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Autore: AintAfraidToDie    17/04/2017    9 recensioni
A John Watson piacevano le donne.
Mai aveva avuto dubbi a riguardo.
Gli piacevano. Le adorava.
Ma non ne aveva mai amata una.
[Johnlock]
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mike Stamford, Sherlock Holmes
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note:

Salve a tutti! Vorrei darvi qualche piccola precisazione prima di lasciarvi alla lettura di questa mia creatura. La OS è una songfic, ma le canzoni sono state scelte dopo la stesura del racconto. Quindi diciamo che non ne sono stata propriamente ispirata, anzi, ho penato molto nel ricercare  testi che potessero essere adatti ad ogni tema dei vari paragrafi. Perché questa scelta? Non so, in realtà avevo voglia di mettere in risalto il panorama del cantautorato italiano che spesso viene poco considerato. Io ho iniziato ad apprezzarlo da pochi anni, ma devo ammettere che adesso ne sono veramente innamorata. Detto questo, bando alle ciance e buona lettura!

 

 

“A John Watson piacevano le donne.”

 

 

 

A John Watson piacevano le donne.

Mai aveva avuto dubbi a riguardo.

 Gli piacevano. Le adorava.

Ma non ne aveva mai amata una.

 

 

“Dieci ragazze per me, posson bastare

Dieci ragazze per me, io voglio dimenticare

Capelli biondi d’accarezzare e labbra rosse sulle quali morire

Dieci ragazze per me, solo per me.”

(“Dieci ragazze”; Lucio Battisti)

 

***

 

1. Bambole.

Aveva circa sette anni quando iniziò a rubare le bambole di sua sorella Harriet. Non che fossero difficili da trovare: la maggiore dei Watson era quel tipo di persona a cui non piaceva accumulare cianfrusaglie inutili, né amava particolarmente circondarsi di oggetti o ricordi del passato. Nonostante fosse più grande di lui di soli cinque anni aveva già raggiunto un livello di maturità molto elevato rispetto alla media. John si sorprendeva sempre nell’osservare quanto la camera di sua sorella fosse spoglia e francamente priva di qualsiasi cosa che mettesse in mostra anche solo un particolare della sua forte personalità. Non fu quindi difficile per lui scovare in poco tempo un unico scatolone non troppo gelosamente nascosto sotto al letto ad una piazza e mezzo che ogni notte raccoglieva i sogni di Harry.

Quando lo aprì per la prima volta un’espressione di giubilo si fece subito strada sul suo volto: una decina di Barbie se ne stavano perfettamente riposte al suo interno, accatastate di fianco a due o tre diari che, di contro, non stuzzicarono per nulla la sua curiosità. Ma quelle Barbie. Erano tutte belle, slanciate, bionde. Sì, il biondo era sicuramente il suo colore preferito, in fatto di capelli. Sua madre era sempre stata una bionda cenere naturale, ed era veramente bellissima. Sua sorella era una stronzetta dalla tonalità leggermente più scura, ma nonostante la giovane età si poteva tranquillamente affermare che fosse bella in egual modo. Suo padre era l’unico castano della famiglia e sarebbe morto nel giro di sei anni ma questo lui ancora non lo sapeva. Non lo poteva neanche immaginare.

Era quindi con sincera allegria che quasi ogni pomeriggio, appena tornato da scuola, John prendeva le Barbie e le osservava minuziosamente, quasi come se dovesse prepararsi per un compito di anatomia applicata. Le svestiva con cura di tutte le loro belle vesti, studiandone lentamente le forme ma trattandole con una quasi reverenziale gentilezza. Gli piacevano. Le adorava. Le immaginava reali e di rimando sorrideva come un ebete. Un ragazzino dalla libido precoce, John Watson. “Sei solo un porco in miniatura!” gli urlava Harriet, ogni volta che immancabilmente lo coglieva sul fatto. Senza farsi troppi problemi si levava quasi sempre le ciabatte ed iniziava a tirargliele dietro, dando vita ad una scorribanda per la casa in cui finivano sempre per rompere qualcosa. Ma non le tolse mai da lì, né cercò un altro nascondiglio per lo scatolone.

John amava sua sorella. John amava suo padre e sua madre. Erano una famiglia felice e, di riflesso, lui era un bambino felice. Ed allora rideva, rideva e rideva ancora. In cuor suo pensava che avrebbe riso per sempre. Perché è questo che fanno le persone felici, no? Ridono. Non pensano molto. Ridono e basta.

 

***

 

“Acqua azzurra, acqua chiara

Con le mani posso finalmente bere

Nei tuoi occhi innocenti

Posso ancora ritrovare

Il profumo di un amore puro,

puro come il tuo amor.”

(“Acqua azzurra, acqua chiara”; Lucio Battisti)

 

2. Jane.

Durante l’ultimo anno delle medie l’interesse di John nei confronti delle bambole di sua sorella era notevolmente scemato, facendosi sostituire da un incessante pensare. Un pensare catartico, contemplativo, fin troppo riflessivo. Ed il soggetto di tali pensieri era sempre lo stesso: Jane.

I suoi amici giocavano con le figurine, lo incastravano in una noiosa partita a calcetto al doposcuola, lo ossessionavano con l’ultimo fumetto uscito in edicola. Ma lui pensava a Jane.

Sua madre impastava i suoi biscotti al cioccolato preferiti, lo rimproverava per l’ultimo brutto voto preso alla verifica di matematica, gli comprava i jeans che tanto aveva desiderato mesi prima. Ma lui pensava a Jane. Ai suoi lunghi boccoli biondi, quasi sempre raccolti in una treccia all’apparenza infinita. Il modo in cui la muoveva, ondeggiando appena la testa mentre cercava di prendere appunti durante la lezione. I raggi di sole che la facevano risplendere quasi di vita propria. Oh, Dio.

Sua sorella era sempre più isterica, lo riprendeva per qualsiasi cosa facesse, lo occhieggiava continuamente con sguardi di commiserazione e superiorità. Ma non gli importava, lui pensava a Jane. Ai suoi vestiti di buona fattura che rivestivano il suo corpo snello e ben proporzionato. Al modo maniacale con cui coordinava sempre il colore delle scarpe a quello dei calzini di fino cotone che usualmente indossava. Alle sue unghie piuttosto non curate, ma comunque lunghe e fini.

Suo padre, immerso in un tacito silenzio, iniziava a sentirsi fiacco, stanco e dolorante. John non lo sapeva, lo ignorava. Quindi pensava a Jane. Alla sua bocca sempre sorridente, a quei denti bianchissimi e perfettamente allineati, quasi surreali. Ad i suoi occhi azzurri e grandi, racchiusi e incorniciati da un viso tondo ma allo stesso tempo ben delineato. Pensava a Jane. Non sapeva bene il perché. John non era il tipo da porsi troppe domande, soprattutto perché non credeva di essere in grado di rispondersi. Non ancora, perlomeno.

Ma poi una mattina suo padre non fu più capace di alzarsi dal proprio letto. Lui, da quel momento, non pensò più a Jane. Un istante fu abbastanza per dimenticarsi per sempre del sentimento più candido e dolce che avesse mai provato.

 

***

 

“Betty ha talento

Sa ballare con l’amore e la violenza

Si fa prendere e lasciare

Che cos’è la vita senza una dose di qualcosa

Una dipendenza

Vive bene, vive male

Non conosce differenza

Fra la morte di una rosa e l’adolescenza

Fra il fiorire di una rosa e la decadenza.”

(“Betty”; Baustelle)

 

3. Il principio.

La sua prima volte fu qualcosa che essenzialmente non aveva proprio programmato. John Watson aveva quindici anni e suo padre era morto da qualche tempo. Non si ricordava quando. Non lo voleva ricordare, in realtà. In casa sua ormai non si rideva più tanto spesso e l’unica cosa che riusciva a farlo stare almeno un po’ tranquillo era starsene fuori casa il più tempo e il più frequentemente possibile. L’immagine di sua madre immersa nel suo lutto eterno era un qualcosa che però lo perseguitava in qualunque angolo della città decidesse di andare. La vedeva sempre, sì: reclinata davanti alla foto di suo padre, le mani giunte in una preghiera perennemente silenziosa. Intorno a lei solo pece quasi tangibile, un buco nero che sembrava fagocitarla ogni giorno di più. John pensava.

Pensava che sua madre sarebbe morta di crepacuore. Il buco nero l’avrebbe presa, l’avrebbe mangiata e non gli avrebbe nemmeno restituito ossa o brandelli di carne sui quali spendere pianti di cordoglio. Non che ciò potesse rincuorarlo, pensava. Ma quella precisa sera non pensò. Non pensò a niente.

Era un qualunque sabato di un qualunque Inverno di un qualunque anno dopo la morte di suo padre. Uscì di fretta da casa, salutando sua madre, o perlomeno ciò che ne rimaneva.

“Mamma esco.” Silenzio.

“Mamma non so quando torno.” Silenzio.

Mamma.” Silenzio. Solo, soltanto silenzio.

Quindi uscì. In tasca lo stipendio da cameriere part-time riscosso il giorno precedente, nel cuore un freddo più tagliente delle pericolose lastre di ghiaccio formatesi sull’asfalto. Camminando a passo svelto raggiunse in pochi minuti una delle zone più malfamate della città e senza dare troppo nell’occhio si mise ad osservare attentamente tutte le prostitute presenti sul ciglio opposto della strada. Dopo qualche minuto di riflessione scelse la più giovane, la più ben vestita, la più magra, la più alta, la più carina. La più bionda.

“Quanto vuoi?” le disse senza esitare, dopo essersi avvicinato in maniera abbastanza sospetta.

“Cinquanta bocca, cento servizio completo. Ma visto che sei così giovane e carino potrei farti uno sconto, ragazzino.” gli rispose con un sorriso beffardo, quasi di scherno. John trattenne a stento una polemica constatazione sul fatto che ella non potesse avere che qualche anno in più di lui.

“Non lo voglio, lo sconto.” rispose invece, guadagnandosi un’occhiata sorpresa della Barbie. Occhiata che durò giusto il tempo di un battito di ciglia, in realtà. Poi con fare sicuro lo prese per mano, conducendolo in un vicolo praticamente limitrofo. Un luogo buio, triste e maleodorante. Ma a John non importava. A John andava bene, sì. Andava bene così.

La scopò senza problemi, come se non avesse fatto altro nella vita. Andare con le prostitute; in realtà non ci aveva mai pensato. La scopò in maniera meccanica, piegandola a novanta contro il muro, tirandole giù mutandine dall’estensione estremamente ridotta e la gonna di jeans assurdamente corta. Non la baciò, non la annusò, non la accarezzò. Le aprì le gambe e con disinvoltura s’infilò il preservativo che si era procurato in giornata. Poi la penetrò con calma, assaporando appieno la sensazione di scivolamento dentro quella carne morbida e incredibilmente scivolosa. La Barbie sembrò apprezzare e ansimò appena. John non sapeva se fingeva. Non gli importava. 

Venne dopo poche spinte, sconcertato dalla quantità e dall’intensità di sensazioni fisiche che era stato in grado di provare. Solo a quel punto si concesse di accasciarsi un poco sulla sua schiena, con il chiaro intento di prendere fiato. Un odore di rosa muschiata gli invase le narici in un secondo. Paradossalmente quel dolce sentore lo nauseò più del puzzo di fogna che aleggiava intorno a loro, rendendo quel vicolo un fetido luogo altrimenti da evitare. Trattenne a stento un conato di vomito e si staccò dal corpo della ragazza velocemente, sfilandosi il condom e ricomponendosi alla meglio. La guardò.

Lei lo guardò. Uno sguardo vacuo, due occhi azzurri che sembravano capaci di risplendere anche nel buio di quella notte incredibilmente fredda e scura. Era bella, sì. Ma ormai anche quella superficiale variabile non aveva più alcuna importanza. Non sapeva nemmeno il suo nome. Non gli importava.

Si frugò nelle tasche dei pantaloni e, senza proferire parola, le porse un foglio da cento sterline abbastanza stropicciato. Lei lo prese, lo guardò. Si girò.

“Ciao.” disse rivolto alla sua esile schiena. Ma non ricevette risposta.

 

***

 

“Il carretto passava e quell’uomo gridava ‘gelati!’

Al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti

Io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti

Il più bello era nero e coi fiori non ancora appassiti

All’uscita di scuola i ragazzi vendevano libri

Io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli

Poi sconfitto tornavo a giocare con la mente e i suoi tarli

E la sera al telefono tu mi chiedevi ‘perché non parli?’

L’universo trova spazio dentro me

Ma il coraggio di vivere, quello, ancora non c’è.”

(“I giardini di Marzo”; Lucio Battisti)

 

3. La vanità.

Era Inverno. Nel suo cuore in realtà era sempre Inverno. Sua madre era morta. Infarto, dicevano i dottori. “Cuore spezzato in maniera non molto metaforica.”, pensava lui. Gli ultimi anni era stato letteralmente uno strazio. John era stato lo spettatore principale della decadenza di una famiglia un tempo felice, serena. Una famiglia che ormai sembrava lontana, distante anni luce. Si era spesso meravigliato di come le cose ad un certo punto della vita potessero deliberatamente prefiggersi di andare male; di male poi in peggio. Ed è noto come si suol dire, no? Al peggio non c’è mai fine.

Quindi aveva sotterrato sua madre vicino alla tomba di suo padre. Sua sorella, nel tempo intercorso tra la morte e il funerale, si era trasferita dalla fidanzata di turno della quale John non ricordava neanche il nome. Era solo. Completamente solo. Una solitudine particolare, viscerale. Ma, paradossalmente, era calmo. Tranquillo. Silenzioso.

Mike Stamford, suo compagno d’Università nonché coinquilino ormai da un anno, aprì all’improvviso la porta della sua camera senza neppure bussare.

“John!” il suo sguardo roteò velocemente nel perimetro della stanza per poi posarsi su di lui, trovandolo seduto sul letto in maniera perfettamente composta. “Amico. Tutto ok?”

“Certo.” rispose pacatamente, accennando un sorriso. “Che c’è?”

“C’è quella tipa. Insomma, la bionda. Adesso mi sfugge il nome..”

“Emma?” gli venne subito in mente, senza pensarci su neanche un po’.

“Sì, ecco. Dice che ti ha chiamato duemila volte e alla duemila e uno senza risposta è venuta qui ad appurare se sei ancora vivo o no.” gli sfuggì una mezza risata. “Testuali parole, eh.” aggiunse poi, scrollando le grosse spalle.

“Uhm. Un po’ tragica.”

“Già. È quello che ho pensato anch’io e per questo è ancora alla porta. Che faccio?”

“Falla venire. Grazie, Mike.” gli donò un lieve accenno di sorriso. “E scusa se non ho sentito il campanello. Stavo.. ehm, stavo pensando.” fu l’unica cosa che gli venne da dire. La verità, insomma.

Mike lo guardò un attimo, giusto il tempo per riflettere su cosa fosse il caso di dire o no. Sapeva della morte di sua madre, ma sapeva anche quanto lui fosse restio a parlare di fatti personali. Quindi alla fine non disse niente e John, mentalmente, lo ringraziò una seconda volta.

“No problem, John.” fu l’ultima sua frase prima di congedarsi con un occhiolino d’intesa, lasciandosi alle spalle la porta della camera aperta. La figura di Emma Sigel apparve in prossimità dello stipite nel giro di qualche secondo, sostituendo quella ben più robusta del suo caro amico.

Emma era onestamente una ragazza niente male, John doveva ammetterlo. Ma la verità era che aveva deliberatamente ignorato le sue chiamate per giorni ed aveva archiviato le sue mail senza neanche leggerle. La verità era che aveva messo il suo contatto in modalità silenziosa forse neanche tre ore prima di quella sua improvvisata. Eppure eccola lì, la dolce e assillante Emma. Una Barbie dal carattere troppo insicuro, per gli standard di John. Dotata di un bel fisico, di occhi grandi e azzurri che ti facevano deglutire appena. Era giovane, snella. Bionda. “Te le scegli con lo stampino.”, sentì una voce rimbombare direttamente dentro la sua scatola cranica. La scacciò con un battito di ciglia più intenso.

“John.” gli disse, avvicinandosi un poco e chiudendo la porta con veemenza. Rimprovero nella sua voce, tensione nei suoi arti. Aveva paura di perderlo. Credeva di amarlo, forse. John lo sapeva. Ma a John non importava.

Quindi semplicemente si alzò dal letto. Le si avvicinò con cautela, poggiandole leggermente una mano sul collo, saggiando di poco la morbidezza della sua pelle vagamente abbronzata. Le respirò appena sulla bocca rossa di lucidalabbra e carnosa di natura, spingendola verso sé stesso per mezzo di una lieve pressione sul suo fondoschiena. Emma sussultò di rimando ed allora lui premette la propria bocca sulla sua e aspettò. La Barbie fece uscire qualche millimetro di lingua dalla sua cavità orale ed il preciso pensiero che si affacciò nella mente di John in quell’istante fu che il più era fatto. Sì, pensò.   

Pensò che l’avrebbe spogliata. Che avrebbe guardato quel perfetto corpo curato e totalmente depilato perché Emma sapeva benissimo che lui ci teneva, che a lui piaceva così. E lei lo faceva; faceva quasi tutto, per John.

Pensò che l’avrebbe stesa sul letto e che dopo qualche bacio con la lingua l’avrebbe finalmente scopata, magari preparandola un po’. Beandosi della sua eccitazione liquida già sicuramente presente. Faceva questo effetto alle ragazze, John Watson. Onestamente non sapeva il perché, ma ormai era una costante che aveva appurato col passare del tempo. Aveva ventitré anni ma aveva scopato tanto, molto. Forse troppo.

Ma non amava. Non aveva mai amato. Sicuramente non amava Emma Sigel. Ma la baciò lo stesso, la toccò lo stesso. La penetrò lo stesso, quasi ipnotizzato dall’atto. Perché solo in quel preciso momento. Solo ansimando con ardore sul suo collo, tirandole leggermente i capelli. Solo dando sfogo alla sua libido con quella che non gli sembrava altro se non l’ennesima bambola della sua vita. Soltanto raggiungendo il culmine del piacere fisico, John non pensò. Non pensò più a niente.

 

***

 

“E mentre marciavi con l’anima in spalle

Vedesti un uomo in fondo alla valle

Che aveva il tuo stesso identico umore

Ma la divisa di un altro colore

Sparagli Piero, sparagli ora

E dopo un colpo sparagli ancora

Fino a che tu non lo vedrai esangue

Cadere in terra a coprire il suo sangue

E se gli sparo in fronte o nel cuore

Soltanto il tempo avrà per morire

Ma il tempo a me resterà per vedere

Vedere gli occhi di un uomo che muore.”

(“La guerra di Piero”; Fabrizio de Andrè)

 

4. Conflitto latente.

La guerra lo aveva cambiato in maniera profonda, ma non sicuramente nel modo in cui avrebbe pensato la maggior parte della gente. Arruolarsi nell’esercito dopo essersi laureato era stata una scelta che gli era sovvenuta alla mente in maniera praticamente spontanea e lineare, senza troppe ansie o emozioni. Non era stato un sacrificio, né un atto d’onore: voleva scappare. Voleva andarsene, lasciarsi tutto alle spalle e provare a vivere una vita diversa. Era stata una scelta dettata dal suo proverbiale egoismo. Tutto qui.

La guerra lo aveva sorpreso più di quanto lui stesso avrebbe potuto inizialmente pensare. John era abituato alla morte. John ci conviveva praticamente da sempre, con la morte. John pensava che sarebbe morto anche lui, prima o poi. Ci pensava continuamente, ma non in Afghanistan. Paradossalmente l’Afghanistan, ponendolo in prima persona davanti all’incubo della morte, gli aveva tolto un sacco di pensieri. Era quasi ironico il fatto che fosse andato alla ricerca della vita e del suo significato proprio là dove più regnavano morte e distruzione: nelle macerie, nell’inferno di città devastate. Proprio lì, dove la guerra uccideva gli uomini e con essi i loro sogni, i loro amori e le loro speranze, lui si era sentito vivo. Vivo come mai prima. La guerra come orrore. La guerra come amore. L’amore per la guerra.

Tutto ciò lo aveva anestetizzato come una dolce droga sedativa, come una delle sue migliori scopate. A John Watson continuavano a piacere le donne, ma sin dal primo tentativo di approccio aveva appurato che le arabe non facevano proprio per lui. “Belle donne, per l’amore del cielo.”, pensava. Ma quei capelli terribilmente scuri e spessi. Quella pelle abbronzata e quasi coriacea. Quegli occhi neri come pozzi profondi e infiniti. Quell’odore persistente di incenso, sandalo e sabbia. Nessuna Barbie, in Afghanistan. Ma non gli era importato. Per la prima volta, non gli era importato per niente.

John Watson ormai era un uomo. Era un medico, era un soldato. Anelava lo scontro e sfidava la morte, la distruzione ed il caos. Il campo di battaglia era la sua nuova casa. I suoni delle armi la musica di sottofondo delle sue giornate. “Papà, mamma.”, pensava ogni tanto. “Che tristezza, la mia vita.”

Pensava, ma poco. Pochissimo.

 

***

 

“Però, (che cosa vuol dire però?)

Mi sveglio col piede sinistro, quello giusto.

Forse già lo sai che a volte la follia

Sembra l’unica via per la felicità

C’era una volta un ragazzo chiamato pazzo

E diceva sto meglio in un pozzo che su un piedistallo

Oggi ho messo la giacca dell’anno scorso

Che così mi riconosco ed esco

Io, un tempo era semplice

Ma ho sprecato tutta l’energia per il ritorno

Un ultimo sguardo commosso all’arredamento

E chi si è visto, s’è visto.”

(“Altrove”; Morgan)

 

5. La fenice.

Quando John fece ritorno in Inghilterra tutto era di nuovo ed inevitabilmente cambiato. Tutto. Non era più un ragazzo pieno di possibilità nel mondo. Non era più un soldato, una macchina da guerra al servizio dell’Inghilterra e di Sua Maestà. Era solo John Watson, un rispettabile reduce claudicante, squattrinato e solo. In realtà non era arrabbiato. Pensava. Pensava che in un certo qual modo che le cose forse, semplicemente, dovevano andare in quella maniera. In maniera triste.

Era solo, sì. Quello era il suo destino. Era solo praticamente da sempre e ciò che amava.. beh, ciò che amava finiva per distruggersi, finiva per morire. Harriet era morta. Harriet era morta nell’attesa di un fegato che non sarebbe arrivato mai. Perché era un’alcolista, perché non se lo meritava. Beveva come una spugna da quasi vent’anni, Harriet Watson. Beveva da quando loro padre era morto.

Era Inverno, Harry era morta e lui lo sapeva. Sapeva che sua sorella sarebbe morta, prima o poi. Quindi non pianse. Sospirò. E pensò.

Pensò finché una mattina non incontrò Mike Stamford. John era ormai solito dedicarsi a lunghe passeggiate mattutine, un po’ per la noia e un po’ perché ritrovarsi coinvolto nel caos cittadino lo faceva sentire parte integrante di un qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Ma si sorprese non poco quando la figura robusta del suo vecchio amico gli si sedette accanto nella sua panchina preferita del parco in cui ogni giorno passava una buona mezzora del suo tempo.

“John. John Watson!” lo salutò in maniera solare, regalandogli sensazioni piacevoli che da non poco erano in lui più che sopite. Quindi gli raccontò tutto.

Gli raccontò di come si fosse ferito in Afghanistan, di come la sua carriera nell’esercito fosse completamente andata a puttane nel giro di qualche secondo. Lo sparo, il buio, il nulla. Gli raccontò di come fosse tornato a casa. Senza averla, in realtà, una casa. Gli raccontò di come fosse difficile riabituarsi alla vita civile, soprattutto senza possedere nemmeno la base di un qualcosa da cui poter ricominciare. Senza soldi, famiglia, amici.

John pensò. Pensò finché Mike, dopo averlo ascoltato in maniera a dir poco migliore rispetto alla psicologa che da qualche settimana pagava profumatamente, non lo trascinò quasi a forza in un obitorio ad incontrare colui che a suo dire sarebbe stato il perfetto coinquilino per lui. Pensò finché non vide il suddetto perfetto coinquilino frustare con assurda veemenza un povero cadavere, blaterando ipotesi e teorie sperimentali sugli orari di apparizione di lividi post-mortem.

“Questo è un pazzo.”, pensava. “Questo è un folle.”, avrebbe voluto dire a Mike, il quale però era troppo impegnato a lanciargli sorrisetti ambigui e occhiatine saccenti per accorgersi della sua assoluta incredulità.

Poi lo sconosciuto si girò, lo guardò; anzi, lo fissò. Lo fissò con due occhi freddi come il ghiaccio, un sorriso obliquo e tirato. John deglutì in silenzio, assoggettato dall’aurea di tale figura.

Sherlock, così si chiamava. Sherlock Holmes.

Sherlock continuò a guardarlo, studiandolo. Il tempo di un botta e risposta blando e dalla sua bocca uscì metà dei fatti privati che nemmeno un quarto d’ora prima aveva vomitato addosso a Mike. Dedusse metà della sua vita, senza battere ciglio. Questo è..

Straordinario.” fu l’unica cosa che John Watson alla fine riuscì a dire.

 

***

 

“Lo so

La vita è tragica

La vita è stupida

Però è bellissima

Essendo inutile

È solo immagine

È tutta estetica

Io penso che la vita non è niente e provo a vivere.”

(“La vita”; Baustelle)

 

6. Stasi.

Era Estate e faceva molto caldo. A John Watson continuavano a piacere le donne, ma non scopava più così spesso. “Ah, la vecchiaia.”, pensava di sfuggita ogni tanto. Ma in realtà non si sentiva vecchio. In realtà non era neanche più zoppo. In realtà aveva quasi raggiunto i quaranta ma non riusciva ad individuare nella sua vita un periodo in cui si fosse sentito più attivo e energico di quanto si sentiva in quel momento. Sereno, forse.

Ma le donne. Ah, le donne. Non lo desideravano più come tempo addietro.

“Non posso accettare la tua vita sconsiderata.”, gli aveva detto Jeanine, circa due mesi prima. “Non voglio essere il tuo tappabuchi.”, gli aveva urlato Carrie, chiudendogli la porta del suo appartamento direttamente in faccia. “Non sopporto quel tuo amico strambo.”, gli aveva scritto in un messaggio Eliza.. o forse era Sarah? Beh, non lo sapeva. In fondo non poteva fare alcuna differenza, ormai.

Il fatto principale, l’unica costante che accomunava tutti gli epiloghi delle sue penose storie sentimentali, era Sherlock. Sì, era sempre colpa di Sherlock, in un modo o in un altro.

John andava a cena fuori il giovedì sera e il suo coinquilino lo tempestava di messaggi all’apparenza deliranti su un presunto serial killer individuato tramite GPS telefonico nelle vicinanze del ristorante in cui si apprestava a mangiare. John provava ad andare a teatro ed eccolo lì, già, proprio all’entrata del luogo, intento a blaterare supposizioni riguardo intrighi mafiosi e omicidi annessi. John provava a portarsi a letto qualcuna e subito il telefono squillava: “John, vieni subito se puoi.”, e dopo circa un secondo, “John, vieni anche se non puoi.”

E lui andava, certo che andava. Prendeva le sue cose, si scusava in maniera studiatamente mortificata e nel giro di poco tempo finiva per ritrovarsi nelle situazioni più assurde che la sua vita - Sherlock - avesse mai deciso di presentargli davanti. E non gli importava niente di Jeanine, Carrie, Eliza, Sarah o chicchessia. Non gli era mai importato, in fondo.

“Le relazioni sentimentali sono sopravvalutate, John.”, sentiva una voce, la profonda voce del suo amico investigatore, ripetere a mo’ di litania dentro la sua annebbiata testa. Ma John non lo sapeva, non ci rifletteva. Non sapeva se Sherlock avesse ragione o no poiché, in quel periodo, non pensava più. John agiva e basta; agiva con Sherlock. Agiva per Sherlock.

 

***

 

“Di lacrime poi si bagnò

Il regno che ho chiesto a te, ed ora

Ho i ricordi chiusi in te

La tristezza dentro me

Tra due mani, le mie

Sono i cieli neri che io so

Non si scioglieranno più.”

(“Cieli neri”; Bluvertigo)

 

7. Lutto eterno.

Fu l’anno più freddo di tutta la sua vita. Fu un anno glaciale, quello in cui Sherlock morì. John Watson non credeva che fosse possibile sopravvivere con così tanto freddo fuori e dentro il suo cuore. Era fermo davanti alla tomba di Sherlock e pensava. La pioggia lo aveva infradiciato completamente, ma lui pensava. “Mi manchi Sherlock. Mi mancherai per tutto il tempo che mi resta da vivere. Mi mancherai.. per sempre.”

E non lo sapeva, cazzo. Non sapeva più come fare a smettere di pensare. Lo aveva dimenticato, lo aveva rimosso. Sherlock Holmes aveva preso tutto, di lui. Quasi come se fosse stato un cubo di Rubik da rimettere insieme; quasi come se ormai non ci fossero neanche più, i pezzi da rimettere apposto. Quasi come se anche John in parte fosse lì, sepolto anche lui sotto metri di terra dentro quella stupida bara.

Provò a scopare, ritornando ad essere per una sera il ragazzino sconvolto dalla morte del padre e dal presagio di morte della madre di venti e passa anni prima. Andò da una prostituta, la portò in un motel e la osservò a lungo nuda, distesa sul letto. Era bella. Giovane. Alta. Bionda.

Ma lui vedeva capelli mossi, mediamente corti e neri come la pece. Zigomi alti e abbastanza scavati. Pelle lattea dall’aspetto quasi innaturale. Occhi azzurri, grigi, indefinibili a parole concrete. Mani quasi scheletriche dotate di dita assurdamente lunghe. Un corpo magro, privo di forme morbide da toccare. Vedeva solo ossa, nervi, pelle e muscoli. Vedeva Sherlock. Non ci poteva credere. Non ci poteva neanche pensare.

“Che c’è? Non ti piaccio?” gli disse in maniera impaziente la Barbie in attesa sul letto, risvegliandolo dai suoi pensieri. “Sì che mi piaci.”, pensò. “A me piacciono le donne. Mi sono sempre piaciute le donne.”, pensò, ma non lo disse.

“Scusa.” le disse invece nel momento in cui la riportò nel luogo da dove l’aveva prelevata. Si scusò, sì. Non l’aveva scopata, in realtà non l’aveva neanche sfiorata. Decise comunque di lasciarle cinquanta sterline per il disturbo, o forse semplicemente per sentirsi meno patetico. “Fai pace col cervello, vecchio.” fu il flebile sussurro che gli arrivò in risposta, a cui non fece più di tanto caso.

Tornò nel nuovo appartamento che non riusciva ancora a catalogare come proprio e si masturbò con ferocia, sentendosi male, un male che mai aveva provato prima. Un malessere interno dilagante che gli faceva dolore le ossa, il cuore, il cervello e pure il cazzo. Quindi si masturbò, venne e pianse. Poi, senza nemmeno spogliarsi o pulirsi, si lasciò andare ad un sonno senza sogni. Un sonno che sapeva un po’ di morte. Ci sperava, forse.

 

***

 

“Disorientato ogni qualvolta mi intrometta in argomenti

O in un gruppo di persone attente

Scopro che alla fine non comunico sul serio

Non capisco e per primo non intendo, fraintendo, mistifico e rinuncio

È arduo rinunciare alle persone per cui vivo

Senz’altro è più sensato ritenere che la folla è la vera solitudine

E le amicizie svaniscono d’incanto al cambiare dei contesti

Sono nato per proseguire? O per seguire l’istinto?”

(“So Low - L'Eremita”; Bluvertigo)

 

8. Mary.

Mary Morstan era perfetta. Mary gli piaceva davvero tanto. Era dolce, bella, colta. Era bionda. John l’adorava, l’apprezzava davvero. Adorava il modo in cui tirava indietro il suo folto ciuffo di capelli, incastrandoselo dietro l’orecchio destro. Adorava ascoltarla parlare di libri a lui sconosciuti, film ormai dimenticati dai più, musica indie di alto livello. Adorava il luccichio che aveva negli occhi mentre osservava il mondo; un mondo che, senza sforzarsi troppo, lei riusciva a guardare con incredibile positività e curiosità. Sì, Mary aveva un’anima limpida, un fascio di luce che illuminava tutto ciò che le si avvicinava. Tutto, tranne lui.

John pensava. Pensava che Mary sarebbe stata perfetta, se semplicemente lui non fosse stato John Watson. Se solo fosse stato un altro luogo. Un altro tempo. Un’altra vita.

Sì, in un’altra vita l’avrebbe potuta sposare, ne era certo. In un’altra vita avrebbero potuto avere una casa, un giardino, dei figli e magari anche un cane. In un’altra vita avrebbe potuto prenderla, stringerla, baciarla dolcemente e dirle che l’amava. L’amava da morire.

E non l’avrebbe scopata. In un’altra vita ci avrebbe fatto l’amore. Per sempre.

Ma quella che stava vivendo non era un’altra vita. Quella era la sua solita vita. “Una vita triste.”, pensava. “Papà. Mamma. Harriet. Sherlock. Una vita così triste, senza voi.”

Mary lo guardava, seduta in maniera composta davanti a lui. A stento tratteneva i singhiozzi. Era una donna orgogliosa e gli piaceva anche per questo. Gli ricordava un po’ sua sorella Harriet. “Allora è finita, John?” lo disse piano, quasi come se alzando il tono della voce il fatto potesse diventare improvvisamente reale. “Sì.” lo disse forte perché semplicemente, per quanto potesse fare male, era reale. Lo era e basta.

John non poteva tornare indietro. Non poteva salvare suo padre dal tumore ai polmoni che l’aveva mangiato dall’interno in maniera subdola e silenziosa nel giro di pochi mesi. Non poteva curare il cuore spezzato di sua madre per mezzo di cerotti immaginari e abbracci; ci aveva provato, ma non era bastato. Non era stato abbastanza. Non poteva strapparsi il fegato e donarlo a sua sorella, salvarla dalla sua autodistruzione incessante. Non poteva e basta.

Ma Sherlock. John lo avrebbe potuto salvare. Se fosse arrivato prima. Se fosse riuscito a convincerlo. Se fosse semplicemente stato insieme a lui. Se. Ma. Forse.

La verità era che non aveva salvato nemmeno lui. Era stato capace solo di guardarlo cascare da quel maledetto edificio e sfracellarsi al suolo. Sherlock Holmes era solo carne spezzata, dopo. Era sangue, ossa rotte, occhi sbarrati. Il suo incredibile cervello sparso sul marciapiede come gelatina. Che spreco. Che orrore. Che vuoto.

“Mary, non lo puoi riempire questo vuoto. Ne puoi solo essere fagocitata.”, pensava, mentre la osservava andarsene dal locale immersa in un tacito silenzio.

“Mary. Morirai anche tu, prima o poi.”

 

***

 

“Tu sei lontana, non mi senti

Ti ho cercata dappertutto ed ho trovato solo gente, solo ghiaccio

Qualche briciola di pane per i merli che son come perle nere nella neve maledetta

Tu non temere, sei a casa

Noi non ci lasceremo mai

E anche se fosse sarà il Tempo, non sarà l’Eternità

Ed abbi cura un po’ di te

E scusa, sto per attaccare adesso

Sì, è la musica che ho scritto, eccola qua, modellata su di te, sulle tue complessità

È per il finale della Temporalità

Quando tutto cesserà, guerra o pace, passerà

Tu non la senti

Non importa, ciò che conta è che mi pensi qualche volta

Che tu mangi, che non pianga

E che non siano violentati dalla vita (perché tanto è limitata) i tuoi occhi di smeraldo.”

(“Il finale”; Baustelle)

 

9. Fantasma.

John Watson era sopravvissuto, in un certo qual modo. Era andato avanti, esattamente come aveva sempre fatto per tutta la sua vita, vivendo quell’Inverno del cuore che con gli anni aveva perfettamente imparato a conoscere. Lavorava, mangiava, pisciava. Camminava, beveva una birra al pub con Mike, guardava qualche stupido programma alla televisione. Dormiva. Dormiva un sacco. Dormiva perché solo allora riusciva a smettere di vedere Sherlock. A non vederlo ovunque.

A John piacevano le donne. Le desiderava ancora, certo. Ma non le notava più.

C’era lui, c’era sempre e solo lui. John lavorava e Sherlock era lì, seduto sulla poltrona davanti alla sua scrivania nell’ambulatorio in cui ormai da quasi un anno e mezzo passava la maggior parte del suo tempo. Ogni fottuto giorno era lì, cazzo. Lo guardava con occhietti saccenti e appena un paziente faceva il suo ingresso nella stanza lui si alzava e iniziava a gironzolargli intorno, con il suo tipico sguardo annoiato stampato in faccia e quella frenesia che John conosceva fin troppo bene. “Che noia, John.”, sembrava dirgli. Ma non parlava.

John mangiava noodle in scatola davanti alla televisione il sabato sera e Sherlock era ancora lì, cazzo! Disteso sul suo divano di terza scelta, vestito dei suoi usuali vestiti classici, inevitabilmente scalzo. Guardava il programma, guardava lui. Roteava gli occhi in maniera melodrammatica. “Davvero, John?”, avrebbe detto così, certo. John poteva quasi sentirlo e allora, d’istinto, annuiva. “Lo sai che adoro queste stupide fiction, Sherlock. Mi distraggono.”, pensava. Ma non parlava. Sherlock sbuffava appena di rimando, strusciandogli i piedi usualmente gelidi sulle cosce. John lo osservava qualche secondo in più del dovuto e poi riportava la sua attenzione sullo schermo a colori.

John camminava nel parco e Sherlock era proprio lì, accanto a lui. E già quel particolare stonava in maniera stridente, e già quella constatazione gli faceva deglutire forte quantità enormi di saliva inesistente. Sherlock non avrebbe mai camminato accanto a lui per così tanto tempo. Così simmetrico. Così vicino. Per ore. Sherlock, il vero Sherlock, correva. Divagava a grandi falcate approfittando della lunghezza delle sue gambe assurdamente, dannatamente, infinite. Sherlock poi, tutto ad un tratto, si fermava. Colto da non sapeva quale folgorazione improvvisa, sorpreso da qualche tipo di particolare sicuramente insignificante agli occhi di tutto il resto della popolazione londinese. Quindi andava a destra, andava a sinistra, andava ovunque! Ma non lì. Non sicuramente accanto a lui. Per ore, cazzo.

Sherlock, il vero Sherlock, era morto. Un anno e sei mesi erano passati e John era calmo, tranquillo. Quieto. John Watson sopravviveva con l’inquietante e disarmante consapevolezza di non aver nient’altro da perdere. No, non c’era davvero più nulla.

 

***

 

“Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi ritrovarsi a volare

E sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltare un sottile dispiacere

E di notte passare con lo sguardo la collina per scoprire dove il sole va a dormire

Domandarsi perché quando cade la tristezza infondo al cuore

Come la neve, non fa rumore

E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire

E stringere le mani per fermare qualcosa che è dentro me, ma nella mente tua non c’è

Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi emozioni.”

(“Emozioni”; Lucio Battisti)

 

10. Il sole tramonta comunque.

John Watson non sapeva il motivo per il quale aveva deciso di recarsi al 221B di Baker Street, quel preciso giorno. Era Primavera. I fiori cominciavano a sbocciare, gli uccellini parevano trillare odi di felicità all’unisono. In qualche maniera li sentiva ed in qualche altra maniera riuscivano a scaldare almeno un po’ il suo arido cuore. Perché se c’era, se fosse stato possibile trovare anche solo un lato positivo in quella sua profonda solitudine, esso sarebbe sicuramente stato il modo in cui ormai avvertiva il mondo. I suoi paesaggi. Gli animali. La natura.

Un giorno - non troppo lontano da quel preciso giorno - si era pure ritrovato a commuoversi nel guardare un tramonto. Non gli era mai successo prima. I fatti, le persone, la politica: tutto questo aveva perso senso, non aveva più alcuna importanza. Ma non un tramonto, non un’alba. Non un giorno che in un modo o nell’altro era passato e che in qualche maniera gli aveva donato un’indescrivibile bellezza. La bellezza della vita fine a sé stessa, forse.  

Ma quel preciso giorno non ci pensava. Quel preciso giorno uscì per la sua usuale camminata mattutina e, come molte altre volte aveva fatto, decise che essa sarebbe stata guidata dal vento leggermente tiepido che aleggiava su tutta la città, un vento che sembrava spingerlo dolcemente verso Est. Imboccò svariate vie traverse, sorprendendosi di come Londra stesse ancora metaforicamente dormendo nonostante fosse ormai rischiarata da un fievole sole di Marzo. Dopo circa mezzora di camminata arrivò al parco e lì fu avvolto da un calore interno sempre maggiore, quasi come se improvvisamente qualcosa fosse cambiato. Non sapeva cosa. Si guardò attorno e pensò.

Pensò che è davvero agrodolce il modo in cui certi ricordi non scompaiano ma semplicemente sbiadiscono, lasciandosi dietro una scia di malinconia inopportuna, fastidiosa. Ormai da mesi non vedeva più il fantasma di Sherlock e, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, gli mancava. Gli mancava terribilmente.

Si mise a sedere sulla sua panchina preferita, sospirando appena. Gli mancava una proiezione della sua mente. “Provo la mancanza di una fottuta allucinazione.”, pensava.  

Si era commosso ad osservare un tramonto, un giorno. Lo ricordava bene, sì. Lo ricordava perché mai si era sentito così spezzato, così dilaniato da sentimenti contrastanti e incompatibili. Si era sentito bene, si era sentito male. Bene perché la bellezza non gli era mai parsa una cosa così semplice, tangibile e vicina più di ogni altra donna che avesse mai avuto, più di ogni altra donna che avesse anche solo desiderato. Male perché poi il suo sguardo si era spostato dal  tramonto, scivolando appena verso la sua sinistra e accanto a lui, come sempre, aveva trovato la figura di Sherlock. Sherlock, sì, che fissava l’orizzonte insieme a lui. Sherlock, che con fare distratto si asciugava una lacrima e poi lo fissava. Sherlock, il suo Sherlock, che sembrava quasi volergli dire: “Sono morto. Sono morto prima di potermi rendere conto della bellezza del mondo.” Ma, ovviamente, non parlava. Non poteva parlare. Non avrebbe mai più parlato.

John avrebbe voluto dirgli che aveva ragione, che non si può morire così, sfracellandosi al suolo senza prima aver visto un tramonto, averlo visto davvero. “Tu guardi, ma non osservi.”, gli diceva sempre Sherlock, quando era ancora in vita, quando ancora respirava. Ma John in quel momento sapeva. Sapeva che anche l’investigatore, nonostante la sua incredibile intelligenza, avrebbe avuto ancora tante cose da osservare. Molto probabilmente troppe cose da capire.

John avrebbe voluto dirgli che i fatti più importanti spesso e purtroppo si capiscono quando è troppo tardi. Quando, semplicemente, non c’è più tempo. Quando non c’è più niente.

John, quel preciso giorno, in quel preciso momento, avrebbe voluto dirgli che doveva stare attento. Che la bellezza, quella vera, è un’arma a doppio taglio che può ferire fino alla morte. “Esattamente come te, Sherlock.”, lo pensò in quell’attimo. Ma non lo disse.

Fu quindi con una brutale mancanza nel cuore che corresse il suo percorso mattutino, andando contro vento e ritrovandosi in poco tempo di fronte al 221B.

 

***

 

“Ritornerai, lo so ritornerai

E quando tu sarai con me

Ritroverai tutte le cose che non volevi vedere intorno a te

E scoprirai che nulla è cambiato

Che sono restato l’illuso di sempre

E riderai, quel giorno riderai

Ma non potrai lasciarmi più.”

(“Ritornerai”; Bruno Lauzi)

 

11. Un crescendo.

Era Primavera, quindi. L’erba cresceva, le piante fiorivano e gli animali erano  in fermento. Fu forse per via di questa variabili che John Watson si ritrovò a salire i diciassette gradini che lo separavano dal suo ex appartamento a due a due, colto da un’improvvisa frenesia quasi sconsiderata. Dopo aver provato a suonare il campanello ed aver appurato che la signora Hudson non era evidentemente in casa era stato in realtà un po’ esitante. Tale esitazione era però svanita nel giro di qualche secondo nello stesso istante in cui si era tirato fuori dalle tasche il mazzo di chiavi del 221B che mai aveva ridato indietro. Chiavi che, inconsapevolmente o no, per tutti quegli anni aveva continuato a portarsi appresso ogni giorno.

“Stupido. Sciocco.”, si disse mentalmente, sentendosi quasi un intruso. Ma tale sensazione durò giusto il tempo di arrivare in cima agli scalini. Inspirò aria a gran boccate. Sospirò, un sospiro che sembrò riempirgli i polmoni di pura nostalgia in formato gassoso. Soltanto allora varcò la soglia.

John sapeva di per certo che la signora Hudson non aveva affittato l’appartamento a nessuno, durante quegli anni. Più volte si era domandato il perché e le risposte che gli erano sovvenute per tale quesito erano state generalmente tre: forse per motivi personali, magari per il costo mensile dell’affitto ancora troppo elevato rispetto alla media del quartiere. Forse perché non voleva, semplicemente. Quest’ultima opzione risultò per lui essere quella più valida nello stesso istante in cui posò gli occhi sull’arredamento: niente era veramente cambiato. Forse solamente l’odore aleggiante, non più pregno di sentori chimici ma solo di polvere e vecchiaia. Già, una vecchia casa piena di vecchi ricordi. Nient’altro.

John Watson non si sorprese più di tanto quando il suo sguardo si posò su quelle che un tempo erano state le loro due poltrone, ritrovandole perfettamente statiche e allineate nella stessa posizione in cui l’aveva lasciate anni addietro. E Sherlock era lì, certo che era lì. “Stupido.”, si disse. “Stupido uomo autolesionista.” Ma voleva vederlo. Almeno un’ultima volta, anche solo un’ultima volta. Lì, nel luogo in cui tutto era stato e nel quale niente sarebbe stato più.

John lo guardava e per una volta non pensava. Lo osservava e basta, beandosi di quell’immagine eterea, quasi soprannaturale nella sua estrema perfezione. I dettagli dei suoi usuali abiti, la spigolosità delle sue forme. Era seduto in maniera composta, raccolto in un silenzio palesemente riflessivo. Perché Sherlock era così, davvero; pensava, pensava, pensava sempre! Con quella sua fronte alta leggermente corrucciata, gli occhi chiusi in maniera decisa ma rilassata. La sua pelle assurdamente diafana, quel collo magro e lungo. Invitante, forse. E poi le sue mani, cazzo!, quelle mani. Dita lunghe dall’aspetto aristocratico; mani da pianista, magari anche da amante. Mani che John, ormai, non poteva più toccare. Mani sprecate.

“Ho sbagliato, Sherlock.”, pensava sconvolto da quella visione drammaticamente reale, troppo reale. “Ho sbagliato, sì. Il tramonto più bello, l’alba più magnifica.. sono nulla, in confronto a te. In confronto a tutto ciò che eri. A tutto ciò che saresti potuto essere.”

Sentì i propri occhi inumidirsi appena e si costrinse a cacciare indietro le lacrime. John non voleva piangere, non in quel momento. Non davanti alla consapevolezza che ormai tutto era finito, sì, quello era e doveva essere l’epilogo di quel qualcosa che in tutti quegli anni aveva continuato ad infestare la sua mente come un tarlo affamato di dolore ed angoscia. Doveva metterci un punto. Doveva disinfestare la sua anima.

Fece quindi un passo verso la poltrona, un passo esitante ma allo stesso tempo deciso. In quello stesso istante Sherlock sbarrò gli occhi, quasi come se avesse potuto udire lo spostamento di aria e polvere che John aveva provocato. Il moro lo guardò, con quel suo tipico sguardo indecifrabile. John deglutì appena, incatenando gli occhi a quelli della sua personale allucinazione fatta uomo. Quanto avrebbe voluto parlargli. Quanto avrebbe voluto toccarlo e saggiare la consistenza del suo corpo come mai aveva fatto prima. John avrebbe voluto che fosse vero. Che potesse essere vero. Ma non poteva.

Sherlock si alzò dalla seduta, ovviamente senza proferire parola. John si era sempre chiesto il perché quella sua patetica proiezione mentale dell’investigatore non fosse mai stata capace di sillabare anche solo uno stupido “ciao”.  Gli mancava la voce di Sherlock, temeva di non ricordarsela più. Quindi senza pensarci troppo fece altri due passi in direzione del moro. “Sherlock.” fu un sussurro senza fiato, quello che gli uscì dalla bocca. “Mi manchi.” si concesse di aggiungere, dandosi dello stupido subito dopo. Parlava da solo, cazzo.

Ma poi un sussulto. Un qualcosa che lo lasciò pietrificato, che gli tolse letteralmente il respiro. Sherlock si avvicinò a sua volta e John poté distintamente avvertire un nitido scricchiolio proveniente dalle assi di legno sotto i suoi piedi. Sherlock si avvicinò ancora e John si sconvolse davanti al lieve sentore di un sommesso respiro arrivatogli sulla pelle da circa trenta centimetri di distanza. Ma i fantasmi della mente non respirano, no? Le allucinazioni non hanno fiato.

Un altro passo e tutto era estremamente caldo, strano, vero. Troppo vero.

“John.” gli sussurrò, quasi sulla bocca. “Sei mancato anche a me.”

E John temette di cadere. John, in quel preciso istante, pensò di essere veramente impazzito, di aver perso l’ultimo barlume di sanità mentale rimastogli. E si maledì. Maledì tutto.

“Non adesso.”, pensava. “Non ora che credevo di stare meglio. Non ora che finalmente è arrivata la Primavera.”

Indietreggiò di un poco. Si sentì mancare. Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. Li riaprì.

Ma Sherlock era ancora lì. Sherlock, che lo guardava con uno sguardo esitante, palesemente preoccupato. Sherlock, che sembrava respirare. Sherlock, che sembrava vivo. VIVO.

“John.” un altro sussurro, questa volta articolato in una tonalità leggermente più alta. Ma John Watson non lo sentì. La sua coscienza l’aveva appena abbandonato ed il suo corpo era ormai in procinto di lasciarsi cadere rovinosamente sul parquet del 221B.

 

***

 

“Nei tramonti dentro gli occhi tuoi

E lungo i viali di Parigi o di Los Angeles

Ritrovo il mondo, nei fiori di campo e nei passeri se nevica

Li vedo campare senza niente da mangiare

Osservo Dio, lo lascio fare

Certe notti da nevrastenia, da soffocare

Apro la finestra e volo via, si fa per dire

Come la ginestra nata sulla pietra lavica

Mi vedo lottare come mosca nel bicchiere

Eppure Dio, lo lascio fare

La morte non esiste più, non parla più, non vende più

Mio folle amore

La vita non uccide più i nostri baci, i nostri sogni e le parole

Il tempo non le imbianca più e non si seccano a lasciarle stese al sole

Stringimi le mani, non è niente, che la guerra passerà

Certi Inverni freddi, certi guai, mi fan paura

Prego nel restare ancora qui, mi illudo ancora

Poi improvvisamente arrivi tu, sorridi

E penso che non ho più timore

Lascio correre il dolore, non c’è più

E niente muore.”

(“La morte non esiste più”; Baustelle)

 

12. Sherlock.

Era Estate inoltrata. Era una delle più calde della sua intera vita, a voler essere pignoli. John Watson non sapeva come si potesse sopravvivere a tali temperature tropicali a Londra, se protratte per più di qualche giorno. Ma in qualche modo ce l’avrebbero fatta. In qualche modo, loro, ce la facevano sempre.

Fu con un sorriso a trentadue denti che fece il suo ingresso nel 221B, armato di una scarsa spesa composta prevalentemente da gelati e ghiaccioli. Non si meravigliò affatto di trovare Sherlock nella stessa identica posizione in cui l’aveva lasciato circa trenta minuti prima.

 Joooohn.” cantilenò, disteso sul pavimento e per una volta privo di camicia, intento a sventolarsi svogliatamente con una rivista di gossip trovata chissà dove. “John. Ho caldo.” aggiunse poi l’ovvio, senza degnarlo di uno sguardo. John trattenne una risata di rimando, dirigendosi a passo spedito verso il freezer per posizionarci le compere. Aprì la scatola dei ghiaccioli e senza pensarci troppo ne prese uno alla fragola e uno al limone.

“John. Il mio prezioso cervello va a fuoco.” continuò l’altro appena lo sentì ritornare nella stanza, scandendo l’ultima parola della frase con veemenza. “Ho capito, ho capito. Tieni.” gli rispose in fretta, porgendogli il ghiacciolo alla fragola già scartato. Sherlock allungò la mano per mezzo di un movimento scenicamente lento e sofferente, finendo poi per mettersi a studiare lo stecco rosa con sguardo circospetto.

“Non hai mai mangiato un ghiacciolo?” dedusse John dopo qualche secondo, trattenendo appena un risolino. Un ‘no’ secco fu la risposta lapidaria dell’altro. Sherlock studiò l’oggetto mangereccio ancora per qualche secondo, giusto il tempo di far sì che si iniziasse a sciogliere copiosamente. Poi, senza più esitare, iniziò a leccare con gusto e subito uno sguardo compiaciuto si affacciò sul suo volto.

“Perché non ho mai mangiato un ghiacciolo, John?” sillabò in maniera estremamente seria, continuando a leccare le gocce che colavano sullo stecco e sulle sue mani. “Cosa vuoi che ne sappia, io?” gli rispose John divertito, andandosi finalmente a sedere sulla sua poltrona,  ma senza mai staccare gli occhi da quella scena  che nella sua semplicità e assurdità gli faceva battere il cuore più velocemente di quanto chiunque, Sherlock compreso, potesse immaginare.

Perché Sherlock era lì, davvero. Sherlock aveva caldo e mangiava un ghiacciolo per la prima volta nella sua strana vita. Sherlock era vivo. Il suo cranio era integro, gli ossi ben saldi, il cervello esattamente dove doveva essere. Il sangue scorreva veloce nelle sue vene, il cuore batteva regolarmente ed il suo respiro aumentava in maniera esponenziale la temperatura già alta della stanza. Ed era sudore reale quello che scorreva copioso sulla sua fronte bagnandogli i capelli, lucidando la sua pelle bianca e disegnando rivoli scomposti su tutto il suo magro petto. Evitando di soffermarsi troppo sulle cicatrici che disturbavano la perfezione della sua cute, John lo osservò; John ormai lo osservava sempre.

Le attenzioni di Sherlock verso il ghiacciolo si estinsero però nel lasso di qualche minuto e, all’improvviso, John si ritrovò da osservatore ad essere osservato. “Perché mi guardi così, John?” mormorò appena, incatenando inevitabilmente i suoi occhi.

Perché. John sorrise abbassando un attimo lo sguardo, sentendosi quasi a disagio.

John avrebbe voluto dirgli tante, troppe cose. Avrebbe potuto sproloquiare per ore, presentandogli il salato conto di anni interi passati a riflettere su cose che lo avevano quasi fatto marcire come carne in putrefazione. Anni di follia, anni di vuoto. “Senza te, Sherlock. Una vita senza te. Capisci?”, pensò. Ma non lo disse.

John avrebbe voluto dirgli che la vita lo spaventava ancora, in un certo qual modo. Perché Sherlock non era morto, certo, ma prima o poi lo sarebbe stato. Come tutti. Come John stesso. Ma, Dio!, se c’era una cosa che ormai aveva capito era che quella stessa vita che tanto gli aveva tolto ad un certo punto, magicamente, gli aveva fatto regalo. Un regalo inaspettato, un regalo che forse un uomo come John Watson non credeva di meritarsi davvero. “Te. La vita mi ha dato te. Due volte.”, pensò. Ma non lo disse.

Quindi lo osservò ancora, in silenzio. C’erano veramente troppe cose dire. C’erano veramente troppe cose da fare. Si alzò, avvicinandosi a quella meravigliosa creatura seduta per terra, rovistandosi nelle tasche dei pantaloni e tirandone fuori un fazzoletto di carta. Con movimenti lenti ma coincisi si avvicinò alla sua faccia, asciugandolo delicatamente da tutto il succo di fragola misto a sudore che gli aveva inevitabilmente imbrattato bocca, guance e collo. Poi, senza rifletterci più di tanto, si chinò un poco, quel tanto basta per stampargli un bacio a fior di labbra e assaporare un gusto acre e dolce allo stesso tempo. “La giusta sintesi di ciò che sei, Sherlock.”, lo pensò. Ma non lo disse.

“Sei buffo, Sherlock.” gli soffiò invece sulla bocca, annusandolo appena. “E puzzi anche un po’.” aggiunse, non riuscendo a trattenere una risata. Sherlock lo occhieggiò di rimando, donandogli uno sguardo serio e obliquo. John si perse in quegli occhi profondi, quasi alieni. John si perse nella grassa risata che nel giro di qualche secondo l’altro produsse, dopo essersi odorato appena e aver bisbigliato un “hai perfettamente ragione.” John si perse. Anzi, si era già perso da tempo. Ma non gli importava; non più, ormai. Perché a John Watson piacevano le donne. Non aveva mai avuto dubbi a riguardo e mai gli avrebbe avuti. Ma lo sapeva, lo aveva capito. Lo aveva accettato.

“Ti amo, Sherlock.” lo disse piano, talmente piano che inizialmente si domandò se l’altro lo avesse sentito. Ma la risata di Sherlock si spense all’improvviso e il suo sguardo ritornò ad essere serio, concentrato. Riflessivo, come sempre. John sapeva che Sherlock Holmes non era il massimo, con le parole. Non era il suo campo, proprio no. Quindi non si aspettò risposta. Quindi si avvicinò ancora, stringendolo fortemente, intrappolandolo in un abbraccio quasi disperato. Ed il battito cardiaco di Sherlock, a quel punto, parlò per lui.

“Ti amo, Sherlock. Ti amerò per sempre.”

John lo disse, semplicemente, senza pensare. E dentro di sé rideva, rideva di cuore.

 

“Dieci ragazze per me, però io muoio per te.”

 

 

 

 

THE END

 

 

Note:

Allora, rieccomi qua! Non voglio essere prolissa, ma ci tengo davvero tanto a questo lavoro nonostante lo reputi un po’ controverso per via dei temi narrati. Lo so, sono una persona tragica e drammatica (come Emma Sigel, forse :P) però credo che alla fine queste idee, questi pensieri, possano accumunare molte persone. La morte, la paura della morte, la solitudine. Forse l’unica vera prostituta  di questo racconto in realtà è John Watson, e non tutte le donne che ha sfruttato per riempire il vuoto che si sentiva dentro. Detto questo, spero che il finale dolce e tenero vi possa aver fatto piacere; in realtà non era programmato, poteva finire malissimo, ma l’ispirazione va da sé.. Basta, ora la smetto davvero di annoiarvi. Spero vi sia piaciuta, fatemi sapere.

A presto,

 

AintAfraidToDie

 

 

  
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