristezza, come se conoscesse cosa avesse patito ad Edom, e Magnus non dubitava che fosse davvero così. I Guardiani erano a conoscenza di quasi tutto ciò che accadeva nelle varie dimensioni, essendone i custodi più diretti.
« Vi presento Lucrezia Bonaventura, Guardiana del Tempo, certamente tutto fuorché un Angelo,» esclamò Magnus con allegria sincera, per quanto la situazione non fosse delle più liete.
« Gira ancora quella vecchia storia?» ridacchiò lei, scuotendo il capo e passandosi la mancina sulle guancia destra, come per trattenersi, « Non siamo Angeli, piccoli Nephilim, ma siamo i loro messaggeri qualche volta.»
« E quale messaggio portate, signora?» chiese Jace, issandosi in piedi e pronto all’azione, una scintilla di vita dopo settimane passate nell’ombra della morte. Lucrezia annuì con approvazione a quel gesto e i suoi occhi si accesero di orgoglio.
« L’Arcangelo Michele ha un lavoro per voi.»
   
 
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