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Autore: PawsOfFire    17/04/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Aprile, 1929

Dondolavo i piedi seduto sopra un ramo di melo.
Che bella la vita da quassù! Mia madre mi stava inseguendo con un mattarello e così mi sono rifugiato lontano da casa, in questo parco quieto pieno di alberi ed anatre.
Mi presento, sono educatissimo. Mi chiamo Bastian Faust, ho dodici anni. Ho due fratelli: Alfred ha dieci anni e Stefan otto. I miei genitori hanno una bottega di sarto che erediterò io perché sono il primo. Solo che mamma dice che sono un disastro uguale a mio padre. Ma io lo stimo! Si è fatto la guerra e ne parla tanto a tavola, specialmente durante le feste quando mangiamo i galli che nonno compra al mercato dal suo amico di campagna.
Dovreste vederlo! È tutto curvo con le occhiaie spesse e cammina con due bastoni, a quattro zampe come un gatto. A proposito, ho un gatto. Si chiama Furia ed è tutto nero però se lo guardi alla luce sembra un po’ a strisce come le tigri. Ma io non ho mai visto le tigri. C’è un disegno sul mio libro di lettere e sembrano molto belle, tipo il mio gatto. Ora Furia è con me, sotto l’albero. Miagola e mi segue come un’ombra. Viviamo in città in una bella palazzina di Monaco sopra alla sartoria. Viviamo bene, abbiamo un po’ di risparmi ed io posso comprarmi le caramelle dopo la scuola. In particolare, le enormi tavole di cioccolato che vendono in blocchi.
Sono scappato da casa perché mamma vuole picchiarmi. Ho rotto un vaso giocando ai francesi contro tedeschi e per poco non facevo cadere nonna dallo spavento. Ma non era colpa mia, è stato Alfred in realtà.
Eccolo che arriva. Mi somiglia un po’ ma io sono più fico. Ha un dente caduto e quando parla fischia tantissimo. Inoltre è stupido. Ha i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate.
“Basti, ti prego, torna a casa!” mi implora, alzando la testa per guardarmi meglio.
“La mamma ha detto che se torni non ti picchia!”
“Non ci credo!” Gli faccio una pernacchia. Furia si arrampica sull’albero, raggiungendomi. Quando gli faccio i grattini sulla schiena alza la coda. E’ molto carino.
“Se torni ti faccio fare il tedesco domani.”
Ci penso su.
“Va bene. Però giuramelo.”
“Si” Mi fa vedere i palmi delle mani, sorridendo felice.
“Mi fido” Scendo dall’albero con un tonfo e Furia mi segue.
Quando arriviamo alla bottega di Sarto papà ci accoglie calorosamente. Ha la pipa in bocca come i vecchi ma è bella e sa fare i cerchi col fumo. Sta cucendo un bell’abito bianco per una signora. Papà dice sempre che col suo mestiere può fare certe cose che saprò da grande e la mamma si arrabbia moltissimo quando prende le misure ai sederi delle signore giovani.
“Vati.” Faccio la faccia da cane bastonato. Modestamente so fare una super faccia da cane bastonato e funziona sempre.
“Mamma è ancora arrabbiata?”
Lui mi guarda abbassando gli occhiali “No, non è più arrabbiata.”
Gioisco.
“E Stefan?”
“E’ nel retrobottega con il suo aereo.”
Stefan è il fratellino piccolo. E’ molto serio e gioca sempre da solo oppure al gioco degli aerei. Una volta ha sentito la storia di un aereo rosso potentissimo e da quel giorno pensa solo agli aerei. Dice che vuole fare l’aviatore e papà lo rimprovera sempre e dice che la guerra non è un gioco. Così ci giochiamo di nascosto. Ma lui è cocciuto e ci gioca lo stesso con il suo aereo di legno.
“Stefan” lo raggiungiamo nel retrobottega polveroso e pieno di stoffa ed manichini con abiti imbastiti. Lui è per terra che gioca con l’aereo rosso di legno.
“Vieni con noi a giocare a palla? Andiamo a chiamare anche gli altri bambini, ci divertiremo!”
“No” parlava come un piccolo adulto, continuando a far volare imperterrito il suo aereo.
“Ma sei un piombo” Sbuffa Alfred.
“Vengo solo se giocate alla guerra.”
“Ma abbiamo giocato prima alla guerra! E poi è noioso se fai sempre tu l’aviatore.” Dico. Furia mi ha seguito fino alla bottega. Ora è acciambellato sulla stoffa a dormire.
“Ma io voglio essere un aviatore!” Quasi piange. Papà ci sente litigare e viene a vedere cosa succede.
“Stefan vuole giocare alla guerra!!” Diciamo in sincrono io e mio fratello perché siamo cattivi e lui rovina sempre tutto.
“Può giocare a quello che vuole, basta che non diventi un soldato. Non è un gioco, la guerra.”
“Visto?” Ghigniamo malefici.
“Ma tanto non tornerà più la guerra, vero?”
Papà ci guarda e sospira. “No. Non tornerà più, la guerra.”
“Visto, Stefan? Puoi fare l’aviatore per la gente.”
“Ma io non voglio fare l’aviatore per la gente. Io voglio fare come l’aereo rosso!” Batte i pugni e piange. Papà torna a lavoro e ci lascia il marmocchio piccolo da consolare.
“Dai, i soldati non piangono.” Gli dico, porgendogli un ritaglio di stoffa. Lui annuisce e lo usa per soffiarsi il naso.
“E ora vieni a giocare a palla, dai. Ti aspettano tutti.”
Allungò la manina e si mise in piedi, posando finalmente il piccolo aereo rosso.
Nel frattempo arriva mamma. Ha comprato alcune cose ed ora si mette al lavoro, finendo di ricamare un altro abito bello per una signora ricca. Non mi odia più anzi, sembra felice che siamo riusciti a far uscire quel testone di Stefan.
“Mamma noi usciamo” Dico, ma lei mi afferra al volo e mi sistema la camicetta.
“Oh, Basti, sei di nuovo tutto sporco di fango. Sei quello grande, sii più responsabile.”
“Ma io sono responsabile, Mutti.” Annuncio, fierissimo. Mi dà un bacione sulla guancia e così fa con tutti i miei fratelli.
“Tornate prima di cena, mi raccomando!”
“Sicuro!” Rido. Chiudiamo la porta alle nostre spalle. Dietro di noi il sole proietta una lunghissima ombra.
“Guardate che lunghe!” dice Alfred, indicandole.
“La mia è più lunga” dico. Ci spintoniamo un po’ e ridiamo. Quando saremo grandi saremo alti come le nostre ombre?
Chi lo sa. Ma Stefan sta in un angolo, coperto dai raggi di sole. Sotto di lui non c’è nulla.*

 

 

“Capitano?”
Qualcosa batte forte sulla mia schiena. Anzi no, sul mio volto. Due schiaffi schioccano sulle mie guance, facendomi sobbalzare. Stancamente apro gli occhi, uno per volta, inaugurando la mia bella visuale con un accigliato Tom che mi scuote per il colletto della camicia.
“Stava dormendo! In servizio! Poi sono io quello che si appisola” sbuffa il pilota, facendo roteare le palle degli occhi strabuzzanti di rabbia. E’ stato dimesso da poco e già si sente così...importante.
“Non mi dia ordini. Sono io Capitano. Se decido di fare un sonnellino ho il diritto di farlo. Inoltre stavo facendo un bellissimo sogno, rimembrando il mio fantastico passato. Per questo potrei sbatterti davanti alla corte marziale ma...non lo farò. Mi ringrazi, sono immensamente buono.” Sbadiglio rumorosamente ancora una volta, prima di sistemarmi compostamente nel mio sellino scomodissimo.
La Furia è immensa vista da fuori quando piccola dall’interno. Una corazza di metallo impenetrabile che qualcuno ha pensato di abbellire. Una foto di famiglia di Klaus, due ritagli di giornale che mostravano bellezze in costumini attillati, una cuccia di stracci e la new entry, una scarpa col tacco rossa appartenente a Anita Blume. Se ci infili il naso dentro sentirai la primavera.
Un tempo Maik aveva attaccato uno scalpo di capelli ma, essendo che lui non mette mai piede all’interno del Panzer, abbiamo deciso di buttarlo via. Era disgustoso.
“Ho continuato a marciare.” la voce di Tom si fa più sottile. “Davanti abbiamo alcuni giorni di cammino. Quando giungeremo al villaggio avremo un bordello a nostra disposizione. Stia sveglio per questo, lo faccia per le ragazze...”
“Cosa, un bordello?” Improvvisamente divenni sveglio ed agile come un grillo. Ne avevo bisogno, assolutamente. Però d’altro canto non potevo accontentarmi di una manciata di fanciulle che si vendevano per qualche soldo. Decisi di fare il prezioso.
“Vede...Weisz...io non sono un uomo da bordelli. Non sono una bestia come...voi animali che vi sfogate d’istinto. Sono un cacciatore, un nobilissimo falcone, io. Non voglio donne che possono avere tutti, io...”
“Certo, certo, Capitano.” Tom si allontana, facendo un gesto insolente con la mano mentre un ghigno si allarga sul suo volto.
Si fotta, lei e le sue subdole domande” Decisamente, ora più che mai, avevo bisogno di una boccata d’aria.
Coperto in parte da un minuscolo coperchio di metallo, cacciai il naso fuori dall’abitacolo opprimente. Ci eravamo addentrati nella fitta boscaglia, mescolandoci tra le fronde dei pini ed i verdi muschi. Per precauzione avevamo camuffato la Furia ricoprendola di fango, rami e sassi. Modestamente il mio senso artistico sviluppatissimo mi ha permesso di realizzare un mascheramento bellissimo, talmente realistico che un uccello ha deciso di nidificare sullo scafo.
“Capitano, non possiamo portarlo con noi” osò dire Klaus.
“Non vedo il perchè” Obiettai, osservando dalla mia torretta la bestiola intenta a scegliere i rametti per un nido di prima classe.
“La chiameremo Julia” decisi. Fu una scelta estremamente democratica poiché andammo a votazione. Ma io ero il grado più alto, così ebbi più punti e spettò a me dare il nome all’uccello.
Nonostante il rumore, i tremori, il calore ed il fumo Julia non sembrava affatto disturbata dal Tiger.
Aveva buon gusto, la bestiola. Quando schioccava il cannone l’animale si limitava ad aprire le ali e lanciare un grido, tornando a covare come se niente fosse. Così, ogni giorno, noi potevamo assistere al miracolo della vita in quei dannati giorni di inizio maggio. Canti di usignoli si mescolavano ai bramiti possenti dei cervi in amore. Anche noi sentivamo il richiamo della primavera ma eravamo impossibilitati a trovare una compagna.
Quando incappavamo in qualche rituale amoroso ero solito a coprire gli occhi a Fiete, sussurrandogli nelle lunghe orecchie ritte che i cani minorenni non potevano assistere a certe cose.
“Anche bere alcolici e fumare è proibito, Caporal Friedrich von Russland, fin quando non raggiungerà la maggior età...” non riuscii a finire la frase che un’umida leccata mi bagnò la faccia, mettendomi completamente a tacere.
Fuori la temperatura iniziava a salire, influenzando anche quella interna. Nel carro sudavamo come porci, a nulla serviva sbottonarci le divise. Qualcuno avanzò l’ipotesi di girare nudi come vermi ma, per amor di stile, misi a tacere questa inutile diceria.
L’acqua però iniziò a mancare. Le nostre gole, secche di giorni, bruciavano come carboni ardenti. Masticavamo legni ed erba per placare la sete, ma non riuscivamo nemmeno a deglutire in quelle condizioni.
Miracolosamente, dopo giorni di pellegrinaggio, trovammo una fattoria.
Una fattoria funzionante, per altro! Quattro vacche marroni pascolavano tranquille in un recinto erboso. Alcuni contadini rassodavano un campo di terra in maggese. Era incredibile come fossero riusciti a preservarsi nonostante la guerra. Spesso i piccoli villaggi ed i gruppi di case venivano passati malamente al fuoco da soldati meno scrupolosi di noi.
“Lasciate fare a me” dissi ai miei uomini “saranno gentili e benevolenti nei confronti di coloro che vogliono liberarli dal duro regime comunista.”
Quando i lavoratori sentirono gli stridii dei cingoli raspare la terra a pochi metri di distanza, immediatamente si allarmarono, sollevando minacciosamente i loro rostri dentati.
A petto infuori uscii io. Modestamente, oltre ad essere un asso nella diplomazia, parlavo benissimo il russo.
“Salute” mi presentai, tenendo le mani alzate in un comune segno pacifico.
Senza contare il cingolato con due metri di cannone che sbucava poco sotto di me, beh...ero disarmato ed innocuo come un agnellino.
“Io sete. Noi sete. Molta sete. No bere giorni. Voi avere bere?” Gli ignoranti ci fissarono con occhi carichi di odio, stringendo forte i manici dei loro attrezzi.
“Germanski” disse un vecchio dal naso adunco, sputando a terra. A quanto pare continuavano a non capire. Così scesi dal carro, sempre tenendo le mani belle in vista.
Quando mi fui allontanato dalla Furia un paio di metri, improvvisamente, vidi qualcuno uscire da una scricchiolante porta di legno. Finalmente! Qualcuno aveva deciso di assecondare le nostre richieste.
“Noi oro. Pagare bere” aggiunsi. Oramai la mia proposta era praticamente irrinunciabile.
Dalla porticina non uscì nessuna persona. Solo due enormi oche bianche starnazzanti che, ad ali gonfie e testa bassa, caricarono in tutta velocità verso di me, costringendomi alla ritirata.
I contadini iniziarono ad inveire contro di noi, sollevando i rastrelli in aria.
“Germanski, Germanski!” Una gigantesca donna estrasse da sotto la gonna un fucile carico.
Un proiettile rimbalzò contro la Furia, facendo spaventare Julia.
“Via, via! Questi vogliono farci la pelle!” diedi ordini di marcia non appena riuscii a mettermi al riparo.
Maik ridacchiava, il che non era un buon segno. In genere mostra felicità solo quando ha in mente qualche piano diabolico o che comunque preveda l’uccisione di più individui, specialmente se russi.
“Capitano, perché non spariamo? Li uccidiamo tutti e ci prendiamo l’acqua. E magari macelliamo una di quelle vacche. I miei stivali hanno bisogno di cuoio nuovo...”
“Irrilevante, Gerste” gli lanciai una rapida occhiata, sospirando.
“Non possiamo ucciderli...è solo povera gente. Il destino li ha puniti già abbastanza a nascere in queste tristi terre rosse, lontani dai nostri ideali.”
Maik aggrottò la fronte, grattandosi il mento pensieroso. Poi annuii.
“Per una volta ha detto una cosa intelligente.”
Mi sfuggii un rantolio offeso.


Fuggimmo dai contadini violenti e ci riunimmo con i nostri compari. Viaggiavamo in un gruppo di cinque carri diversi tra loro perché...beh, i soldi iniziavano a scarseggiare in quel di Berlino e creare un’unità compatta era decisamente dispendiosa. Noi eravamo fortunati ad avere il nostro Tiger, un corazzato pesante in perfetto stato nonostante i mesi di servizio. Joseph Achen, capocarro, nonché cugino di Klaus, possedeva un mirabolante carro russo rubato in un momento di distrazione. Capitano Becker era stato trasferito in un’altra unità di cacciacarri, probabilmente umiliato dal nostro innegabile stile** Così rimanevano due Panzer IV, di cui uno dotato di lanciafiamme.
Ed io, modestamente, ero il grado più alto tra tutti gli uomini presenti. Per ora spettava a me il comando.
Ci appartammo in una dolce vallata naturale, protetti in parte da un pendio alberato.
Avevo una mappa stropicciata dalla quale potevamo evincere qualcosa. Martin ci aveva rovesciato il caffè sopra ed era in parte illeggibile ma, tutto sommato, potevamo capire dove dirigerci.
“Qui” indicai.
“Un po’ generico” Tom mi fece eco, prendendo la mappa.
“Se rimanessimo qui, aspettando che si dimentichino di noi?” suggerì Klaus, sfregandosi le mani.
“Ottima idea. Così potremo disertare senza problemi” continuò Martin mentre un sorriso gigantesco iniziava a riempirgli il volto.
“Posso venire con voi?” aggiunse anche il capocarro Joseph. Tentare di finire con le spalle al muro doveva essere un vizio di famiglia.
“Vieni anche tu, Chagall. Dai, vecchio mio, scappiamo insieme!”
Il pittore non sentì le sue parole. A gattoni davanti ad una tana il pazzo stava cercando di catturare un tasso a mani nude. Decidemmo di ignorarlo fin quando non sentimmo un alto guaito seguito da urli strazianti. Joseph ed altri uomini più altruisti di me si gettarono in suo soccorso.
In realtà sono un uomo votato all’amore verso me stesso ed il prossimo, ma questo sentimento di schadenfreude*** era pressoché inevitabile. Rimasi appoggiato ad un albero a contemplare la scena, masticando soddisfatto un rametto verde.
Tirandolo per i piedi i carristi riuscirono ad estrarre sia il pittore che la bestia mordace, saldamente attaccata ad un orecchio dell’uomo e decisamente poco intenzionata a mollare la presa.
Maik, sempre raffinato, estrasse il suo fido coltello da concia e lo piantò nel ventre molle del tasso, facendogli mollare la presa.
“La violenza non era necessaria!” Michael Herman si fece avanti strillando, raccogliendo il tasso in un mare di sangue.
Non ho mai parlato di lui, forse perché non ne ho mai avuto un vero motivo. E’ il pacifista del gruppo. E’ un giovane di buona fisicità, lineamenti marcati ed occhi chiarissimi.
Ma ha un difetto. Un grandissimo difetto.
La sensibilità. Studiava medicina a Francoforte ma è stato costretto ad arruolarsi prima di riuscire a terminare gli studi. Adesso è il pilota del T-34 rubato, assieme a Joseph Achen e Chagall il pittore.
“Hai ragione.” Ammise Maik, osservando soddisfatto la sua nuova vittima colta da spasmi mortali.
“Forse era meglio se avessi piantato il coltello nell’incavo della gola, almeno avrei evitato di rovinare una pelliccia così bella.”
Adesso Michael è chino sull’animale e sta implorando il kit medico. Nessuno ascolta le sue suppliche. Klaus e Joseph stanno curando l’orecchio sanguinante di Chagall, che ora pare più un Van Gogh. Tom studia la mappa, Maik si pulisce il coltello con la manica di pelliccia bianca.
Piange il giovane con le mani lorde di sangue mentre tenta di ricucire la ferita profonda. Lukas Freytag, suo compare carrista, si avvicina a lui cercando di farlo ragionare. Gli parla piano, toccandogli con estrema dolcezza ed empatia le spalle larghe, le braccia tese e le mani tremanti che desistono nel lasciare la presa. Solo quando il tasso smise di muoversi riuscì a trascinarlo via dal piccolo cadavere ed accompagnarlo lontano dai nostri sguardi da giudici affilati.
Solo a questo punto Maik si avvicinò all’animale ed iniziò a scuoiarlo con perizia, chiedendoci di preparare un fuoco per cuocere la carne.
Lontano da noi possiamo sentire Michael vomitare copiosamente dietro un albero.
“Su, su. Era solo un tasso.”
“Lukas no, ti prego, no. C’era bisogno di altro...sangue? Ti ricordi l’altro ieri, quando ho schiacciato quel soldato? Il suo braccio è rimasto impigliato nei cingoli...”

Joseph iniziò a fischiettare una canzoncina. Il tramonto copriva il fumo delle braci ed il grasso scoppiettava allegro a contatto con il fuoco. Il capocarro del Panzer IV ci porse un paio di bottiglie di vodka per dissetarci.
Eravamo vivi, avevamo da bere e stavamo per mangiare. Presto sarebbe scesa la notte ed i grilli sarebbero tornati a cantare e noi li avremmo accompagnati in coro.
Questo...si, questo è ciò che conta.

 


Note:

* Essendo il PV di un Bastian dodicenne, ho preferito usare una prima persona confusa e sgrammaticata, molto fanciullesca.
** I carristi degli StuG, cacciacarri, avevano la divisa di un verde scuro anzichè nera come gli altri.
***Schadenfreude: Gioire per le sofferenze altrui.
 

   
 
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