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Autore: Relie Diadamat    17/04/2017    2 recensioni
A scuola, da poche settimane, è arrivato un nuovo ragazzo. Schivo e saccente, nessuno sembra sapere nulla di lui o intenzionato a conoscerlo. Quando la sua strada e quella di John Watson - un giovane diciottenne che sogna un futuro in medicina, preoccupato per sua sorella e la precaria situazione economica in cui riversa la sua famiglia - si intrecciano, il passato di Sherlock torna lentamente a galla.
Ma ben presto, i fantasmi di Sherlock non saranno l'unico problema da affrontare: i sentimenti diventeranno un effetto collaterale incontrollabile.
*
«C’era un ragazzo, un certo Victor, da cui Sherlock era ossessionato. Sembrava l’unico in grado di sopportarlo, peccato che nessuno l’abbia mai visto.»
«Cosa intende dire?»
«Sherlock Holmes è uno psicopatico che ama sentire roba forte nelle vene.» Sally compresse le labbra mascherando un lieve sorriso, come se non avesse aspettato altro da quando si erano incontrati. «Semmai questo Victor fosse davvero esistito, l’unico responsabile della sua scomparsa sarebbe solo Sherlock».
John sentiva la gola secca, il pugno stretto sulla coscia e nascosto dal tavolo. «Così lo fa sembrare un mostro».
«Dammi retta, John. Stagli alla larga».

[Teen!lock // Johnlock]
[Storia liberamente ispirata al romanzo "Il mio cuore cattivo"]
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nda: Buon salve a tutto il fandom!
Per una volta in vita mia sono felicissima che oggi sia una giornata non adatta alle scampagnate in pineta o al mare. Desideravo scrivere e concludere questo secondo capitolo da settimane intere e... finalmente ci sono riuscita.
Come sempre, ringrazio le splendide persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/preferite/ricordate (siete in tanti e saperlo riempie il mio cuoricino di gioia! *-*) e coloro che leggono in silenzio; un grazie in particolare a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo: conta molto per me.
E niente, vi lascio a questo secondo capitolo ricco di flashback, Redbeard e biscotti allo zenzero. (Ci ritroveremo a fine a capitolo, se vi va, per ulteriori informazioni).
Buona, spero, lettura!
 

II. Just a little change
 
Stava passeggiando lungo il sentiero come ogni pomeriggio, quando tra le foglie giallo e arancio si materializzò un setter irlandese a spianargli la strada. Il folto pelo rosso brillava ai raggi intesi del pomeriggio che filtravano dalle chiome degli alberi, le zampe e le unghie ben piantate nel terreno. Tra i denti, un codino che Sherlock riconobbe all’istante.
Mai fissare intensamente gli occhi di un cane che non conosci: nella sua lingua significa inimicizia, ricordò a se stesso Sherlock, ma per una qualche ragione il cane ringhiò ugualmente, rizzando il pelo del collo.
Sherlock si disse di non attaccarlo in nessuna maniera, restando immobile al proprio posto. Distogliere lo sguardo, fingere di non dare peso alla sua presenza.
Udì un ramo spezzarsi e l’eco di una risata inconfondibile, una risata che gli urtava il sistema nervoso e gli faceva perdere il controllo. Si voltò bruscamente alla ricerca della sua figura, dimentico del setter che gli era dinanzi. In men che non si dica, il cane si era fiondato sulla sua caviglia, costringendolo ad atterrare al suolo colto alla sprovvista. Istintivamente, e con la mente annebbiata, cercò di divincolarsi dalla stretta, ma questo servì solo ad aumentarne la pressione.
Mi sto prendendo gioco di te, Sherlock. Non te ne accorgi?
Sherlock sibilò al vuoto di tacere, serrando la mascella per la rabbia più che per il dolore.
 «Redbeard!»
Era ancora con la schiena contro il terreno, lo zaino sotto il suo peso, quando un ragazzo comparve nel suo campo visivo; con le mani aprì la bocca del cane, rendendo possibile a Sherlock sottrarsi dalla sua morsa. Si frappose tra lui e il setter, rimproverandolo per il suo comportamento, per poi tendere una mano al giovane Holmes. Questi rifiutò, rimettendosi in piedi da solo.
 «Sono davvero desolato», continuò il ragazzo, passandosi le dita tra i capelli rossi. «Di solito è un bravo cane».
Sherlock lo ignorò, scrollandosi il terreno dal cappotto nero e dai pantaloni. Non appena fece un passo avanti, però, zoppicò a causa della ferita. Barcollò, perdendo il baricentro, convinto che si sarebbe ritrovato con la faccia contro foglie secche e sassolini, quando il ragazzo si fece avanti per sorreggerlo. Ad una spanna dalla sua faccia, Sherlock poté notare per la prima volta il colore verde dei suoi occhi.
«Sei ferito. Ti porto in ospedale».
«Non è roba da ospedale» lo rimbeccò, con una nota di saccenteria.
«Allora lascia che ti aiuti», gli disse. «Non mi va di tenere sulla coscienza una persona che legge Macbeth».
Solo in quel momento Sherlock si ricordò del libro che gli era caduto dalle mani; lo cercò con lo sguardo ed il rosso, imitandolo, si inginocchiò a raccoglierlo per poi tornare col braccio destro dietro la sua schiena e quello sinistro sul petto.
Quella vicinanza non voluta lo metteva a disagio, ma Sherlock non si oppose al suo sostegno. Si limitò ad arricciare il naso, rendendogli noto: «Non lo stavo leggendo».
L’altro scrollò le spalle, accennando un sorriso sghembo. «Meglio così. Personalmente preferisco storie che parlano di pirati».
«Pirati?»
«Pirati».
Sherlock lo osservò attentamente per una manciata di secondi, dopodiché si esibì in un sorrisetto sicuro. «Sai, la cosa non mi sorprende affatto».

*
 
Era lì, dinanzi a lui, ad offrirgli le spalle coperte dalla stoffa chiara della camicia mentre lasciava danzare delicatamente l’archetto sulle corde del violino. Le note sembravano correre in cerchio nella penombra della stanza, donando a quel momento un’atmosfera surreale.
La fioca luce del primo mattino si scontrava sul vetro dell’ampia finestra, ricadendo sui ricci castani del ragazzo, creando uno strano gioco d’ombre sul pavimento. John sarebbe rimasto a guardarlo per ore ed ore, fino ad  avvertire i muscoli rilassarsi e le palpebre calare vinte dalla stanchezza.
«È ora di svegliarsi, John».
John si paralizzò, una scia gelida a percorrergli la spina dorsale. Non poteva essere la sua voce e quella non era più la sua musica. Lui è solito suonare Bach, ma quella melodia ipnotica era totalmente estranea all’Adagio delicato e preciso che aveva udito a scuola.
È ora di svegliarsi, John.
John si rigirò dall’altro lato del letto, aprendo lentamente gli occhi. La figura allampanata del ragazzo si dissolse nella semioscurità della camera insieme al violino, alla grande finestra e ai giochi di luce, lasciando spazio alle strofe lente di una canzone che non conosceva, accavallate dalle chiacchiere degli speaker radiofonici. John sbruffò, ancora mezzo intontito dalle poche ore di sonno, allungando un braccio verso il piccolo comò alla sua destra, sbattendo dapprima le nocche contro gli spigoli di plastica, tastando poi a tentoni la radio fino a trovare il pulsante giusto per quietarla.
Socchiuse gli occhi riducendoli a due fessure, infastidito dalla luce verdastra della radiosveglia, leggendone l’orario. Le 5.40 del mattino.
In casa regnava un silenzio tombale e si accorse solo in quell’istante di essere solo nella stanza. Eppure quella voce sembrava così reale, così vicina alle sue orecchie… Percepì un lieve brivido scorrergli sulla pelle al sol pensiero, decidendo che non sarebbe riuscito a riaddormentarsi.
Scese dal letto, calzando le sue ciabatte scure, dirigendosi verso il bagno senza l’ausilio della luce. Si sciacquò la faccia due volte con dell’acqua fredda, sperando aiutasse ad alleviare il fastidioso cerchio alla testa. Si asciugò il viso, tamponando le tempie più del dovuto, provando un leggero sollievo a contatto col panno morbido e fresco dell’asciugamano.
Dormivano ancora tutti, persino Harriet.
Una volta in cucina, John rovistò in frigo e sui ripiani alla ricerca di cibo, trovando solo un pacchetto di crackers e un cartone quasi del tutto vuoto di latte scremato. A malincuore, sbocconcellò i salatini senza gustarseli, provando ad immaginare chi avesse finito tutte le brioches che la povera Annie Watson aveva comprato due giorni prima. Quella era l’ennesima prova per John, l’ennesima dimostrazione che Harriet ignorasse tutti gli sforzi che lui e i loro genitori stavano facendo per lei: si sarà rimpinzata di merendine nella sua stanza, saltando la cena per un paio di sere.
Si versò da bere in un bicchiere, bevendo lunghi sorsi. Sentiva la bocca talmente asciutta da far invidia ad un naufrago, quella frase intonata da una voce a tratti acuta e infantile a penetrargli la testa. Rabbrividì.
S’infilò la tuta, chiudendo la lampo della felpa fino a metà busto e sgattaiolò in silenzio fuori dall’appartamento sulle sue scarpe da ginnastica, stando ben attento a non fare rumore nel richiudere la porta a chiave.
Mentre correva con gli auricolari nelle orecchie, superando a passo sostenuto case, auto parcheggiate nelle microscopiche porzioni di cortile e nascoste dalle siepi verdi, e alberi che intanto cominciavano a perdere le foglie ingiallite, John sentiva una strana sensazione nelle ossa. D’un tratto, persino la musica energica degli One Republic sembrò annullarsi, cedendo il posto alle note di un violino suonato nella semioscurità di un luogo sconosciuto mentre qualcuno lo intimava ad alzarsi.
La prima goccia di sudore scivolò lungo il suo viso, fredda come il ghiaccio, e John aumentò istintivamente il passo fino a non sentirsi più le gambe, i polmoni brucianti nel petto e il fiato corto.
Correre era diventata una medicina, per lui. Lo aveva scoperto dalla prima grossa lite avuta in famiglia tra Harriet e loro madre, sperimentandolo anche dopo le discussioni con Sarah – di recente sempre più frequenti -, fino a prendere in considerazione l’idea di unirsi alla squadra di football del college. Correre lo alienava dalle preoccupazioni, rendeva muto ogni contesto emotivo: c’era solo John H. Watson, il ragazzo col cuore martellante nel petto e il respiro affannoso. Nient’altro.
Stoppò la sua corsa solo quando fu al limite, beandosi della fresca aria mattutina di fine Settembre che si adagiava sulla sua faccia sudata; prese grossi respiri, lasciandosi ricadere con le spalle contro la parete di mattoni di un palazzo. Lanciò una rapida occhiata verso l’incrocio, dove il semaforo si esibiva nel suo giallo più deprimente, oltre il quale Baker Street si mostrava in tutta la sua eleganza, avvolta nelle nubi mattiniere di Londra. Percorreva frequentemente quella strada, ma gli era capitato di rado di vederla alla luce delle 6.09 del mattino; questo gli suggeriva di essersi allontanato abbastanza e che era ora di fare retromarcia verso casa e prepararsi per una nuova giornata di studio, Mike Stamford, Harry-chi-ti-conosce-Watson… e magari avrebbe trovato il tempo per passare al cimitero, come ogni settimana.  
Pronto a riprendere il passo, fece per infilarsi gli auricolari nelle orecchie quando la mano si bloccò a mezz’aria e lo stomaco di John cominciò a brontolare, ricordandogli la triste colazione consumata una mezz’oretta prima. Come attratto da una calamita, le iridi bluastre seguirono l’odore dolciastro proveniente da una pasticceria, posandosi sui succulenti e invitanti biscotti allo zenzero esposti in vetrina. «Non guardatemi in quel modo» soffiò affamato, tossicchiando imbarazzato quando due pedoni lo superarono continuando per la loro strada.
Era decisamente, e malinconicamente, giunta l’ora di alzare i tacchi.
*

Sherlock camminò appoggiato al ragazzo lungo tutto il bosco, con Redbeard che zampettava indisturbato al loro fianco, annusando di tanto in tanto il sentiero o avvicinandosi alle radici di qualche albero, sbuffando col naso.
Seguirono il sentiero fin dove gli arbusti cominciarono a diradarsi, mostrando ampi campi verdi contornati da staccionate in legno. Sherlock scoccò un’occhiata alla piccola baita in mattoni abbandonata tra l’erba incolta e recintata da filo spinato e paletti in legno.
Pensi di essere bravo, Sherlock? In realtà non hai capito niente.
L’altro la oltrepassò senza prestarle la minima importanza, continuando il cammino per altri minuti, seguendo la staccionata. Si ritrovarono con le scarpe sporche di fango a bussare alla porta di una casa in legno, i cui davanzali erano abbelliti da vasi colmi di fiori. «Fidati di me, al mondo non esiste rimedio migliore di Mrs Hudson», gli disse il ragazzo lanciandogli un’occhiata, mentre un ciuffo rosso gli ricadeva fastidiosamente sull’occhio verde. Verde come le foglie di una cannabis.
*
Restò incappucciata per tutto il tragitto, le mani nascoste nelle larghe tasche della felpa grigia, mentre superava a capo basso negozi, palazzi e bici parcheggiate. Si scoprì il volto solo quando fu arrivata a destinazione: una caffetteria situata all’incrocio della strada, che spiccava tra i palazzi in mattone e lo smog londinese con la sua distinta vernice verde che richiamava le alte scogliere dell’Irlanda. Le sembrò quasi di vederla, dietro la vetrata, con i suoi lunghi capelli corvini sempre in ordine, gli occhi scuri sorridenti e un grembiule legato alla vita sottile, mentre con le labbra ricoperte da un filo di rossetto gironzolava per il locale appuntando gli ordini.
Tentò di fare un passo, ma rimase impalata con le scarpe sul marciapiede, senza smuoversi di un millimetro. L’ultima volta che si erano viste era successo di tutto: Clara si era detta stanca di quell’ennesimo tira-e-molla al quale l’accusava di giocare, ponendole la domanda più dolorosa che potesse farle, la più spaventosa in assoluto: «Vuoi che finisca, Harriet? Perché questa storia mi sta sfinendo».
«Non lo so» le aveva risposto, senza smettere di guardare la punta delle proprie scarpe, neanche quando col cuore in mille pezzi Clara aveva boccheggiato alla ricerca di altre parole, risparmiandosele tutte andando via.
Harriet non sapeva cosa desiderasse in quel momento. C’era una parte di lei, quella da buona ragazza normale, che le gridava a squarciagola di amare Clara con tutto il cuore, di volerla al suo fianco, di non essere ancora pronta a rinunciare a lei… poi c’era la parte prevalente, quella della Watson-sbagliata, che non riusciva a tenersi lontana dall’alcool; la Harriet che si rifugiava nelle lattine di birra e bottiglie di Vodka per non pensare, per non sentire il dolore. Per scappare dai problemi. Era la cosa che le riusciva meglio, dopotutto.
Si fece coraggio, espirò pesantemente, ed entrò nella caffetteria. L’odore caldo di caffè le sfiorò le narici insieme a quello della prime birre a spina consumate nei boccali di vetro; Harriet si costrinse ad ignorarlo, arricciando il naso e tirando dritta verso la donna al bancone.
«La piccola Watson.» La canzonò senza allegria, con una voce tanto piatta da far invidia ad una macchina. «Di cosa hai bisogno?»
Era difficile non sentirsi intimoriti dallo sguardo tagliente di Alicia Smallwood; la piccola bocca impeccabilmente ferma e scarlatta in contrasto con la pelle chiara, la rigida frangetta bionda a nascondere la fronte e per contorno delle rughe severe attorno agli occhi, Alicia Smallwood era quel genere di donna che nessuno al mondo avrebbe immaginato come proprietaria di una caffetteria situata nelle strade di Acton, con tanto di freccette e tavoli e sedie in legno. Harriet non avrebbe faticato a scommettere che in un’altra vita quella donna fosse stata una scrupolosa e intransigente donna d’affari o magari un’insegnante severa segregata dietro una cattedra ad incutere terrore a dei poveri bambini innocenti.
D’altronde, era così che Harry si sentiva al suo cospetto: una bambina cattiva bacchettata alle mani. Eppure le cose sarebbero state più semplici se fosse stata davvero una bambina irrequieta ed indisciplinata: le sarebbe bastato correre da John, piagnucolare senza sosta, lasciandosi consolare e viziare dal fratello maggiore. L’unico in grado di capirla.
Ma Harriet non era più una bambina e l’unica tana dove rannicchiarsi era l’alcool. Quindi alla domanda di Mrs Smallwood strinse forte i denti, trattenendo l’incontrollata voglia di sollevare un braccio verso i liquori posti ordinatamente sugli scaffali alle spalle di Alicia per indicargliene uno, frenando il sapore pungente che già pregustava nel palato, rispondendole: «Clara. Ho bisogno di Clara».
«Clara non è qui, al momento».
Harry abbassò lo sguardo, riconoscendo la menzogna. John era solito mentire per lei alla stessa maniera poi, col tempo, aveva smesso. «Può almeno dirle che sono passata, per favore? E che ho intenzione di tingermi i capelli dello stesso colore della sua pelle… Anzi no, è una cosa stupida e razzista», scosse il capo, rimproverandosi mentalmente per la stupidaggine appena detta. «Le dica solo che sono passata».
«Harriet» cominciò a dirle, mettendo da parte lo strofinaccio con cui stava pulendo il bancone un attimo prima che la giovane Watson entrasse nella caffetteria. «Clara è una brava ragazza. L’altra sera era distrutta, ed io non voglio più vederla in quello stato o temo che non sarai più la benvenuta. Ci siamo intese?»
Harry assentì mestamente col capo, fissando lo sgabello accanto a sé pur di non incontrare lo sguardo accusatore di Mrs Smallwood.
«Hai bisogno di altro?»
Due lattine di birra, fresche o calde non fa alcuna differenza.
«No».
Gli occhi le pizzicarono e un nodo opprimente le strinse la gola in una morsa soffocante. Uscì dal locale incurante del convenevole commiato di Alicia e delle occhiate insistenti che la ragazza mora seduta a due sgabelli di distanza le stava riservando, trattenendo le lacrime fin quando non fu tornata al college e sgattaiolata nel bagno. Si lasciò andare contro la porta chiusa, strisciando lentamente verso il pavimento, la testa nascosta tra le ginocchia.
Rimproverò se stessa di non far rumore, ma fu tradita da un singhiozzo mal trattenuto.
Qualcuno bussò alla porta e dopo secondi di silenzio una voce delicata, pulita, le chiese:«Va tutto bene?»
Harry tirò su col naso, asciugandosi gli occhi con i palmi delle mani; pensò che se avesse avuto a disposizione un piccolo specchietto, con molte probabilità vi avrebbe visto riflesso un panda macilento a causa del mascara colato. «No», rispose in tutta sincerità. «Non va bene per niente».
«Ti va di parlarne?» si sentì domandare con una punta di titubanza.
Alzò lo sguardo dinanzi a sé, ritrovando un triste water di ceramica. Starsene seduta contro la porta della toilette del college non avrebbe giovato a niente – dato che non si era portata nulla da scolarsi -, e piangere in quel posto le sembrò ancora più deprimente. Così decise di rimettersi in piedi e aprire la porta, incontrando un paio di occhi castani, una coda bassa di caramello e piccole labbra sottili lievemente schiuse.
Harry stropicciò un mezzo sorriso, portandosi una ciocca dietro l’orecchio. «Forse prima dovrei sciacquarmi la faccia».
L’altra le offrì un sorriso genuino. «Potrebbe essere un’idea».

*
 
John avanzò verso l’armadietto come se stesse compiendo uno sforzo titanico, imprecando mentalmente contro i numeri sbagliati della combinazione. Seguire le lezioni di Biologia era bello quanto impegnativo già normalmente – figurarsi con solo tre ore scarse di sonno. Era talmente stanco da iniziare a credere che si sarebbe ritrovato con la faccia contro il pavimento a sonnecchiare profondamente fino al giorno dopo. Gettò uno sguardo fugace all’orologio appeso alla parete, realizzando che aveva una buona oretta di tempo prima dell’inizio della prossima lezione.
Incerto se allontanarsi dal college o meno, decise di procedere un passo alla volta: prima avrebbe sistemato i libri di biologia nell’armadietto, poi avrebbe controllato nella tasca dei jeans se avesse con sé qualche moneta e si sarebbe preso un bel caffè, magari sarebbe passato da Sarah per farle una sorpresa… Merda.
John frugò nelle tasche dei pantaloni alla ricerca del proprio cellulare.

10 messaggi non letti.
 
Se non litigare con Sarah in quell’ultimo periodo era diventato impossibile, da quel giorno sarebbe stato un’utopia. John era così preso dai suoi problemi da dimenticarsi tutto il resto. Cambiò le carte in tavola: come prima cosa, John si sarebbe appartato in un angolo del cortile e avrebbe telefonato a Sarah - anche se convinto che non sarebbe servito a molto -, poi si sarebbe munito della giusta dose di caffeina per affrontare il resto della giornata.
Aprì l’armadietto deciso sul da farsi e fu allora che si gelò sul posto. Accanto alla piccola pila di libri c’erano dei biscotti allo zenzero chiusi in una busta di cellofan, il tutto abbellito con un nastro arancione. Deglutì a fatica, guardandosi intorno per istinto.
Qualcuno aveva messo quei biscotti nel suo armadietto. Qualcuno lo aveva seguito. Qualcuno lo stava tenendo d’occhio.
Richiuse l’armadietto, brandendo tra le mani il cellulare come un’arma invincibile; si accostò in un angolo, a riparo dal timido sole che sbucava dalle nubi, digitando il numero di Sarah. Non rispose e John decise di lasciarle un messaggio in segreteria, nel quale si scusava per il proprio comportamento e le prometteva che quella sera si sarebbe fatto perdonare, chiedendole di passare al college dopo le lezioni. Sperò che gli credesse e che decidesse di farsi viva.
Scorse distrattamente tutti i messaggi che Sarah gli aveva mandato, sorvolando sui toni tutt’altro che pacifici dell’ultimo. Quando alzò lo sguardo verso il cortile individuando un viso a lui familiare, però, tutte le preoccupazioni di un attimo prima scomparvero cedendo il posto ad un lieve prurito alle mani: Mike Stamford era dall’altra parte del cortile, all’ombra del portico, che parlava niente poco di meno che col pazzo. Con Sherlock Holmes.
«Quel figlio di…» John ingoiò l’imprecazione, serrando la mascella. Se quell’idiota di Mike aveva deciso di prenderlo per i fondelli – fingendo che un fantomatico fratello Holmes lo stesse seguendo e spiando -, avrebbe dovuto rivedere i suoi piani.
Collerico ritornò all’armadietto, acciuffando i biscotti allo zenzero. Lo stratagemma machiavellico di Mike gli sarebbe costato molto caro, ma almeno sarebbe servito a placare il suo enorme appetito.
Per sbollire la rabbia, decise di passeggiare per il cortile in cerca di un luogo appartato in cui ripetere in santa pace gli appunti – incomprensibili – di matematica… e magari schiacciare un breve pisolino; fu proprio accanto al campetto di calcio, seduta su una panchina, che trovò la ragazza dell’altro giorno. Scribacchiava chissà che cosa su un piccolo notebook, parlottando tra sé e sé.
«Ehi».
Molly sobbalzò, facendo scivolare la liscia coda di caramello sulla spalla destra.
«Scusami, non volevo spaventarti.» John le indicò la panchina col mento. «Posso?»
Rise nervosa, facendogli spazio. «Certo».
«Spesso vengo qui per ripassare. C’è una pace da fare invidia ai monasteri tibetani».
Molly abbassò gli occhi scuri sugli esercizi ostrogoti di fisica sui quali aveva speso più di una mezz’oretta, confessando: «Devo ancora abituarmi alla vita del college. Prima dei diciassette anni sembra tutto così semplice…»
«L’importante è non arrivare in ritardo alle lezioni e…» Le fece cenno di avvicinarsi, sussurrandole all’orecchio: «ricordati di negoziare con quelli dell’ultimo anno. Hanno sempre qualche favore da chiederti».
Molly corrugò la fronte divertita. «Non ha l’aria di essere un buon consiglio», ammise.
«Detto così forse no, ma…» John alzò le mani in segno di resa, «studentessa avvisata…»
John la sentì ridere di nuovo, genuinamente, e si rese conto di provare una sincera simpatia nei suoi confronti: Molly sembrava essere una ragazza semplice, lontana dalle mode e dalla chiacchiere, sempre pronta a dire la verità e a difendere i propri amici…
Sempre disposta a dire la verità…
John si schiarì la gola, scalciando un sassolino immaginario con la scarpa da ginnastica. «Posso farti una domanda, Molly?»
La ragazza annuì, stringendosi le braccia al petto. Si era alzato un lieve venticello e il sole era scomparso dietro le nuvole. «Dimmi pure, John».
«Hai detto di seguire lo stesso corso di chimica con Sherlock Holmes.» La guardò bene negli occhi, cercando nel palato le parole giuste da utilizzare. «Voi… avete mai parlato?»
Il viso di Molly si rabbuiò in un lampo, come se d’improvviso fosse calato l’inverno su di lei. «Qualche volta».
«E… hai mai conosciuto suo fratello?»
L’espressione di puro stupore sul volto di Molly corroborò le ipotesi del biondo. «Sherlock ha un fratello?» chiese, stupita.
John scrollò le spalle, un sorrisetto sghembo sulle labbra. «Così sembrerebbe.» Recuperò i biscotti che aveva lasciato al suo fianco, liberando la busta dal nodo. La porse alla ragazza, invitandola a prenderne uno. «Ti va un biscotto?»


*

 
«Ti va un biscotto?»
Sherlock storse il naso, seduto sul divano a due piazze al fianco del ragazzo, declinando l’offerta dell’anziana. «No», le rispose. «…Grazie».
«Io ne prendo uno volentieri», s’intromise l’altro, prendendone una manciata con una sola mano facendo sorridere di soddisfazione Mrs Hudson. «Adoro i biscotti allo zenzero!»
«Oh, Victor caro, attento a non soffocarti» lo avvertì come una nonna apprensiva, posando la mano libera sul fianco alla volta di Redbeard. «E tu, giovanotto, dovresti seriamente mangiare di meno».
Il cane uggiolò, mantenendo il contatto visivo sul piattino dove vi erano adagiati i biscotti che l’anziana reggeva, scodinzolando nella speranza di riceverne uno. Mrs Hudson, intenerita, sospirò mestamente. «E va bene, ma solo una» dichiarò autoritaria, mostrandogli la mela che aveva afferrato dal portafrutta. Il setter scodinzolò felice, seguendola al tavolo dove l’anziana si era seduta per tagliarla in piccoli pezzi, privandola dei semi.
Sherlock guardò la scena in silenzio, notando il notevole cambiamento del cane nei suoi confronti. Non gli aveva più ringhiato e – sia lodato l’Universo – non aveva più cercato di aggredirlo. Mrs Hudson, anziana vedova premurosa, aveva esaminato la ferita di Sherlock sotto la pressione di Victor, ignorando le continue proteste del giovane Holmes che le ripeteva che non si trattava di nulla di grave. L’anziana stessa dichiarò che sarebbe bastato sciacquare la ferita con acqua e sapone e coprirla con un cerotto, eseguendo tali operazioni di sua spontanea volontà… su uno Sherlock riluttante. 
 «Redbeard è un bravo cane vaccinato», gli aveva detto mentre puliva per bene la caviglia ferita. «Non c’è motivo di preoccuparsi».
Osservando l’anziana porgere al cane pezzetti di frutta, tutto gli divenne chiaro.
«Sicuro di non volerne uno?» gli chiese Victor, le guancie gonfie come quelle di Mycroft nel giorno di Natale. «Sono buonissimi».
«Mangiare mi rallenta» spiegò risoluto, raccogliendo lo zaino e il libro di Shakespeare, pronto ad uscire da quella casa. Con la scusa di medicargli la ferita, Mrs Hudson si era lasciata andare ad uno sproloquio sulla propria vita privata, raccontandogli di come avesse ereditato degli appartamenti a Londra dopo la morte del marito e avesse deciso di ritornare nello Yorkshire, accanto alla sua migliore amica Margaret Trevor– deceduta recentemente.
«Sicuro di essere in grado di camminare? Se vuoi ti do un passaggio».
«Non ce n’è bisogno».
«Ti preoccupa restare da solo con un estraneo?» lo stuzzicò, inarcando le sopracciglia rosse in modo provocatorio.
Sherlock alzò un angolo della bocca all’insù. «Tu sei tutto fuorché un estraneo, Victor».
«Ma se non sai niente di me!» protestò divertito, dando un morso ad un nuovo biscotto.
«Errato. So che sei straniero, probabilmente americano dato l’accento. Se venuto qui, nello Yorkshire a seguito della morte di tua nonna – paterna, presumo -, proprietaria del setter. Questo ce lo dimostra la tua eccessiva apprensione per un morso lieve: sai come comportarti con i cani, ma non avevi idea se quello di tua nonna fosse stato vaccinato o meno. Il cane invece si trova perfettamente a suo agio, e questo ci suggerisce che non solo è un luogo a lui conosciuto ma anche il suo territorio: ha tentato di difenderlo da eventuali invasori – e in questo caso sto parlando di me. Abiti in questa zona, e questo è l’unico motivo che giustificherebbe un cane lasciato sciolto durante una passeggiata nel bosco. Ti sei appena offerto di darmi un passaggio e parcheggiato accanto alla casa adiacente c’è un motorino. Potrei anche annoiarti facendoti notare le numerose foto che ritraggono Mrs Hudson e tua nonna – dalle più recenti a quelle datate 1950 -, ma suppongo non ce ne sia il bisogno: Mrs Hudson ha già spiegato tutto ciò che c’era da sapere», snocciolò frettolosamente, quasi senza riprendere fiato tra una parola e l’altra, lasciando il ragazzo esterrefatto con la mandibola che si muoveva in slow motion.  
Il silenzio tra i due stava diventando soffocante quanto imbarazzante, quindi Sherlock decise di alzare i tacchi e tornarsene per la propria strada quando Victor parlò: «Vedi che faccio bene a preoccuparmi così tanto? Non esiteresti un istante a denunciarmi».
Per la prima in quella giornata, Sherlock si aprì in un sorriso sincero.

*
 
Al termine delle lezioni, John varcò i cancelli del college come prestabilito con Sarah, ingannando l’attesa col cellulare. Era talmente concentrato ad allineare tre dolcetti identici, da non accorgersi dei passi che si arrestarono al suo fianco.  «Credo che porre fine alla relazione sia più pratico per entrambi».
John sussultò, e per poco il cellulare non gli cascò dalle mani. Si voltò spaventato, sbarrando ancora di più gli occhi una volta incontrati quelli di ghiaccio del ragazzo. Il pazzo. Sherlock Holmes. «Come hai detto?» gli chiese, la voce leggermente alterata per lo spavento.
Il ragazzo gli dedicò quella che a John parve un’occhiata di sufficienza, gli zigomi affilati messi in risalto dal bavero alzato del cappotto. Il sole si era rintanato dietro le nuvole, il vento stava aumentando e in lontananza si potevano udire i primi tuoni. La figura slanciata di Sherlock Holmes sembrava intonarsi perfettamente in quel piccolo quadro, mentre John cominciava a sentirsi a disagio per via di ciò che l’altro gli disse: «Suppongo che per un ragazzo condizionato dal fallimento del padre e le abitudini alcoliche della sorella sia difficile impegnarsi in una relazione stabile, per non parlare della drastica condizione economica in cui riversa la tua famiglia. Restare con una ragazza benestante non fa altro che incrementare lo stress, convincendoti di non essere alla sua altezza. Morale della favola: meglio soli che male accompagnati».
Il cuore gli batté ferocemente nella cassa toracica, la mano libera si serrò in un pugno. Dovette respirare profondamente per non perdere le staffe. «Mike ti ha detto anche questo?»
Le sopracciglia folte del ragazzo si curvarono in segno di confusione. «Mike?»
«Mike», John rimarcò il nome dell’amico a denti stretti, come se stringendoli potesse trattenere anche la rabbia nel palato. «Mike Stamford. Ti ha parlato anche di mio padre?»
«Non c’è stato bisogno», dichiarò tranquillo il giovane Holmes. «Il fango sulle tue scarpe da ginnastica e qualche chiacchiera di troppo nella mensa sarebbero sufficienti persino ad un agente di polizia».
«Il fango sulle mie scarpe?» domandò, con un filo di voce roca.
Il ragazzo gli sorrise furbamente, prima che un braccio si posasse su quello di John come una carezza delicata e un paio di occhi chiari riscuotessero il giovane Watson dal misto di rabbia e incredulità nel quale si era perso. «Ehi».
Si voltò, incontrando una fronte spaziosa e un sorriso roseo, la solita coda alta e ordinata tipica di una Sarah Sawyer ritta nella sua camicia bianca e la gonna a ruota ben aderente in vita. «Ho sentito il tuo messaggio in segreteria ed eccomi qua».
«Sarah» riuscì solo a pronunciare, ancora frastornato dalle illazioni di quel ragazzino balzano.  «Il messaggio… sì».
Sarah inclinò la testa di lato, con dolcezza, allargando le labbra carnose. «Per questa volta sei perdonato, John Watson, ma bada bene: mi aspetto una serata indimenticabile.» Gli soffiò un bacio sulle labbra, come una vecchia abitudine dura a morire, e per un secondo anche John si sciolse in un piccolo sorriso. Le promise che avrebbe fatto del suo meglio e dopo averle accarezzato la guancia diafana le cinse le spalle con un braccio, aspettando di sentire le sue dita snelle dietro la schiena.
Sarah era una ragazza eccezionale: simpatica, giocherellona e tifosa improvvisata di football. Non riusciva a tenergli il muso per molto tempo e John stesso reputava impossibile non capitolare ai suoi piedi di fronte al suo viso pulito e intelligente. Sarah era molto importante per lui, era un posto sicuro nel quale rifugiarsi quando scoppiava la tempesta, ma al contempo appartenevano a due mondi diversi e più volte si erano scontrati perché desideravano cose diverse. Guidato da questa consapevolezza lanciò uno sguardo alle sue spalle, accorgendosi dell’assenza di Sherlock Holmes.
Avvertì un insolito buco allo stomaco, e per un motivo a lui inspiegabile camminare abbracciato a Sarah divenne stranamente faticoso. 

 


Relie's corner
- Ho scritto il capitolo tenendo costantemente una finestra aperta con google maps. Abbiate pietà di me e della scarsità delle descrizioni.
- Tutt'oggi non ho capito se la Smallwood si chiami Elizabeth o Alicia... ma visto che nella quarta stagione sul fogliettino passato a Myc compare quest'ultimo... ho optato per quello. xD
- Harriet è la mia più grande gioia e sono felice di poterla giostrare come un'OC a tutti gli effetti.
- Amate Redbeard con me, vi prego. 
- NON LINCIATEMI: ho sempre provato simpatia per il personaggio di Sarah e vederla insieme a John non mi ha mai disturbato più del dovuto. Onestamente, ad oggi, la preferisco cento volte a Mary e mi è dispiaciuto non ritrovarla nelle scorse stagioni.
- Ero indecisa se interrompere o meno il capitolo, ma dato che era già abbastanza prolisso ho deciso di terminarlo così. 
- Credo di aver terminato con le info/precisazioni, ma se dovessero esserci punti poco chiari/perplessità non esitate a domandare. Intanto vi lascio il link della mia pagina fb --> click
Pareri sempre graditi!

Buona Pasqua (passata) e Pasquetta a tutti!
Alla prossima!



 
   
 
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