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Autore: Sybeoil    18/04/2017    1 recensioni
Dicono che la mutazione sia un dono ma non lo è, non lo è affatto. La mutazione è la mia maledizione.
Sophie è una ragazza di 18 anni che ha perso il padre in quello che, apparentemente, è sembrato un incidente ma la foresta nasconde molti più segreti di quanto si possa immaginare. Ed è proprio nella foresta che sarà costretta ad avventurarsi per salvare entrambi i suoi mondi dalla distruzione. Accompagnata in questa avventura dal suo Cavaliere Matthew, la sua unica amica Isabelle e il timido e schivo Irwin, Sophie si troverà ad affrontare l'avventura più grande della sua vita.
Attraverso sentieri oscuri, armi, antiche leggende e pericoli nascosti, si snoda la storia di una Principessa il cui destino sembra essere macchiato di sangue dalla nascita.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per la ventesima notte di seguito – si le aveva contate – il sogno che ormai la tormentava tornò
a trovarla. Come ogni notte si trovava all’interno di una stanza circolare in cima ad una torre alta almeno venti metri. L’arredo sembrava essere uscito da uno dei suoi libri di storia. Tutto quello che era in quella stanza sembrava appartenere ad un’epoca lontana, quasi medievale.
Ciò che però attraeva la sua attenzione era sempre un bambino. Il piccolo non doveva avere più di cinque anni eppure la sua postura e il modo in cui si rivolgeva a quelli che, ormai sapeva essere i suoi aggressori, lo facevano apparire decisamente più grande. Legato al petto, avvolto in quelli che sembravano essere strati e strati di stracci, teneva un neonato che apparentemente dormiva tranquillo.
Come facesse, dato il chiasso che il bambino e i suoi aggressori facevano, per non contare i continui scossoni derivanti dal combattimento, rimaneva un mistero per lei. Nonostante questo però, non era il neonato ad attrarre la sua attenzione ma il bambino. Quel piccolo diavolo dai capelli biondi era una furia. Si dimenava e lottava duramente pur essendo alto quanto un ginocchio degli avversari.
Menava fendenti e affondi che molto spesso andavano a segno provocando profondi tagli ai suoi avversari. Purtroppo non era in grado di decifrarne l’espressione o il viso dato che le era impossibile vederlo. Appena si concentrava sui tratti del viso del bambino per metterlo a fuoco ecco che i contorni diventavano fumosi, come se dovessero scomparire da un momento all’altro.
Era una cosa che le dava tremendamente fastidio; curiosa di natura com’era, non poter conoscere qualcosa, per lo più se partorita dalla sua mente, la rendeva frustrata e nervosa.
Era però decisa a scoprire l’identità di quel bambino a tutti i costi, le sembrava quasi che da quel dettaglio ne sarebbe dipesa la sua vita, così si concentrò su altro.
Ruotò la testa per esaminare l’ambiente circostante; era tutto come sempre.
Due finestre di dimensioni gigantesche erano sul lato destro del letto, il quale occupava buona parte della stanza. Sembrava antico, molto antico e assomigliava in modo inquietante a quelli che aveva visto anni prima in un museo di storia medievale.
La struttura in legno levigato e inciso con strani disegni che non era mai riuscita ad interpretare, il fatto che fosse a baldacchino ma che non venissero usate tende sottili o trasparenti ma veri e propri tendoni di velluto rosso sangue orlati d’oro lo rendevano ai suoi occhi più antico di quanto probabilmente fosse in realtà.
Una pesante coperta della stessa tinta delle tende era scostata dal letto su cui era ancora visibile la sagoma del corpo di una donna. Circa sei cuscini erano sistemati a ridosso della testiera del letto, due dal lato sinistro e quattro dal lato destro.
Subito sotto una delle due finestre era sistemata quella che lei aveva ipotizzato essere una vecchia toilette per signora. Anch’essa era in legno, come ogni arredo della camera dopotutto, ed era costituita da un grosso mobile – anche se assomigliava di più ad un vecchio baule – a cui era stato incorporato uno specchio di forma rettangolare. Sulla toilette erano presenti tipici strumenti da toilette: una spazzola di setole bianche, un vasetto di crema che emanava un forte odore di gelsomino, il suo preferito, varie pinze per capelli e gioielli.
Una sedia in legno con l’imbottitura al centro e sullo schienale era sistemata davanti allo specchio.
Poco più in là, lontano dalle finestre, era sistemato un catino di legno abbastanza grande da farci entrare una persona adulta. Ipotizzò si trattasse della “vasca da bagno”  e che appartenesse a  chiunque abitasse lì. Era vuoto e accanto ad esso, si trovava un tavolino di piccole dimensioni su cui erano poggiate una caraffa colma di acqua profumata, una ciotola e un vaso da notte.
Ogni volta che la sua mente sognatrice registrava quel dettaglio, provava una sorta di repulsione per l’oggetto. Sapeva bene che nell’epoche medievale e all’incirca fino al 1900, quello era l’unico modo che le persone avevano per espletare i propri bisogni notturni ma la cosa la repelleva, soprattutto se pensava al modo in cui venivano svuotati la mattina.
Non si meravigliava se il tasso di sopravvivenza dell’epoca fosse decisamente basso, se ci fossero malattie di ogni tipo come il colera o la peste o se le persone non sopravvivessero oltre i 35 anni. Con un’igiene del genere era meravigliata che riuscissero a sopravvivere così a lungo.
Quasi di fronte al catino di legno si ergeva un imponente camino; uno di quelli di legno e mattoni che l’avevano sempre affascinata. La legna al suo interno bruciava lenta, avvolta da quella coperta arancione che era il fuoco, mentre un fumo grigio e denso si levava verso l’altro cercando la libertà nel cielo notturno.
Osservare la legna ardere l’affascinava da sempre. C’erano alcuni giorni d’inverno, quando la temperatura calava anche di dieci gradi sotto lo zero, in cui si perdeva letteralmente nell’osservare le fiamme danzare dentro il camino di casa sua. Aveva l’abitudine di riempirsi una tazza di tè alla menta, prendere un vecchio libro della madre sui miti e sedersi sulla poltrona del padre di fronte al camino. Era il suo modo di rilassarsi, di mettere per un po’ a tacere il sordo dolore che l’accompagnava come un’ombra da quel maledetto giorno ormai.
Si perdeva così tanto in se stessa e nei pensieri che spesso non si accorgeva nemmeno della madre che tornava esausta dal suo turno in ospedale.
Ora però non era il momento di sedersi davanti al fuoco e perdersi.
Sapeva che ormai mancava poco al momento del suo risveglio, lo avvertiva sempre; era come se una scheggia di ghiaccio le scivolasse giù per la schiena nuda.
Girò il viso verso lo scontro in cui erano coinvolti il bambino e quegli uomini giganti e una lacrima solitaria le scivolò lungo la guancia.
Quel dettaglio la distrasse un momento dalla scena. Era la prima volta che piangeva in quel sogno. Di solito arrivati a quel punto cominciava a sentire il fastidioso rumore della sua sveglia e lentamente, emergeva dal suo sogno tornando alla realtà. Questa volta però fu diversa; nessun suono di sveglia a disturbare la scena e una lacrima che scendeva lenta lungo la sua guancia.
Tornò a concentrarsi sul bambino, curiosa di vedere cosa sarebbe successo dato che quella parte del sogno era tutta nuova per lei.
Un uomo emerse dall’ombra della porta. Era alto, muscoloso ed emanava malvagità persino a quella distanza. Il bambino indietreggiò ruotando il busto di 45 gradi. Ipotizzo lo facesse per paura, lei stessa sarebbe voluta fuggire a gambe levate da quella stanza ma poi, osservando meglio la scena, si rese conto che non aveva indietreggiato per paura, ma per proteggere meglio il neonato che teneva in braccio e che ora era sveglio e sembrava ridere.
Successe tutto troppo in fretta perché lei potesse capirci qualcosa. Vide solo l’uomo nero - così lo aveva soprannominato - avanzare verso i due bambini sorridendo malefico poi tutto divenne così luminoso da far male agli occhi mentre un grido di rabbia e frustrazione le invadeva le orecchie arrivando dritto al suo cervello.
 
Emerse dal sogno con ancora il suono di quell’urlo impresso nella mente,  la fronte imperlata di sudore e la maglietta appiccicata alla schiena.
Odiava quando succedeva perché voleva dire che sarebbe stata nervosa per tutto il resto della giornata. Sbuffando e scalciando il groviglio di coperte che aveva intorno alle gambe, scese dal letto. Il pavimento in linoleum era freddo sotto i suoi piedi scalzi ma le diede quella scarica che le serviva per svegliarsi del tutto. Infilò le pantofole a forma di coniglio che la zia le aveva regalato a natale e scese in cucina per fare colazione.
Trovò sua madre già con l’impermeabile addosso e la sua onnipresente 24h stretta in mano, intenta a trangugiare una tazza di caffè bollente mentre teneva il cellulare in equilibrio precario tra l’orecchio e la spalla.
Quando la vide entrare in cucina le sorrise dispiaciuta come a dire “ scusa tesoro ma anche oggi devo scappare a lavoro”. Ormai c’era abituata. Quella era la loro routine da quando suo padre era morto due anni prima.
Ricordava quel giorno come fosse solo ieri. Erano tutti e tre in macchina sull’autostrada che si snodava attraverso la foresta in cui avrebbero campeggiato quel weekend come ogni weekend di primavera da che ne avesse memoria. Era una sorta di tradizione di famiglia, appena la primavera allungava le sue braccia sulla città, tutta la famiglia faceva le valigie e nel weekend si perdeva tra i folti alberi della foresta al limite della città. Nonostante avesse ormai sedici anni, le piaceva andare in campeggio con i suoi genitori ed isolarsi dal mondo reale per un po’. Lì, in quella specie di boccia verde tutto sembrava più semplice, come se nulla potesse farle del male. Adorava respirare l’odore della terra bagnata alle prime luci dell’alba o osservare come la rugiada mattutina facesse sembrare le piante dei piccoli diamanti. Si sentiva a casa e a suo agio lì, immersa nel verde della foresta, circondata da animaletti e piante, piuttosto che a scuola dove la gente la prendeva in giro.
Le piante la capivano, l’ascoltavano e non la giudicavano. Nessuno avrebbe mai detto che era goffa, sbadata o stramba. Non avrebbe rovesciato il purè della mensa in testa a nessuno e di sicuro nessuno le avrebbe fatto bere acqua del gabinetto spacciandola per acqua fresca. Nella sua breve vita da liceale aveva sperimentato tutta la cattiveria di cui un adolescente può essere capace. Non era mai riuscita ad integrarsi davvero tra i suoi compagni, sempre troppo sensibile, troppo goffa, troppo brutta o troppo intelligente. Era sempre troppo ma mai abbastanza. L’unica nota piacevole in tutto quel caos era Isabelle, la sua migliore ed unica amica. Era una ragazza un po’ stramba persino per lei che, diciamocelo, era la regina delle strambe ma era una buona amica e tanto le bastava. Si erano conosciute l’anno prima della morte del padre a biologia, dove Isabelle aveva fatto un’entrata spettacolare. La lezione era iniziata da poco quando una zazzera di capelli rossi così ricci da sembrare finti aveva fatto irruzione in classe rotolando sul pavimento e andando a schiantarsi contro la cattedra di Mr. Higg il loro insegnante.
La classe era scoppiata a ridere indicando e deridendo la nuova arrivata, una scena così simile a quelle di cui era sempre stata protagonista lei, che le fece subito provare simpatia per quella ragazza.
Il professore l’aiutò a rimettersi in piedi e la indirizzò all’unico banco rimasto libero della classe: quello accanto al suo. Le due si sorrisero e fu un po’ come se avessero suggellato un patto: sarebbero state amiche per sempre.
Quel giorno la foresta le era sembrata più buia e silenziosa, quasi come se sapesse che sarebbe dovuto succedere qualcosa di brutto. Lei e suo padre avevano montato la tenda nel solito posto e adesso se ne stavano seduti intorno al piccolo falò di pietre che suo padre aveva costruito quando era piccola mentre ridevano e bevevano tè. Non era mai stata felice come in quel momento, con i suoi genitori nel posto che più amava al mondo, a ridere e scherzare.
Immaginò che avrebbe anche potuto vivere così per il resto della vita. Evidentemente qualcuno doveva averla sentita perché tutto andò per il verso sbagliato. Una pioggia fitta e fredda prese a scendere dal cielo con ritmo incessante allagando la tenda e costringendoli a rifugiarsi in macchina e rinunciare a malincuore al weekend di campeggio. Aspettarono un’ora prima di mettere in moto la macchina e avviarsi verso casa con la speranza che smettesse di piovere, ma il cielo non voleva sentirne di smettere e anzi, la pioggia si infittì ancora schiantandosi sul parabrezza a secchiate. Seppur con timore suo padre si mise in marcia verso casa al fine di evitare di essere sorpreso dal buio. All’inizio tutto andò bene, trovarono il sentiero che conduceva all’autostrada e la imboccarono senza troppi problemi. La visibilità era scarsa e il vento ululava furioso producendo dei boati che assomigliavano ad una frana ma loro riuscirono comunque a percorrere un bel pezzo di strada. Il padre era sempre stato un uomo accorto e attento, consapevole di ogni rischio e troppo affezionato alla propria famiglia per metterla in pericolo. Viaggiava a 40 Km/h quando una luce di un abbagliante verde lo accecò. Colto alla sprovvista Mr. Gibbs sterzò bruscamente uscendo di strada. Il loro suv toccò con la gomma anteriore un ramo spezzato dal temporale capovolgendosi tre volte su se stesso e strisciando poi per una ventina di metri fino a schiantarsi dal lato del guidatore contro il tronco di un grosso albero.
Ricordava poco di quei momenti, erano come avvolti in una nebbia bianca e densa da cui emergevano solo piccoli sprazzi di ricordi, sporadici e insufficienti per farla sentire in pace con se stessa.
Ricordava solo di essersi svegliata dopo quelli che immaginava essere minuti, coperta di sangue e schegge di vetro ma in apparenza incolume. Mosse lentamente ogni singola parte del corpo per constatare i danni che aveva riportato ma non sembrava essersi rotta niente. Aveva solo un profondo taglio in testa da cui perdeva molto sangue ma sapeva che era normale, sua madre le aveva spiegato che i tagli in testa erano quelli che sanguinavano di più. Una volta accertato che non avesse niente di rotto e fosse in grado di muoversi uscì dall’auto con difficoltà e si avvicinò alla madre. La donna sembrava morta.
Era pallida, con un grosso taglio vicino l’occhio sinistro, la spalla in una posizione innaturale e un piccolo ramo conficcato nella coscia destra. Con mano tremante posò due dita sotto il mento della madre, dove sapeva esserci la carotide per verificare vi fosse battito.
Seppur debole sentì un leggero tum tum che rese il suo cuore meno pesante.
Fece il giro della macchina e si accovacciò accanto alla portiera del padre. L’uomo aveva il collo ruotato di 180°, un angolatura troppo profonda perché fosse sopravvissuto. Grosse e calde lacrime cominciarono a sgorgarle giù dagli occhi mischiandosi alle gocce di pioggia fredda che scendeva incessante dal cielo.
Sapeva che suo padre era morto eppure avvicinò comunque la mano alla base del suo collo e vi poggiò sopra due dita. Il corpo freddo non trasmise nessuna pulsazione.
Quella constatazione la divorò dentro come centinaia di termiti.
Urlò, con quanto più fiato aveva in gola. L’eco delle sue urla riecheggiò per tutta la foresta rimbalzando sui tronchi degli alberi e penetrando nel terreno che si spaccò in due, letteralmente. Una voragine grande quanto il salotto di casa loro si aprì poco distante dal punto nel quale si trovava lei, animali di ogni tipo le si avvicinarono mentre le radici dell’albero su cui avevano sbattuto la circondarono come a volerla proteggere.
L’immagine di una piccola fatina con le ali a forma di fiore era l’ultima cosa che ricordava, dopo di ché tutto era confuso e avvolto da quella nebbia bianca.
Sapeva, tramite i racconti di sua madre, che i soccorsi erano arrivati dopo circa un’ora a causa del mal tempo e che l’avevano trovata rannicchiata in posizione fetale tra le radici dell’albero che sembravano essersi chiuse su di lei. Nessuna traccia di animali o fatine dalle ali a forma di fiore.
Tornò alla realtà sbattendo più volte le palpebre. Sua madre era ancora al telefono con un bicchiere di succo stretto in mano e le stava parlando.
« Stasera tornerò tardi a casa. Sul mobile vicino alla porta ti ho lasciato i soldi nel caso volessi comprarti qualcosa da mangiare, altrimenti in frigo c’è un sacco di roba ». Trangugiò il suo succo di fretta sistemando il bicchiere vuoto nel lavandino e poi diede un bacio in fronte alla figlia.
Lei ormai era abituata a quelle colazioni che non assomigliavano affatto a colazioni ed era anche abituata a cenare da sola a casa. Le uniche volte che lei e la madre riuscivano a trascorrere del tempo insieme era durante la vigilia di natale e nel giorno della morte di suo padre, quando insieme, andavano al cimitero per portare dei fiori sulla sua tomba.
Non si prese nemmeno la briga di rispondere alla madre, limitandosi ad annuire debolmente e continuando a mangiare le sue frittelle vegane.
Sì, lei non mangiava carne, di nessun tipo. Non mangiava pesce, pollo, vitello, cavallo o qualsiasi altro tipo di carne esistesse. Era più forte di lei, il solo pensiero di mangiare la carcassa di un povero animale morto sotto tortura la repelleva oltre che farla stare male fisicamente. Era come se il suo corpo non tollerasse la carne. Ricordava che da piccola una volta, quando erano a cena da dei colleghi di suo padre, mangiò per sbaglio un piccolo pezzo di arrosto di vitello. Come il pezzo di carne arrivò al suo stomaco iniziò a stare male. Le fitte erano così forti che credette sarebbe morta, la fronte era imperlata di sudore e la nausea la torturò per sei giorni. Vomitò per ore nel tentativo di espellere quel piccolo pezzo di carne.
I suoi genitori erano preoccupatissimi, ricordava ancora la faccia costernata e distrutta di suo padre mentre le teneva i capelli raccolti per evitare si sporcassero di vomito. Ricordò di aver dormito per due giorni dopo che il suo stomaco aveva vomitato tutto quello che era umanamente possibile.
A volte ancora adesso desiderava addormentarsi e non svegliarsi più o per lo meno svegliarsi in una vita diversa, in una città diversa con un nome diverso. Non sarebbe più stata la sfigata, la goffa o quella a cui è morto il padre. Sarebbe stata Soph, solo Soph.
Sapeva però che la cosa non era possibile, la vita non puoi scegliertela perché è lei a scegliere te, così sospirando amareggiata diede l’ultimo morso alla sua frittella e bevve l’ultimo sorso di succo. Posò i piatti nel lavello, promettendosi che la sera li avrebbe lavati tutti ed uscì di casa afferrando al volo i soldi sul mobile vicino alla porta e il suo zaino.
 
Quel giorno una lieve pioggerellina fredda cadeva dal cielo, bagnando le strade della piccola città nella quale vivevano lei e la madre. La foresta alle spalle della loro casa sembrava più viva del solito oltre che spettrale avvolta com’era in quella nebbia bianca.
Lo scuolabus era come al solito affollato e puzzolente, pieno di adolescenti in calore con il cervello delle dimensioni di una noce. Soph non si stupiva di non avere amici, come poteva anche solo pensare di essere amica con qualcuno di quegli idioti. Non sapevano fare altro che andare alla feste e urlare mentre a lei piaceva leggere, starsene nella foresta a giocare con gli scoiattoli e guardare le fiamme danzare all’interno del suo camino. No, non sarebbe mai potuta essere amica di uno di quei trogloditi. Finalmente lo scuolabus si fermò nel parcheggio della scuola, una struttura a tre piani di un tetro grigio con qualche bandiera sparsa sul tetto e un’entrata affollata di studenti bagnati.
« E’ solo un altro giorno », si ripeté correndo verso l’ingresso.
I corridoi erano affollati da ragazzi di tutte le età che ridevano, si spintonavano o stavano davanti ai loro armadietti a pasticciare con i telefonini. Sospirando di delusione si avviò verso il corridoio vicino alla palestra dove aveva il suo armadietto nella speranza di non incontrare Gwen e il suo gruppo di idioti.
Tra tutti i ragazzi della scuola, Gwen era quella che odiava più di tutte. Era un’insulsa ragazzina dai capelli perfetti, il fisico perfetto, le labbra perfette che si credeva la padrona del mondo intero. Aveva recitato in una sit-com trasmessa dalla rete locale per tre puntate e partecipato a qualche sfilata e adesso si credeva la nuova Angelina Jolie. Era cattiva e meschina e trattava chiunque non fosse come lei con una sorte di malcelato disgusto, come se loro fossero dei plebei affetti da peste  e lei la signora del castello.
Per Gwen torturare i ragazzi della scuola era un magnifico passatempo ma il suo preferito era sicuramente quello di torturare lei. L’aveva presa in antipatia già ai tempi dell’asilo, quando era poco più alta di uno sgabello e da allora non aveva mai mollato la preda. Ogni qualvolta la incontrasse non perdeva occasione per deriderla o prenderla in giro, facendola sprofondare sotto terra per la vergogna. Certo, Soph non si dava per vinta tanto facilmente e, usando il suo sarcasmo misto a intelligenza, spesso mandava a segno ottimi colpi peccato che nessuno era mai lì per dargliene merito. Gli unici spettatori dei punti segnati da Soph, era il gruppetto di scagnozzi di Gwen. Soph odiava anche loro, ma c’era un ragazzo nel gruppo, un biondino dagli occhi blu come i più profondi oceani, che Soph proprio non riusciva ad odiare. Ogni volta che i loro sguardi si incrociavano, quello del ragazzo, sembrava scavarle un fosso nell’anima carpendone i segreti più profondi. Era come se volesse dirle « Ti proteggerò », cosa che lei non capiva dato che, oltre a Gwen, non doveva temere nessuno. Ad ogni modo, per quanto quel ragazzo fosse stato bello, attraente e terribilmente sexy e lei ne fosse cotta fin dal momento in cui aveva messo piede nella scuola l’anno precedente, era intoccabile oltre che irraggiungibile.
Nessuna ragazza come lei avrebbe mai potuto attrarre l’attenzione di un ragazzo come lui, non quando questo usciva con una come Gwen.
Arrivata davanti al suo armadietto trovò Isabelle ad attenderla. La ragazza aveva già in mano tutti i suoi libri delle prime tre ore di lezione e se ne stava comodamente appoggiata con la schiena alle file di armadietti accanto a quello di Soph.
« La regina è tra noi », annunciò facendo un falso inchino e sorridendo all’amica.
Isabelle aveva questo strano vizio di chiamarla regina e alcune volte principessa; Soph le aveva chiesto più di una volta perché si ostinassi a chiamarla così e lei le aveva semplicemente detto che aveva qualcosa di regale.
« Smettila, Bell », la rimproverò sorridendo e aprendo il suo armadietto.
L’interno era una sorta di bazar in miniatura, c’erano libri di ogni materia, diari dei vari anni di scuola che lei aveva scritto ogni sera affidandoci l’anima e foto. A dire il vero le foto erano poche e per lo più la ritraevano insieme ai suoi genitori, Belle o suo padre mentre ridevano o mentre cercava di insegnarle a pescare. Per lei erano preziose come l’oro perché le permettevano di ricordare, cosa che Soph, considerava fondamentale per potersi definire umani.
I ricordi erano qualcosa di potente secondo Soph, ti identificavano nel mondo, ti permettevano di non perderti e di trovare sempre la strada di casa, ovunque essa fosse. Senza ricordi cosa saremmo mai stati? Gusci vuoti, ecco cosa.
« Hai studiato per il compito di domani di algebra? »
La domanda di Belle interruppe il filo dei suoi pensieri riportandola alla realtà. Ultimamente le succedeva spesso di perdersi in qualche oscuro posto dentro la sua mente ed isolarsi dalla realtà. Era una cosa di cui non andava fiera perché la rendeva vulnerabile.
« Si, si ho studiato. Stasera ripasserò qualcosa », rispose afferrando i libri delle prime ore e chiudendo l’armadietto.
Il suono stridulo della campanella le penetrò nel cervello come uno di quei fischietti che si usano con i cani. Quel giorno tutto sembrava scuoterla dentro. Prima il sogno, così uguale eppure diverso da quello che faceva da venti giorni, poi il ricordo improvviso della morte di suo padre ed ora quel suono che normalmente aveva sempre creduto fosse di un volume normale.
Istintivamente si portò le mani alle orecchie nel tentativo di proteggere il suo timpano dal dolore lancinante che il suono acuto le aveva procurato. I libri che fino a poco prima stringeva tra le braccia caddero a terra producendo un sordo tonfo sul pavimento. Bell, preoccupata le si avvicinò fissando i suoi occhi verde muschio in quelli azzurro tempesta di Soph.
« Va tutto bene? » le domandò preoccupata mentre si chinava per raccogliere i libri dell’amica.
Come la campanella cessò di suonare così terminò anche il suo dolore. Le sembrò quasi che non fosse successo nulla. Togliendo però le mani dalle orecchie e avvicinandole a Bell per prendere i libri che le erano caduti le scoprì macchiate di sangue. Istintivamente pensò di essersi graffiata o al massimo che si fosse tolta una crosticina per sbaglio, mai avrebbe pensato di star sanguinando dalle orecchie. Non voleva che Belle vedesse il sangue così cercò di nascondere il palmo della mano dai suoi occhi, afferrò i libri tenendo la mano stretta a pugno e si diresse verso il bagno, lasciando l’amica sgomenta in mezzo al corridoio.
« Soph, dove vai? La lezione sta iniziando » le urlò dietro Belle.
« Di al professore che non mi sento bene, vado in bagno » rispose allontanandosi sempre più veloce.
C’era qualcosa che non andava in lei, si sentiva strana come se la sua stessa pelle le stesse improvvisamente stretta. Si sentiva accaldata eppure non aveva la febbre, le orecchie le sanguinavano senza alcun apparente motivo. Cosa le stava succedendo?
Quando arrivò nel bagno delle ragazze si assicurò che non vi fosse nessuno e poi si avvicinò allo specchio. Posò i libri sul lavandino e lentamente, quasi temendo che avrebbe visto uno spettacolo raccapricciante, sollevò i capelli ai lati della testa. Dove fino a quella mattina c’erano le sue solite orecchie, adesso c’erano un gran bel paio di orecchie a punta. Erano più grosse, più morbide e decisamente più a punta di come sarebbero dovute essere due orecchie.
Soph non capiva come poteva essere possibile; era forse uno scherzo? Perché se lo era non era affatto divertente.
Pensò anche di essere ancora in uno dei suoi sogni, in fondo non era la prima volta che sognava cose strane come quella, sarebbe tranquillamente potuto essere così. Purtroppo per lei però quello non era decisamente un sogno. Le orecchie erano vere, le sue dita tremanti potevano toccarle.
Chiuse gli occhi in preda al panico, afferrando il bordo del lavandino e stringendolo così forte da farsi sbiancare le nocche delle dita.
« Non è reale. Non è reale. Non è reale. » ripeté come un mantra mentre cercava di calmare il respiro fattosi improvvisamente più veloce.
Quando riaprì gli occhi le orecchie erano tornate quelle di sempre. Piccole e rotonde in cima. A quel punto Soph, si convince di stare impazzendo.
Respirò a lungo, camminò su e giù per il bagno una decina di volte per poi tornare a guardarsi allo specchio. Aveva paura che quelle strane orecchie a punta potessero sbucare fuori da un momento all’altro. Dopo aver constatato che le orecchie erano le sue solite orecchie afferrò i libri ed uscì dal bagno diretta in classe. Quando entrò nell’aula di storia ventidue adolescenti si girarono a guardarla. Il professor Sandars interruppe il suo discorso sulla rivoluzione civile americana e le si avvicinò con fare rassicurante.
« Tutto bene Sophie? Isabelle mi ha detto che ti sentivi poco bene » disse osservandola. Soph si sentì come studiata, come se lei fosse un piccolo topo bianco da laboratorio e il professore Sanders lo scienziato pazzo che la usava per i suoi esperimenti. Nonostante tutto riuscì ad annuire e sgattaiolare al suo posto in terza fila.
« Molto bene ragazzi, riprendiamo da dove mi ero interrotto ».
Il professore riprese il suo discorso sulla guerra civile ma Soph non riuscì a sentire una sola parola. Tutto quello a cui riusciva a pensare erano quelle strane orecchie che le erano spuntate prima. Si stava ammalando? Sarebbe morta?
Non lo sapeva. A dire il vero non sapeva nemmeno se fosse stato tutto frutto della sua fantasia oppure ci fosse qualcosa di reale.
La sua attenzione fu catturata da Isabelle che cercava di parlarle senza farsi scoprire dal professore. La ragazza voltò la testa verso di lei intercettando appena in tempo il bigliettino che l’amica le aveva lanciato. Era un piccolo pezzetto di foglio di carta riciclata su cui erano scritte due sole parole: stai bene?
Soph si chiese se fosse il caso di confidare a Belle quello che credeva di aver visto in bagno: da una parte voleva parlarne con qualcuno e ricevere rassicurazioni sul fatto che fosse una cosa impossibile, dall’altra non voleva che anche la sua migliore amica la credesse una pazza furiosa. Osservando meglio lo sguardo preoccupato di Belle, decise di mettere da parte i suoi dubbi e confidarle quanto credeva di aver visto poco prima nel bagno.  Strappò una pagina di quaderno dal suo block-notes e cominciò a scrivere. Quando ebbe finito lo piegò in otto e lo lanciò sul banco dell’amica che prontamente lo nascose sotto il palmo della mano. Cercando poi di non far rumore lo aprì sotto il banco e lesse avidamente.
Soph si aspettava una certa sorpresa da parte dell’amica, certo, ma non una reazione del genere. Mentre gli occhi di Belle scorrevano il resoconto dell’accaduto, divenne pallida e le sue dita presero a tremare, gli occhi le si spalancarono così tanto che Soph immaginò le sarebbero usciti dalle orbite.
Quando ebbe finito di leggere accartocciò il foglio di carta e lo nascose all’interno del suo zaino, al sicuro. Quello fu l’ultimo movimento che Belle fece fino alla fine della lezione.
Non un solo tremito, sbuffo o battito di ciglia ruppero l’immobilità del suo corpo. Sembrava congelata nell’istante in cui aveva smesso di leggere.
Soph cominciò a preoccuparsi. Le sembrava una reazione eccessiva, poteva capire fosse stranita, preoccupata e anche divertita ma quello, quello era tutt’altro. Belle sembrava terrorizzata. Terrorizzata da lei.
Quando la campanella suonò per decretare la fine della lezione per Soph fu di nuovo come se qualcuno stesse producendo ultrasuoni e lei fosse un cane in grado di captarli. Cercò di non darlo a vedere, di tenere il dolore sotto controllo ma non ci riuscì. Si portò le mani alle orecchie e strinse i denti per impedirsi almeno di urlare.
Belle se ne accorse perché le si avvicinò, le passo un braccio attorno alle spalle e la condusse fuori dalla classe. Camminarono in quel modo fino all’armadietto di Soph che Belle aprì senza problemi. Per fortuna il dolore al timpano era cessato con il cessare del suono della campanella, proprio come prima ma aveva la strana sensazione che le sue orecchie fossero di nuovo a punta.
« Sto bene » tentò di dire ma inutilmente. Belle non era della sua stessa idea visto che scaraventò i libri di Soph nell’armadietto prese la sua giacca, gliela mise sulla spalla e la condusse verso l’uscita.
Mentre camminavano lungo i corridoi affollati della scuola Gwen e il suo gruppo li raggiunsero. Per loro fortuna però li ignorarono tranne il biondino di cui Soph era cotta. Lui le guardò con un intensità tale da farle sciogliere le budella. Mentre si dirigevano in due direzioni opposte Soph sentì Belle sussurrargli qualcosa con una tonalità così bassa che pensò di esserselo immaginato.
« E’ cominciata » aveva detto.
Non sapeva cosa fosse cominciato ma sembrava quasi un avvertimento. Decise che non era il caso di pensarci e si lasciò condurre da Belle verso l’uscita. La ragazza l’afferrò per le spalle e la guardò intensamente negli occhi.
« Tu ora vai a casa » l’intensità del suo sguardo le fece paura « ti fai una tazza di te e ti metti a letto chiaro? Non uscire di casa » l’avvisò.
Soph non capiva cosa stesse succedendo ne perché Belle si comportasse in quel modo strano e protettivo ma non fece commenti e annuì.
L’amica le sorrise, l’abbracciò e poi si voltò per tornare a confondersi tra i tanti studenti che affollavano ancora i corridoi.
 
Cominciò a camminare in direzione della fermata dell’autobus cittadino visto che lo scuolabus sarebbe partito solo cinque ore più tardi. Arrivata a metà strada decise però di tornare a casa a piedi, per lo meno l’aria fresca le avrebbe dato modo di pensare. Doveva capire cosa stava succedendo.
Non poteva essere una coincidenza che Belle avesse sussurrato a quel ragazzo quelle parole, così come non poteva essere una coincidenza il fatto che quella notte avesse sognato qualcosa di diverso dal solito e la mattina avesse visto le sue orecchie diventare identiche a quelle di Legolas del Signore degli Anelli.
Stava impazzendo, quella era l’unica spiegazione logica.
Camminò lungo le strade della piccola cittadina per quelle che le sembrarono ore, costeggiando la foresta lungo la superstrada che portava a casa sua, la costruzione più lontana dal centro cittadino e più vicina alla foresta.
Non si accorse nemmeno della pioggerellina sottile che cominciò a cadere circa a metà del suo cammino. Semplicemente era troppo concentrata per farci caso.
Da quando aveva cominciato a costeggiare la foresta aveva avvertito una strana sensazione alla base della nuca, come un formicolio.
Si guardò in giro circospetta spingendo il suo sguardo fino nelle profondità delle foreste ma tutto era immobile e silenzioso come sempre. Le orecchie le facevano di nuovo male ma le ignorò. Se non avesse considerato il dolore, se si fosse convinta di stare bene, il suo corpo sarebbe stato bene. Il dolore però l’accompagnò per tutto il tragitto e la seguì anche dentro casa. Un dolore sordo e incessante.
Abbandonò lo zaino sulla soglia di casa e andò a chiudersi in bagno.
La piccola stanza era ordinata e perfetta come sempre. Profumava di giglio e lillà i suoi due fiori preferiti. Il grande specchio che troneggiava sopra il lavandino in ceramica bianca immacolata sembrava invitarla a sollevare i suoi lunghi capelli biondi e guardarsi le orecchie.
Soph aveva la strana sensazione che se lo avesse fatto, quello che avrebbe visto non le sarebbe piaciuto. Riusciva ad avvertire le sue orecchie che mutavano forma sotto quell’ammasso di capelli biondi. Le sentiva più lunghe, più calde e decisamente appuntite. Era come se avesse acquisito una nuova consapevolezza del suo corpo o almeno delle sue orecchie. Le sembrò anche di sentire molti più rumori di prima: rumori che non avrebbe dovuto sentire.
Le sembrò di sentire uno scoiattolo che rosicchiava qualcosa all’interno dell’albero che cresceva vicino alla sua camera. Ma doveva essere impossibile, giusto?
Come poteva sentire un rumore così basso e lontano? Nessun essere umano avrebbe potuto.
Aprì l’acqua della doccia in modo tale che l’unico rumore che le sue orecchie potessero captare fosse quello dell’acqua che cadeva nel piatto doccia. Uno scroscio insistente e continuo che sovrastava tutto. Visto che ormai aveva aperto l’acqua decise di farsi una doccia, forse così sarebbe riuscita a lavare via un po’ dell’agitazione che le turbinava dentro. L’acqua aveva sempre avuto il potere di calmarla e renderla serena. Ripensando a quel particolare le venne in mente un’altra stranezza che la riguardava in prima persona.
Da che avesse memoria lei non si era mai fatta male. I suoi genitori non avevano mai dovuto metterle un cerotto, non aveva mai avuto febbre o coliche. Niente. Persino quando giocava vicino al limite della foresta con la spada di legno costruita dal padre e cadeva non si procurava ferite. Era quasi come se la natura non potesse nuocerle.
Un ricordo le balenò per la testa mentre, rimasta nuda, si infilò all’interno del piccolo box doccia.
Aveva circa sei anni e stava giocando al limitare della foresta con il suo amico daino e qualche scoiattolo. Gli animali la rincorrevano e si facevano rincorrere saltellando lungo tutto il perimetro della casa. La bimba gli correva dietro estasiata urlando ordini e ridendo a squarciagola.
I suoi genitori la osservavano commossi dalla finestra della loro camera da letto al primo piano ridendo divertiti.
Ad un certo punto uno scoiattolo si era arrampicato sul ramo di un albero per sfuggirle ma lei, decisa com’era ad acchiapparlo, cominciò ad arrampicarsi sul tronco, solo che ad un certo punto mise male un piede e cadde.
Ad un certo punto avrebbe dovuto sentire l’impatto con il terreno duro, si sarebbe dovuta fare male e invece atterrò in piedi senza un solo graffio. Quando alzò lo sguardo verso la chioma dell’albero notò che un robusto ramo pendeva verso il basso, verso le sue gambe, su cui era avviluppato. Ripensandoci ora, capì che quel ramo l’aveva afferrata per le caviglie mentre stava cadendo rendendo la sua caduta un volteggiare per aria.
La cosa era così assurda da sembrare impossibile anche a lei eppure era convinta che le cose, quel giorno, fossero andate proprio in quella maniera.
Chiuse l’acqua ed uscì dal box doccia più nervosa di quando ci era entrata.
Si avvolse dentro un grande asciugamano rosso cremisi e si tamponò i lunghi capelli con un altro asciugamano. Andò poi in camera sua dove si infilò un vecchio completo intimo, una felpa e dei pantaloni della tuta. Lanciò uno sguardo alla sveglia sul comodino vicino al suo letto rendendosi conto che era molto più tardi di quello che pensava.
Era uscita da scuola subito dopo la prima ora di lezione, il che voleva dire alle dieci del mattino, contando il fatto che di solito camminava a passo di bradipo, doveva essere arrivata a casa alle undici passate e dato che ora la sveglia segnava l’una del pomeriggio, voleva dire che era rimasta chiusa in bagno per quasi due ore.
Si chiese cosa stesse facendo Belle in quel momento, se fosse in mensa con tutti gli altri ragazzi o si fosse fermata a pranzare nel giardino della scuola. Probabilmente la seconda, visto che in mensa servivano sempre piatti schifosi. E a proposito di cibo il suo stomaco emise un brontolio piuttosto forte, come a volerle dire “ ehi abbiamo fami qui, non è che avresti voglia di mangiare qualcosa? “
Sempre di mal’umore scese le scale che portavano al piano di sotto e andò in cucina, i piatti della colazione la fissavano astiosi dal lavandino mentre il frigo sembrò risplendere di luce propria.
Lo aprì e lo esaminò alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Dei broccoli e dei peperoni la fissavano dal fondo del primo cassetto mentre zucchine melanzane e zucca le sorridevano dal ripiano più in alto. Dopo averci riflettuto per un po’ decise di cucinare un risotto alla zucca e zucchine trifolate a parte.
Afferrò quindi la zucca e due zucchine e si mise ai fornelli. Non era mai stata una cuoca eccellente come sua madre, ma se la cavava. Per lo meno era in grado di mettere insieme qualcosa che risultasse commestibile.
Quando il riso e le zucchine furono pronte le impiattò e si sedette a tavola. Stava giusto per mettersi in bocca la prima forchettata di risotto quando un piccolo scoiattolo entrò alla finestra e la raggiunse sul tavolo.
Non era la prima volta che una cosa del genere capitava, essendo così vicini alla foresta era normale che qualche animale, soprattutto durante i pasti, si avventurasse fin lì alla ricerca di cibo.
« Hai fame piccolino? » chiese Soph allungando una mano per accarezzarlo.
Il piccolo roditore lasciò che le dita della ragazza lo accarezzassero sulla fronte socchiudendo anche gli occhi.
Soph si alzò dal tavolo e si diresse verso la dispensa dove sua madre teneva la frutta secca. Agguantò un pacco di noci e di nocciole e li rovesciò sul tavolo, così che il suo piccolo ospite potesse servirsi a dovere.
Lo scoiattolo la guardò con riconoscenza e poi cominciò a riempirsi le guance che si allargarono fino a raggiungere dimensioni stratosferiche.
Soph rise divertita da quella scena. Non rideva così da molto, moltissimo tempo ed era tutto merito di un piccolo scoiattolo.
« Non c’è bisogno che ti riempi così le guance, lascerò le noci qui sul tavolo così quando vorrai potrai venire a prenderle, va bene? »
Si rese conto che, probabilmente, parlare con uno scoiattolo e aspettarsi una risposta non fosse esattamente quello che le persone definirebbero sanità mentale ma non le importava. Era a casa sua e nessuno in quel posto avrebbe potuto dirle qualcosa.
Il piccolo roditore mosse la testa in risposta e svuotò le sue guance, sputacchiando una dozzina di nocciole bavose sul tavolo. Dopo che le sue guance furono tornate a dimensioni normali, si avvicinò circospetto a Soph che lo guardava divertita e intenerita. Con un piccolo salto il roditore le si arrampicò sulla spalla dove si accoccolò.
Quel gesto lasciò Soph un po’ interdetta. Certo, aveva sempre avuto un ottimo rapporto con gli animali della foresta, ma nessuno si era mai accoccolato con così tanta tranquillità su di lei fidandosi ciecamente come aveva fatto quel piccolo roditore.
Qualcosa in lei stava cambiando, ne era sicura, ma non sapeva di cosa si trattasse ne se volesse davvero scoprirlo. Le faceva paura.
Una volta finito di mangiare, sparecchiò, facendo attenzione a non disturbare il suo nuovo amico e poi andò in salotto dove si accoccolò davanti al camino. Le fiamme erano spente così decise di accenderle. Prese della legna fresca dal piccolo contenitore accanto al camino, accese un fiammifero e aspettò che il fuoco attecchisse. Dopo pochi minuti potenti fiamme arancioni brillavano all’interno del camino in mattoni.
Uno spettacolo che Soph aveva sempre trovato affascinante ed ipnotico. Talmente ipnotico che i suoi occhi cominciarono a farsi stranamente pesanti, fino a quando, le sue palpebre si chiusero celandole il mondo esterno. 
  
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