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Autore: WillofD_04    17/04/2017    7 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Non mi sbagliavo. Furono settimane d’inferno per me. Nel momento in cui tolsi i punti e la mia gamba iniziò a guarire, tutto ripartì al triplo della velocità. La magia era svanita, proprio come mi aspettavo. Fu come tornare ai primi tempi, quando ero così stanca che avrei potuto dormire in piedi. L’unica differenza che c’era tra adesso e i primi giorni, era che ora volevo riconquistare a tutti i costi quel poco di fiducia che mi ero guadagnata. Non sarebbe stato facile, ma volevo, dovevo e potevo farlo. Certo, non avevo vita facile. Tra lo studio, l’addestramento e i turni per le pulizie, non avevo più nemmeno il tempo per guardarmi allo specchio. Non che volessi farlo, ero sicura di essere diventata uno straccio ambulante, pallida e con due occhiaie che mi arrivavano fino ai piedi. E per di più, purtroppo, non mi sbagliavo neanche su un altro fatto. Mi era rimasta la cicatrice della ferita, e non avevo nessuna voglia di vedere quello sfregio antiestetico anche riflesso in un vetro.
Law non mi aveva praticamente più rivolto la parola in quei giorni, se non per rispondere alle mie domande con dei meri monosillabi e dei flebili accenni del capo. Non mi aveva più fatto fare pratica, non aveva richiesto la mia presenza in infermeria nemmeno una volta, né mi aveva dato il permesso per sbarcare su alcuna isola. Di conseguenza andavo avanti da settimane senza le due cose che amavo di più. Il vino e le operazioni chirurgiche. Inutile dire che in quel modo mi sembrava che stessi sprecando il mio tempo. Bepo, invece, aveva deciso che finché la mia gamba non fosse guarita del tutto avremmo lavorato solo ed esclusivamente sulla flessibilità, perché sosteneva che per essere un bravo guerriero servisse anche avere i muscoli e le ossa flessibili. Per cui i miei allenamenti andavano avanti a crampi muscolari e lamenti di dolore. L’esercizio più efficace secondo lui era prendere due sedie, distanziarle di circa un metro e mezzo l’una dall’altra e farmi appoggiare un piede su una ed il ginocchio della gamba opposta sull’altra. Sarebbe superfluo dire che più che aumentare la mia flessibilità, tale pratica mi sembrava più una tortura cinese. E, non soddisfatto dai risultati, talvolta si sedeva anche sopra di me, come se fossi un’amaca, costringendo le mie gambe a divaricarsi ancora di più. No, non era una metafora sessuale, non lo era affatto. Era semplicemente un vero e proprio supplizio. Il Visone non mostrava alcuna pietà per me e per i miei poveri legamenti. Per non parlare della mia schiena. Tra tutte le parti martoriate del mio corpo, forse era quella messa peggio. Un brivido attraversava tutto il mio corpo quando di tanto in tanto sentivo le ossa scricchiolare. Non sapevo cosa si fosse messo in testa, ma avrei dovuto imparare a combattere, non partecipare alle Olimpiadi di ginnastica ritmica, per quanto mi sarebbe piaciuto, forse in un’altra vita. Come se l’essere diventata una fisarmonica umana agli occhi di Bepo non fosse bastato, a peggiorare la situazione c’erano i turni di pulizia del bagno. Quelli erano davvero massacranti. E avrebbero messo a dura prova la compostezza e la sanità mentale di chiunque, perfino degli animi più ferrei. Non avevo idea di cosa ci facessero in quei bagni – o meglio, ce l’avevo perfettamente solo che pensarci mi faceva ribrezzo – ma ogni volta sembrava che là dentro avessero banchettato con dei ratti morti da un anno. Anche la cucina di Ryu, che tendeva sempre ad esagerare con le spezie, non era d’aiuto. E a proposito del cuoco, anche lui mi dava il suo bel da fare con piatti da lavare e tentativi di insegnarmi a cucinare. Ancora non aveva capito che non era quella la mia vocazione. La sola cosa che ero capace a fare era la torta con la glassa che avevo preparato per il compleanno del Chirurgo della Morte. Gli unici momenti liberi che avevo li utilizzavo per leggermi i pesanti ed enormi tomi di medicina che mi aveva dato Law, che spesso si riducevano a tre pagine alla volta, lette fugacemente prima di andare a dormire o prima di fare colazione. La mia unica fonte di sostentamento e di salvezza – che era diventata tale anche per forza – era il caffè. Non mi piaceva particolarmente, ma ero arrivata al punto in cui se non ne prendevo almeno una tazza la mattina non arrivavo intera alla sera. E l’unica cosa positiva in tutto quel caos di compiti da svolgere – che non ero sicura fosse poi così positiva – era che non dovevo nemmeno alzarmi troppo presto dal letto, perché spesso nemmeno ci andavo a letto. Mi addormentavo direttamente sulla scrivania, sopra ai libri e con la lampada ancora accesa, stremata dal troppo lavoro. Poi mi risvegliavo la mattina dopo – per miracolo – con il collo dolorante e più stanchezza del giorno prima. A volte nemmeno potevo avere la soddisfazione di sdraiarmi due minuti sul materasso. Mi toccava fare il turno come vedetta, le notti in cui risalivamo in superficie. Era un compito molto ingrato, che fino a quel momento avevo avuto la fortuna di non svolgere. Lo facevo. Facevo tutto senza lamentarmi ed accettavo di buon grado i compiti che mi davano da eseguire, ma dentro di me sapevo che quello era troppo. Era troppo per me e sarebbe stato troppo per chiunque. Mi chiedevo per quanto tempo ancora sarei potuta andare avanti senza impazzire o avere una crisi di nervi e scoppiare in lacrime. Mai come in quel momento della mia vita mi ero sentita più vicina ad avere un esaurimento nervoso. Assurdo come un paio di decisioni sbagliate potevano portare allo scatafascio di un sogno, o di un rapporto. Era un equilibrio molto fragile quello che si era creato. Quello che avevo creato, con tanta fatica e tanti sacrifici. Finché non avevo fatto cazzate era andato tutto bene, ma nel momento in cui avevo fatto un solo, piccolo sbaglio, tutto era andato a puttane. Tutto si era sgretolato ed ero dovuta tornare al punto di partenza, come succedeva nel Monopoli o nel Gioco dell’Oca. Bastava un tiro di dado sbagliato ed eri fottuto. E a me dispiaceva, dispiaceva molto, soprattutto perché tutto il mio duro lavoro era andato perduto. Era stato inutile, cancellato da quel mio unico errore. Da un lato sapevo di meritarmi la mia “punizione”, ma dall’altro...ero un essere umano, come quasi tutti su quel sottomarino. E sentivo che non fosse giusto pagare un prezzo così caro per la mia negligenza. Tutti noi sbagliamo. Tutti abbiamo dei momenti in cui vacilliamo. Ma poi impariamo dai nostri errori. È questo il bello dell’essere umani. Avevo capito. Non avrei più commesso un errore simile. Quindi perché continuare a fare la guerra e a distruggermi in quel modo? Che utilità aveva tutto questo, se non quella di sfinirmi mentalmente e fisicamente e farmi sentire ancora peggio? Come ci ero finita così? Perché se i pirati erano le persone più libere del mondo, io mi sentivo così in trappola?
 
Sapevo che il giorno in cui avrei dato di matto sarebbe arrivato. Avrei voluto resistere più a lungo, ma ero già oltre le mie possibilità.
Era una normalissima – ed indaffaratissima – giornata come le altre. Era mattina e stavo portando una cesta di panni sporchi nella sala adibita alla lavanderia, mentre riflettevo su quanto orripilante e scomoda potesse essere quella maledetta divisa bianca che ero stata costretta ad indossare. Shachi e Penguin ne erano entusiasti, così finalmente avremmo potuto fare i tre gemellini felici, ma io ne ero disgustata. L’unica nota positiva era che almeno non dovevo indossare quegli orribili stivali che avevano tutti. Mi era stato concesso di tenere ai piedi i miei, che per quanto sembrasse stupido per me erano molto meglio.
Fu una frase a scatenare tutto.
«Fai attenzione, Maya» disse Omen, preoccupato, alla sua amica. Davanti a me, nel lungo corridoio, c’erano i miei due compagni che chiacchieravano amabilmente.
«So badare a me stessa» rispose lei, sogghignando.
«A cosa devi fare attenzione?» chiesi io a quel punto, incuriosita.
Maya esitò un attimo prima di rispondermi. Appoggiai il cesto a terra ed incrociai le braccia.
«Vuota il sacco» la incalzai, con uno sguardo che non ammetteva repliche.
«Non sono sicura che tu voglia saperlo» affermò, in un sussurro che però udii fin troppo bene.
Alzai un sopracciglio e la fissai, seria.
«D’accordo» cedette lei, sospirando «questo pomeriggio sbarcheremo su Kaitei, un’isola estiva»
«E quindi?» domandai io, che ancora non avevo ben chiara la situazione.
«Gli abitanti hanno bisogno di cure, sono vittime di un’epidemia virale che li insidia da mesi» mi spiegò.
Evitai di parlare, per non fare brutte figure e per non scatenare l’inferno. Forse non era come pensavo.
«Il capitano ha richiesto la presenza di tutta l’equipe medica e dal momento che manca del personale, vuole che vada anche io» mi annunciò titubante.
«Tutta l’equipe medica» ripetei io, annuendo lentamente. Era esattamente come pensavo, invece.
«Mi dispiace, Cami» fece la mia amica, mortificata. Alle sue parole scossi la testa.
«E perché? Non c’è nulla di cui dispiacersi» le comunicai, scandendo bene ogni parola.
«Beh...» iniziò, ma io non le diedi il tempo di finire la frase. La superai a passo svelto, sapevo esattamente dov’ero diretta.
Omen, però, mi afferrò il polso, costringendomi a fermarmi e a voltarmi. Guardai prima la sua mano, che mi impediva di continuare a camminare e poi lui, con sguardo truce.
«Non fare cazzate» mi disse, grave. Continuai ad osservarlo per un paio di secondi, poi, mi divincolai dalla sua presa e sfoggiai il sorriso più innocente che riuscissi a fare. Tornai indietro e recuperai il cesto dei panni sporchi.
«Non ti preoccupare, so come si fa il bucato. I bianchi devono essere lavati separatamente dai colorati. Non voglio che la divisa di Bepo si scolorisca, né tantomeno che le nostre si macchino» lo rassicurai, sempre sorridendo.
A quel punto i miei due interlocutori, dopo essersi scambiati un'occhiata perplessa e sospettosa, si tranquillizzarono e mi lasciarono andare. Avevano commesso un errore da principianti, però. E a ripensarci bene sarebbe stato meglio se mi avessero trattenuta con tutte le loro forze.
Inutile dire che non appena finii di caricare ed impostare la lavatrice, mi diressi nello studio di una certa persona, veloce come un fulmine.
 
Bussai, la porta era socchiusa. Non aspettai una risposta e la aprii, piano.
«Posso parlarti?» chiesi alla figura dall’altra parte della stanza, che non mi aveva ancora degnato di uno sguardo. Law scostò di poco la sedia dal tavolo, si tolse gli occhiali rettangolari – quelli che usava solo quando aveva intenzione di leggere per molto tempo – e li posò sul libro che stava leggendo. Poi poggiò la schiena allo schienale della seggiola, incrociò gambe e braccia e mi fissò. Evidentemente aveva capito l’antifona.
«Se è necessario» fece, con aria di sufficienza.
«Lo è» gli risposi io, in maniera dura. Se era la guerra a chi usava il tono più freddo che voleva, la guerra avrebbe avuto. Anche se per me quella era già guerra. Una guerra psicologica infida e insidiosa. E sarebbe stata anche pericolosa, se avessimo continuato così. “Non svegliare il can che dorme”, recitava il detto; ed io fino a quel momento ero stata fin troppo buona, ma ora il cane si era svegliato ed era pronto ad attaccare, qualora fosse stato necessario.
«Qual è il problema?» volle sapere lui, che cominciava ad infastidirsi. Lo conoscevo bene, sapevo che odiava chi non andava subito al punto e gli faceva perdere tempo. Ma non gliel’avrei data vinta, anzi, gliel’avrei fatta sudare.
«Ho sentito che sbarcherete su Kaitei, oggi» iniziai io «tu e tutto il personale medico» continuai, appoggiandomi allo stipite della porta ed incrociando a mia volta le braccia.
«Le notizie volano» commentò, facendo un piccolo ghigno «Quindi?» chiese poi, fissandomi negli occhi.
«Quindi non sono stata convocata» gli feci presente in tono piatto.
«Ne sono consapevole» replicò lui, con un tono altrettanto piatto.
«E a quanto pare porterai Maya al posto mio. Mi sbaglio?».
Cercai di sembrare il più distaccata possibile, anche se non era affatto facile.
Si limitò ad annuire quasi impercettibilmente, tornando a concentrarsi sulla sua lettura, come se io non fossi lì.
«Per quanto ancora hai intenzione di andare avanti con questa farsa?» gli domandai. Lui alzò gli occhi dal libro e ricominciò a fissarmi. Intercettai il suo sguardo e lo fissai a mia volta, scura in volto. «Per quanto ancora andremo avanti così? Per quanto ancora tu continuerai a rispondermi a monosillabi e a rivolgermi sguardi fugaci e disgustati? Quanto dovrò aspettare prima di rivedere un paziente, un’isola o una sala operatoria?».
Alzò un sopracciglio, ma non disse niente. Forse non sapeva cosa rispondermi.
«Sai che sono brava. Sai quanto valgo e sai anche che di tutto l’equipaggio medico sono quella con più potenziale. Quindi per quanto ancora hai intenzione di punirmi per aver commesso un errore?» continuai, fiera e sicura.
«Tu non hai commesso un errore» cominciò serio.
Corrugai le sopracciglia. Dove voleva arrivare?
«Tu hai deciso di commettere un errore» mi spiegò, impassibile.
Sbattei le palpebre un paio di volte per cercare di comprendere quello che mi aveva appena detto. Quando, pochi secondi dopo, ci arrivai, non seppi cosa rispondergli. Non immediatamente, almeno.
«E anche se fosse? Sono un essere umano, come quasi tutti su questo sottomarino. E come tutti posso sbagliare, o decidere di sbagliare o quello che è. Quindi perché continui a trattarmi come se ai tuoi occhi fossi spazzatura?»
Alla fine avevo trovato qualcosa da dire. E la mia era anche un’argomentazione valida.
«Ti tratto come meriti di essere trattata» rispose. Lo annunciò con una calma disarmante. E fu proprio il modo in cui lo disse ad offendermi e ferirmi.
«Mi merito una seconda occasione. Mi merito di sbarcare su quell’isola, e tu lo sai meglio di me» lo incalzai. Se voleva giocare a chi era più bravo a rigirare le parole, sarei stata al suo stupido gioco. E avrei anche vinto, perché ci sapevo fare.
«Tu non ti meriti niente» sputò. Lo disse con un tale disprezzo nella voce che il mio stomaco si attorcigliò su se stesso «l’unico motivo per cui sei qui è perché io ti permetto di stare qui. Ma ricordati che niente ti è dovuto».
Rimasi in silenzio a riflettere sulle sue parole. O meglio, su quanto le sue parole mi avessero ferito. Non aveva tutti i torti, se ero lì su quel sottomarino era semplicemente perché il chirurgo mi aveva gentilmente concesso di stare lì. Ma questo non gli dava il diritto di comportarsi come se non esistessi, come se fossi meno di zero.
«Se questo è quello che pensi, allora io e te non abbiamo più niente da dirci.» gli annunciai freddamente «Non intendo sprecare un secondo di più del mio tempo a stare con persone che non apprezzano né me, né il mio lavoro.»
Si intrecciò in tutta tranquillità le dita dietro la nuca. «Nessuno ti costringe a rimanere qui. Se non ti sta bene il modo in cui vieni trattata sei libera di andartene» disse semplicemente.
Chiusi le dita a pugno e le strinsi fino a far diventare bianche le nocche. Ero furiosa oltre ogni misura.
«Ma guardati. Guarda come sei diventato. Era davvero così che volevi essere? Hai passato una vita a cercare di non assomigliare a Doflamingo e a dire che non eri affatto come lui. E invece sei identico. Quando ti guardo riesco quasi a vedere la stessa persona. Non mostri pietà o compassione per nessuno. Se solo Cora-san potesse vederti adesso...»
A quelle parole scattò in piedi, senza darmi il tempo di finire la frase.
«Non osare pronunciare il suo nome. Tu non sai niente di lui.» sibilò, in preda alla furia omicida.
Mi portai le braccia sui fianchi e spostai il peso del corpo da un piede all’altro. Non ero preoccupata da quel suo gesto. Non avevo paura di Law. Anzi, ero contenta di essere finalmente riuscita a provocarlo, a farlo reagire in qualche modo.
«E tu invece? Tu cosa sai di preciso? Cosa sai di me? Sono quasi morta e da quel momento tu non mi hai più rivolto la parola. Ti sei mai preoccupato, bendaggi e medicazioni a parte, di sapere come stessi? Ovviamente no, perché l’unica cosa che hai visto è stato il mio errore!» gli gridai con rabbia.
«Se il fatto di essere quasi morta ti spaventa così tanto, dovresti rivedere le tue priorità e il tipo di vita che hai scelto» rincarò la dose, in tutta tranquillità, rimettendosi a sedere e apparentemente calmandosi. Il Chirurgo della Morte non poteva mostrarsi preda delle emozioni, perché lui era freddo e calcolatore, aveva il cuore di pietra e non aveva sentimenti. Ma a me non la dava a bere. Non l’aveva mai data a bere. Non gli avrei permesso di ferirmi, non questa volta. Avrei contrattaccato con tutti i mezzi a mia disposizione, se necessario.
«Tu sei il capitano di una ciurma di pirati. Dovresti preoccuparti di informarti sulla salute fisica e mentale dei tuoi sottoposti. Noi non siamo macchine. Siamo esseri umani, con dei pensieri, dei sentimenti e dei limiti. Se il fatto che io non sia infallibile non ti sta bene allora sei tu a dover rivedere le tue azioni e il tuo comportamento.» gracchiai «Forse dovresti iniziare a valutare di formare una ciurma nuova, composta interamente da bestie, come quella di Kaido» gli consigliai poi, con sarcasmo.
Ci fu un attimo di silenzio. In quei secondi pensai di aver vinto, ma invece lui tornò alla carica.
«Sono il tuo capitano. Non devo farti da padre. Se hai bisogno di una figura paterna trova un modo per tornare a casa ed evita di piagnucolare»
«Non pretendo e non ho mai preteso che tu mi faccia da padre, o da fratello, o da angelo custode. E tu lo sai. Mi piacerebbe semplicemente che tu non mi vedessi come un automa o come un tuo esperimento fallito» gli comunicai, cercando di tranquillizzarmi. Non solo non mi rispose, ma si premurò anche di ignorarmi completamente e di tornare alla sua lettura. Questo dimostrava che persona fosse davvero Law e quanto poco realmente ci tenesse a me.
«Ti ho salvato la vita. Io ho fatto il mio dovere, al contrario di te» mi comunicò poco dopo. La sua voce era così calma e indifferente che fu come se una lama mi attraversasse il corpo da parte a parte. Mi morsi un labbro, cercando di tenere a bada le lacrime di rabbia che premevano per uscire. Non sapevo perché quella frase mi avesse fatto così male, eppure mi ritrovavo a lottare per far uscire le parole, che morivano in gola a causa della mia voce spezzata. Una frase. Era bastata una frase per demolirmi completamente. Per farmi sentire come se fossi un completo fallimento su tutta la linea.
«Marco. È stato Marco a salvarmi la vita, se vogliamo essere precisi» lo corressi, in tono leggermente altezzoso, una volta che mi fui ripresa dal mio malessere «senza di lui tu non avresti avuto nessuna ferita da medicare e nessuno da incolpare per quanto accaduto o da disprezzare. Non sarei qui a farti da schiavetta se non ci fosse stato lui. Dovresti ringraziarlo, ha salvato una tua sottoposta. Ha fatto quello che avresti dovuto fare tu» soffiai, quasi accusandolo di essere stato troppo negligente.
Alzò la testa dal libro, senza guardarmi, sfoggiando un piccolo ghigno sul viso.
«Che ne è della tua riconoscenza verso il tuo capitano?» chiese, con una voce suadente e provocatoria. Sapevo che stava iniziando ad arrabbiarsi, e quel suo sogghigno altro non faceva che confermarmi che stava semplicemente giocando con me. Ma stava giocando con il fuoco ed io lo avrei bruciato, stavolta. Perché se così non fosse stato, sarei bruciata io, piano piano, pezzo per pezzo, dall'interno; proprio come aveva fatto Ace.
«Tutto ha un limite.» risposi con sprezzo. Mi rendevo conto che probabilmente stavo esagerando. Mi aveva pur sempre accolta sul suo sottomarino e presa con sé nella sua ciurma, mi aveva insegnato l’arte medica e affetto, gratitudine e pane a parte, non mi aveva mai fatto mancare nulla. Ma io ero arrivata ad un punto in cui non potevo più starmene in silenzio. Dovevo lasciar uscire tutto quello che pensavo, perché altrimenti i miei pensieri mi avrebbero ucciso lentamente dall’interno. Erano troppo logoranti per poter fare finta di nulla. Ormai non potevo più tenermeli dentro. Prima che potessi dire altro, però, fui preceduta da Law.
«Se la Fenice non ti avesse salvata io mi sarei liberato di un’enorme scocciatura» commentò girando una pagina del suo libro, come se non fossi lì. Sentii la rabbia partire dal petto ed irradiarsi rovente in tutto il mio corpo. Il cuore martellava rapido contro le pareti della mia gabbia toracica, la mascella era ermetica, le mani mi tremavano. Le chiusi a pugno, inspirai ed espirai profondamente un paio di volte e poi sorrisi amaramente.
«Ecco dove volevo arrivare» gli annunciai puntandogli l’indice ancora tremante contro «tu non hai mai smesso di vedermi come una palla al piede» affermai contrariata.
«È quello che sei. Lo sei sempre stata e sempre lo sarai. Fattene una ragione» dichiarò freddamente.
Nel sentire le sue parole, prima annuii ritirando in dentro le labbra, poi abbassai lo sguardo e cominciai a scuotere la testa, per nascondere le lacrime che a breve avrebbero rigato le mie guance. Presi un respiro profondo per infondermi forza. Non potevo piangere davanti a lui. Quello sarebbe stato il gesto che mi avrebbe fatto toccare il fondo, sempre che non l’avessi già toccato.
«Fattene una ragione? Sul serio?» chiesi, senza aspettarmi una risposta, con gli occhi pieni di lacrime. Cercai di ricacciarle tutte indietro. Piangere, in quel momento e arrivati a quel punto, era fuori discussione.
«Certo. Ha senso detto da uno che per tredici anni ha bramato e pianificato la sua vendetta contro un altro uomo» considerai sarcasticamente allargando le braccia. Quella conversazione, se così si poteva chiamare, stava diventando assurda e surreale.
«Non era un uomo» si affrettò a precisare in un sibilo. Vidi le sue dita stringersi con vigore attorno al libro che teneva in mano. Le sue nocche erano diventate esangui e i suoi occhi erano pieni di odio. Una solitaria gocciolina di sudore era comparsa sulla sua fronte, mentre il libro iniziava a scricchiolare sotto la pressione della sua violenta presa. Temevo che potesse ridurre in poltiglia quel povero manuale. E non era escluso che lo facesse anche con me.
Si voltò verso di me in uno scatto, potevo vedere chiaramente le sue iridi grigie fiammeggiare per l'ira.
«Non ti immischiare in affari che non ti riguardano.» mi ordinò. Percepivo una velata rabbia nella sua voce. Era ancora convinto di poter riuscire a celarmi le sue emozioni.
«D'accordo. Tanto è questo tutto quello che sai dire. Continui sempre a ripetere le stesse cose» dichiarai, sbuffando una risata.
Non disse nulla. Si limitò ad avvicinare la sedia al tavolo, poggiarci sopra il manuale e ricominciare a leggere.
«Esci e chiudi la porta» mi intimò dopo un po’, sempre immerso nella sua misteriosa lettura. Evidentemente si era stancato di me e di quella discussione. O forse aveva paura di perdere, per una volta. Mi voltai e feci per andarmene, ma poi mi bloccai, asciugai velocemente gli angoli degli occhi con la mano e mi rigirai verso il capitano. Non poteva finire così. Non potevo dargliela vinta. Corrugai le sopracciglia, incrociai le braccia e tornai ad appoggiarmi allo stipite della porta.
«Perché devo essere io? Perché devo sempre essere io quella che paga il prezzo più alto?» gli chiesi nuovamente, sperando in una risposta più esauriente questa volta.
«Smettila di lamentarti. Smettila di fare la vittima e di comportarti come se fossi una mocciosa di quattro anni» rispose lui con durezza e senza degnarmi di uno sguardo.
«Quindi è così che mi vedi? Ci conosciamo da quasi due anni, abbiamo passato gli ultimi mesi sempre insieme e ancora mi vedi come una ragazzina stupida, immatura ed indifesa, oltre che una palla al piede?» domandai, annuendo ripetutamente, come per convalidare quello che già pensavo.
«Il tuo comportamento non fa altro che confermare quello che penso su di te» mi comunicò, voltando un’altra pagina del libro che aveva sotto gli occhi.
«Sai che c’è? Hai ragione. Ho deciso di commettere un errore scegliendo di stare sulla tua nave» feci, molto amareggiata. Poi scossi la testa sbuffando una risata, appena prima di umettarmi le labbra con la punta della lingua «non so perché sto qui a perdere il mio tempo»
«Se credi che sia una perdita di tempo, vattene. Te lo ripeto. Nessuno ti trattiene qui, tantomeno io. Sei libera di fare ciò che desideri» annunciò, sempre preso dal suo stupido libro.
«Bene. Allora facciamola finita con questa farsa. Cacciami dal sottomarino. Te lo ripeto anche io. Non intendo stare un secondo di più con persone che non mi apprezzano. Valgo troppo per sprecare così il mio talento.» ribadii. Ero così arrabbiata che avrei voluto tirargli un pugno dritto sul naso. Ero davvero arrivata al limite stavolta.
«Sentiremo la tua mancanza» affermò ironicamente Law prima di inumidirsi il pollice con la saliva e girare l’ennesima pagina.
Quello era troppo. Eravamo arrivati al punto di non ritorno.
Sbuffai mentre sentivo l’ira impossessarsi di tutto il mio corpo. Mi voltai velocemente e feci per andarmene per non peggiorare ulteriormente la situazione, ma prima di togliere le tende, sentivo il bisogno di dirgli un’ultima cosa.
«Sei proprio come quel mostro di Doflamingo» dichiarai, scuotendo la testa e guardandolo come si guarderebbe un povero cane randagio in cerca di cibo. Non era rabbia quella che c’era nel mio sguardo. Era pietà.
Fu un attimo. Non lo vidi nemmeno spostarsi e non udii il rumore della sedia che si scostava dal tavolo. Sentii solo le sue dita gelide e affusolate premere contro il mio collo. Quella sensazione mi era fin troppo familiare. Il giorno in cui ci eravamo incontrati aveva fatto lo stesso, e nel momento in cui sentii il suo tocco sussultai, proprio come avevo fatto la prima volta. Ma stavolta non era la paura ad avermi fatto sobbalzare, semplicemente mi aveva colta di sorpresa.
Mi soffermai ad osservare il suo braccio, teso ed allungato verso di me. Da quella distanza potevo sentire il suo profumo inondarmi le narici. Poi alzai lo sguardo e lo fissai negli occhi, così intensamente che pensai che avrei quasi potuto entrare nella sua mente.
«Attenta a quello che dici. Dovresti sapere bene che cosa gli è successo. Potrei farti fare la sua stessa fine in meno di un secondo» soffiò. Nei suoi occhi grigi c’era una rabbia che non gli avevo mai visto prima. Eccolo. Il suo punto debole, quello che gli faceva abbandonare tutta la calma e la compostezza che lo caratterizzavano. L’avevo trovato, finalmente. Ero riuscita a far perdere le staffe a Trafalgar D. Water Law. Il mio era davvero talento.
«Oh, allora non c’è bisogno che io mi preoccupi, visto che non sei stato tu a sconfiggerlo. È stato Rufy. E lo sai bene.» lo dissi quasi ridendo, come se mi stessi prendendo gioco della sua debolezza, della sua incapacità di portare a termine l’obiettivo che si era prefissato da tutta una vita.
«Non mi provocare, Camilla. Credi di sapere tutto di me solo perché hai letto qualche insignificante pagina di uno stupido manga, ma non sai di cosa sono realmente capace» mi ammonì con tono vellutato. Pronunciò quelle parole così a sangue freddo che mi venne la pelle d’oca su tutto il corpo. Sapeva essere molto raccapricciante, a volte. Pensai che mi sarebbe piaciuto vedere il suo vero potenziale un giorno, purché non ne fossi io la vittima. Forse sarebbe stato meglio andarci più piano e darsi una regolata. Ma arrivati a quel punto, non potevo più fermarmi.
Sentii la sua mano premere con più forza contro la mia pelle.
«Forza, uccidimi» soffiai «non ho paura di te. Non ho nulla da perdere» pronunciai quelle parole con un bagliore di follia negli occhi. Erano parole vere. Non avevo davvero nulla da perdere. L’unica cosa che avevo e che volevo, che era la stima del mio capitano, l’avevo già persa lungo la strada.
I nostri volti erano a pochi centimetri l’uno dall’altro. Io lo osservavo con sfrontatezza, mentre lui mi fissava con un’espressione impassibile. Era tornato in sé, a quanto pareva.
«Porterò i tuoi saluti a Cora-san. Non sono sicura che ne sarà felice, però» continuai poco dopo, sogghignando. Non sapevo più cosa stavo dicendo. Non ero più io a parlare, era la collera. Tutta l’ira che avevo accumulato dentro in quei mesi era esplosa in quei minuti ed ora si stava riversando violentemente fuori dal mio corpo tramite le parole. Non ero io quella persona. Io non ero così meschina e cattiva. Non pensavo davvero quello che avevo detto. Oppure sì?
Le sue dita si strinsero ancora di più attorno alla mia gola. Deglutii. Stava cominciando a mancarmi il respiro e gli occhi iniziavano a bruciare. Potevo sentire chiaramente il mio collo pulsare sotto la sua morsa stritolatrice.
«Non ti darò questa soddisfazione» sibilò poco dopo, appena prima di lasciare la presa su di me.
Sbuffai una risata e allargai le braccia. «Non mi sorprende. Tu non dai soddisfazioni a nessuno» lo schernii.
«Stai al tuo posto, ingrata. Non sei altro che una ragazzina troppo immatura, presuntuosa, viziata e insignificante» sputò, con aria minacciosa.
Presuntuosa a me? Immatura? Viziata? Insignificante? Ingrata? Serrai la mascella e scossi la testa. Questo era davvero troppo. Sentivo il cuore martellarmi nel petto e tutto il mio corpo tremare, tanto ero adirata. Decisi che invece di esplodere come un vulcano in eruzione sarebbe stato meglio mantenere un approccio freddo.
«Wow. Usi addirittura le stesse parole del Demone Celeste» dissi, alzando ed abbassando velocemente le sopracciglia e ghignando con insolenza a mo’ di provocazione.
«Se la tua morte avverrà per mano mia, mi assicurerò che tu muoia lentamente e tra atroci sofferenze» si pronunciò, con calma e scandendo bene le parole, prima di voltarsi, sbattermi la porta in faccia e tornare a sedere composto.
La cosa mi inquietò non poco. Non solo perché il tono con cui l’aveva detto era estremamente serio, ma anche perché sapevo che non si sarebbe fatto problemi a mettere in pratica le sue minacce. Tuttavia non era quello che mi premeva al momento. Mi aveva sbattuto la porta in faccia. La porta. In faccia. A me. Digrignai i denti e la spalancai con forza. Una folata di vento invase la stanza.
«Sei ancora qui? Togliti dalla mia vista.» ribadì con disprezzo.
«Non mi guardare, se ti do tanto fastidio» replicai «E comunque, mi tolgo volentieri dalla tua vista, devo solo dirti un'ultima cosa» gli comunicai. Dopodiché aspettai qualche secondo in cui ci fu solo silenzio.
«Sarai anche il capitano di questo sottomarino, ma non sei Dio sceso in terra, Law. Quando te ne accorgerai sarà troppo tardi per te» lo avvertii. In tutta risposta lui ghignò. Ormai aveva smesso di ascoltarmi. Era completamente disconnesso.
«Farò in modo di sgombrare la mia camera e radunare tutte le mie cose per tempo, così non appena arriveremo in prossimità della prossima isola su cui sbarcherete sarò pronta a lasciare la ciurma e il sottomarino» lo informai, seria.
«Mi hai fatto perdere fin troppo tempo» commentò lui, velenoso, sempre concentrato sul suo libro.
In quel momento tutto quello che avevamo passato insieme, comprese le esperienze belle, divenne insignificante, schiacciato dal peso della furia che avevo dentro.
«Va’ all’inferno.» gli raccomandai con disprezzo. «E con questo ho finito. Non abbiamo più niente da dirci.» ribadii, stavolta sul serio.
Senza nemmeno aspettare la sua risposta me ne andai e mi precipitai in camera mia più velocemente della luce, assicurandomi anche di sbattere rumorosamente la porta, così che tutti capissero il mio disappunto.
«Adesso basta.» sibilai a me stessa, in preda alla collera più totale.
Mi guardai intorno, setacciando ogni minimo particolare presente nella mia stanza e facendo al contempo mente locale su ciò che dovevo fare. Quando ebbi un quadro ben chiaro della situazione, non persi tempo e mi diressi subito verso l’armadio. Spalancai le ante, tirai fuori la borsa – gentile concessione di Nico Robin – e la gettai sul letto. Poi, presi quanti più vestiti potevo tenere in mano ed iniziai a buttarli caoticamente nella sacca. Sembravo in preda alle convulsioni, tanto si muoveva rapido il mio corpo. Il cuore batteva come un martello contro la cassa toracica e potevo sentire il sangue pulsarmi nelle vene, da quanto ero infuriata. Dovevo calmarmi o mi sarebbe venuto un ictus. Fissai il borsone, ormai pieno, abbandonato sul letto ed indietreggiai di qualche passo, continuando a tenere lo sguardo fisso su di esso e ansimando. Mi passai una mano, tremante, su tutta la faccia e poi la portai al petto, come se quel gesto potesse in qualche modo rallentare il mio battito cardiaco. Provai a prendere dei respiri profondi. Avrei dovuto ragionare sul da farsi quando fossi stata più calma e più lucida. Per il momento non avevo idea di che cosa avrei fatto. Non potevo rimanere lì, ma non potevo neanche andarmene. Non così, non in quel momento. Non potevo dargliela vinta; ma non potevo continuare ad andare avanti in quel modo. Non avrei retto la tortura logorante a cui mi sarei dovuta sottoporre giorno dopo giorno. E le cose, dopo la sfuriata che avevo fatto a Law, sarebbero peggiorate ulteriormente.
Sbuffai con violenza. La situazione era critica, il malumore era alle stelle e non mi ricordavo un momento della mia vita in cui fossi stata più incazzata di quanto lo ero ora. Non ero riuscita a calmarmi neanche un po’. Ogni volta che sembravo rilassarmi, ripensavo alla discussione avuta poco prima con quell’idiota e tornavo ad essere furiosa. Avevo i nervi a fior di pelle, il cuore mi batteva a mille, le mani non avevano smesso di tremarmi un attimo, gli occhi bruciavano di rabbia e non riuscivo a stare ferma. Passeggiavo nervosamente avanti e indietro per tutta la stanza, aprendo e chiudendo i pugni ad intermittenza. Avevo agito d’impulso ed ero esplosa, forse stupidamente, perché se mi avesse davvero cacciato dal sottomarino non avrei saputo dove andare; e quasi con certezza avrei dovuto rinunciare al mio sogno. Per quanto mi scocciasse ammetterlo, Law era il mio biglietto d’oro. Il mio unico biglietto. L’unica possibilità che avevo di diventare un bravo medico e di vedere Rufy coronare il suo sogno. Anche se a quel punto non sapevo più se il gioco valesse la candela. E non sapevo se volevo restare sul Polar Tang. Era vero, avevo sbagliato. Avrei dovuto tenermi il chirurgo buono e caro fino al momento in cui avrei avuto l'opportunità di realizzare i miei sogni, ma ero incazzata. Dio, se ero incazzata. Ero al limite della sopportazione e molto probabilmente avevo passato di gran lunga il punto di non ritorno. La situazione stava davvero precipitando, ma stavolta non sapevo se sarei stata in grado di rimediare. Avevo paura di aver mandato tutto a puttane in una manciata di secondi. Che quella fosse la fine della mia carriera come medico sul sottomarino dei Pirati Heart? Non lo sapevo.
Forse, però, avrei trovato un modo per sistemare le cose poco dopo.



Angolo autrice

E fu così che scoppiò la Terza Guerra Mondiale. Ve l'avevo promessa, vi avevo avvisati, ed eccola qui. Adesso si salvi chi può.
Scherzi a parte, lo so. È il festival dell'OOC. Non solo Law si discosta da quello che è il suo personaggio usuale, ma anche Cami lo fa in questo capitolo. Prima che mi puntiate i forconi contro, però, ci tengo a dire una cosa. Le azioni e le parole di entrambi i personaggi sono guidate dalla rabbia. Nel caso di Camilla, è una collera che si è insinuata in lei piano piano, per poi crescere sempre di più, che si è portata dentro per settimane e che alla fine è uscita fuori nel modo più violento e sbagliato possibile. Nel caso del chirurgo, invece, è più un fastidio provocato dalla sua sottoposta, che non vuole e non può stare zitta, che poi è sfociato in furia omicida nel momento in cui la ragazza ha capito quali armi usare contro di lui e ha fatto leva sui suoi nervi scoperti.
Questo è quello che la mia mente ha partorito. Mi scuso per l'incredibile lunghezza del capitolo e vi avviso in anticipo che anche i prossimi saranno piuttosto lunghi. Per il momento, però, possiamo solo aspettare di vedere come evolverà la situazione e se questo conflitto tra "Titani" si risolverà una volta per tutte.
Spero comunque che questo trentaquattresimo capitolo vi sia piaciuto, che sia scorrevole da leggere e che i contenuti siano coerenti. Fatemi sapere cosa ne pensate se ne avete voglia, mi farebbe molto piacere conoscere la vostra opinione! :)
Bene, mi pare di aver detto tutto quello che c'era da dire. A presto!

P.s. E voi, da che parte state? Spalleggiate il gelido e tenebroso chirurgo o siete dalla parte della sua (probabilmente non ancora per molto) piccola e graffiante subordinata?

P.p.s. Buona Pasqua a tutti e Buon Lunedì dell'Angelo! <3
   
 
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