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Autore: Drago Rosso Sangue    18/04/2017    1 recensioni
Scacchi e Carte.
Dal testo: «Buonasera... Professore» lo salutò il giovane con un sorriso freddo e una voce che, se fosse stata una lama, avrebbe trafitto il petto incamiciato dell'uomo che gli sedeva di fronte.
L'altro sorrise di rimando, sarcastico e furbo, portando avanti il pedone candido che teneva tra le dita macchiate di inchiostro di un quadrato, segnando l'inizio del gioco, senza nemmeno rispondere al benvenuto.
Buona lettura!!!
Drago :3
Genere: Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BLACK MIRROR

 

  «Una carta è bruciata» disse la bambina bionda con malinconia e una punta di tristezza nella voce.
Era bella, per essere ancora tanto giovane: aveva grandi occhi innocenti di un azzurro purissimo, e i suoi lunghissimi capelli d'oro erano mossi e abbelliti da un soffice fiocco nero sul capo.
Ed era anche elegante, avvolta nel suo vaporoso abito a balze bianche e nere, pizzi e merletti, quasi fosse una scacchiera vivente.
Sedeva al tavolo rotondo del locale al centro della stazione ferroviaria a sorseggiare il suo puntuale the pomeridiano, ma non era sola.
Proprio di fronte a lei era seduto un giovane uomo dai capelli bianchissimi come quelli di un vecchio e gli occhi di un verde innaturale, il collo coperto da una lunghissima e flessuosa sciarpa.
Non guardava la bambina, era immerso nella lettura di un piccolo volume tascabile sull'ideologia di Kant, ma quando la sentì pronunciare quella frase accavallò le gambe nervosamente ed ebbe un tremito impercettibile al polso che reggeva il libricino, facendo ondeggiare appena l'elaborato polsino in pizzo.
  «Peccato» rispose di rimando arricciando le labbra, e mostrò la sua impeccabile e onnipresente tranquillità.
La bambina non parve convinta di quell'affermazione così laconica, e quindi sfoderò la sua più convincente espressione di stupita sufficienza, entrambe le sopracciglia bionde pericolosamente inarcate, nel suo abituale - e assai efficace - modo per estorcere a chiunque le informazioni desiderate.
L'altro, che nonostante la sua fermezza non riusciva a resistere a quello sguardo, fu così costretto a replicare.
Chiuse di scatto il libro e lo appoggiò sulla superficie del tavolo con un piccolo tonfo, spostandolo, poi, di qualche centimetro per trovare la posizione più gradita, e iniziò a tamburellare con le dita guantate sulla copertina in pelle, noncurante, quasi saggiando la consistenza del volume e il suono lieve, ma carico di ansia, che produceva.
  «Sicuramente... è stato lui. Avevo mandato un mio sottoposto, il signor Thomas, ad incontrarlo, ma, come vedi, non è finita come mi spettavo...» spiegò semplicemente, restando molto sul vago e alludendo a fatti e progetti di cui solo egli stesso era a conoscenza.
La bambina si illuminò come un piccolo sole così all'improvviso, per poi tornare subito seria e composta, bruciato quell'effimero barlume di fanciullezza che era apparso in lei.
  «Allora è lui il cattivo!» disse annuendo vigorosamente più e più volte.
  «Mmmh... Chi lo sa?» osservò il ragazzo, pensieroso, più rivolgendosi a se stesso che alla giovane che gli sedeva davanti. «Il concetto di "buono" e "cattivo" è molto relativo: è tipico degli umani, sono loro a fare queste distinzioni» constatò solenne, portandosi una mano guantata a sfiorarsi il mento privo di barba e le labbra.
In quel momento, alla bambina parve che egli avesse l'aspetto e la mente di un antichissimo saggio, un'anima millenaria intrappolata in un corpo troppo giovane.
Poi il ragazzo si alzò repentinamente, senza alcun preavviso, facendo svolazzare la sciarpa e i lembi della giacca come fossero le stoffe di un candido spettro.
  «Bene, andiamo? Vieni!» esclamò, allora, con una luce particolare negli occhi chiari, e allungò le dita guantate verso la bambina dai biondi capelli.
Quando avvertì il familiare e dolce tepore che la minuscola mano di lei emanava attraverso la stoffa bianca, si avviò a passo concitato, passando tra i tavoli rotondi attorniati da foreste di sedie, alcune vuote, a rimuginare nella malinconia della solitudine, altre occupate da persone comuni che compievano le loro comuni abitudini, una tazza di the con i biscotti mentre aspettavano l'orario d'arrivo dei vagoni.
La bambina stringeva al petto un inquietante pupazzo vecchio di tela, che poteva essere un coniglio composto da vari scarti di stoffa di diversi colori e fogge, e pareva quindi segnato da profonde cicatrici su tutto il corpo tozzo, le orecchie un poco mangiate dalle tarme, gli occhi sporgenti ricavati da due bottoni scarlatti e un sorriso maligno sulla bocca cucita in verticale col filo nero, come se volesse riprodurre una tortura medievale, nella quale le labbra venivano unite tra loro e chiuse per sempre coi punti dell'ago.
  «Andiamo ad incontrare tutti gli altri?» domandò la fanciulla, talmente euforica che le sue parole si mischiavano con risate gioiose.
  «Sì!» rispose lui, stringendo un po' più forte la mano che avvolgeva nella sua, quasi volesse accreditare anche coi gesti la sua affermazione sicura.
  «L'Uovo, il Gatto, Duchessa, la Tartaruga... Ci sono tutti?» sorrise, saltellando goffamente dietro al ragazzo con la sciarpa, che aveva un passo lungo, nei suoi stivaletti dal tacco appena accennato, impacciata dall'ampia gonna, pesante a causa degli strati di broccato, ornati da pizzi e fiocchi.
  «Certamente!» le confermò.
  «Uaaah, voglio incontrarli subito!» ormai non stava più nella pelle, già pregustando il momento tanto desiderato, e quella buffa impazienza tipica dei bambini stava prendendo il sopravvento su di lei.
  «Ogni cosa a suo tempo, Signorina. Prima abbiamo un treno da prendere, e sarà sicuramente in orario, parola mia» la rassicurò lui, scoccando una fugace occhiata al ciclopico quadrante appeso, proprio come un enorme occhio, alla trave di maggior portata sul soffitto a vista della stazione.
La carrozza metallica arrivò sferragliando allegramente sulle rotaie di ghisa, il fumo della locomotiva si arricciava all'indietro assumendo la divertente forma della pelle di un rettile dopo la muta.
Il ragazzo aiutò la bambina a salire, tenendole entrambe le mani mentre saliva la piccola scala, ma, nonostante fosse al suo fianco e la deliziasse con quel sorriso che rivolgeva a lei soltanto, la sua mente era distante, chilometri di campagna e cittadine poco abitate la separavano da quel corpo così estremamente peculiare.
Il giovane dai capelli candidi pensava a un paio di occhiali bianchi su un volto privo di età, tanto che il tempo su quella pelle era persino indecifrabile, e, voltando la testa verso l'imbocco della galleria, in modo che la bambina non riuscisse a sentire, sotto i fischi del treno a carbone, si rivolse a quella persona, come se si trovasse nei paraggi, a portata di orecchio: «Allora... Cominciamo subito il gioco?»

*

La notte serpeggiava sui muri intonacati come un'oscuro presagio, strisciando sotto una luna spenta che non voleva guardare sulla Terra, il ragazzo con la sciarpa camminava a passo spedito per le vie della città addormentata come se avesse fretta di raggiungere la propria, fatidica meta, in quella rea notte che soffocava i suoi crimini nell'ombra.
Non poteva tardare, soprattutto non con lui che venerava il tempo in tutte le sue arcaiche e crudeli forme, amando ogni singolo numero inciso sul quadrante, ogni lancetta finemente plasmata, ogni ipnotico ticchettio.
Gli sarebbe bastato un quarto d'ora, secondo i suoi calcoli, se avesse affrettato maggiormente il passo già rapido.
E così fece, scivolando fluido tra le strette vie oscure della periferia in degrado, fino ad addentrarsi nel cuore della città, le strade fiocamente illuminate da graziosi lampioni dalle lanterne coniche, dietro il cui vetro ardeva una piccola fiamma, talmente tremolante che pareva in procinto di spegnersi, impaurita dalla notte: affacciata ad una piazza ovale dai pavimenti marmorei disposti geometricamente, si ergeva un enorme palazzo in stile vittoriano, che svettava imponente e ampolloso, con le sue statue di guardia ad ogni finestra sormontata da un timpano, su tutti gli altri edifici, ma nel buio pareva incombere, scuro e silente, sul borgo come la nera morte che ogni uomo attende.
Il maestoso portone in legno di quercia, sul quale erano incastonati decine di chiodi dorati di un palmo di lunghezza, era socchiuso quel tanto che bastava per consentire il passaggio del magrissimo ragazzo degli occhi verdi, che prendeva stoicamente atto della fredda accoglienza con sguardo serio e determinato, non essendosi aspettato un trattamento migliore; quando costeggiò la maniglia, prima di immergersi nell'oscurità del varco e immettersi nell'immobilità surreale del salone d'ingresso che poteva essere percepita anche all'esterno, notò con un brivido che il pomo di ottone placcato raffigurava una dorata pedina degli scacchi: il Re.
Turbato, si avviò per i corridoi in penombra, osservato dalle nicchie vuote lungo il cammino che potevano ospitare oscuri spettri, quadri sbiaditi che lo seguivano con i loro sguardi spenti, ma astiosi, ornando le tristi pareti coperte da lise tappezzerie dai colori tenui, lugubri candelabri vestiti di ragnatele posti su alcuni mobili nascosti da vecchi teli, solitari guerrieri di bronzo sulle impervie scogliere lattigginose, mentre il rumore dei propri passi rimbombava sulle piastrelle stuccate e piene di crepe come il ticchettio di un immenso orologio, unito al battito del cuore tanto lento da essere quasi esasperante.

Tutto in quel luogo rimandava a una sontuosità che doveva essere una meraviglia per lo sguardo, ma ormai decaduta lasciava quasi disgustato l'osservatore.

Finalmente, dopo dedali di corridoi e scale che si assomigliavano tra loro, arrivò a destinazione, una piccola porta ogivale, un poco annerita da un antico incendio, eppure miracolosamente sopravvissuta alla brutalità delle fiamme, nascosta per la maggiorparte da una pesante tenda di broccato nero, pareva scolpita nel marmo per la sua gerevezza, situata sulla torre più alta e nascosta della villa.
Non appena terminò di salire amche l'ultimo degli stretti gradini e, sul pianerottolo in granito che poteva ospitare una persona soltanto, scostò, non senza difficoltà, il drappo scuro, tutte le fiaccole che delimitavano le pareti della chiocciola si spensero all'unisono, come se un gigante vi avesse soffiato sopra il suo fiato cavernoso.
Il giovane restò al buio.
Respirando intensamente, appoggiò una mano guantata sulla superficie tiepida - aveva racchiuso in sè il calore del fuoco - della porta, la cenere gli macchiò la seta bianca, e, stringendo ben salda la maniglia, aprì l'anta cigolante, trovandosi in un antro dalle dimensioni inafferrabili, illuminato solo da un globo di luce azzurra sospeso al centro della stanza.
Nel cono abbacinante, seduto ad un tavolo quadrato coperto da una tovaglia bianca, un uomo sorrideva enigmatico, i cui occhi di ghiaccio, dello stesso colore del fuoco fatuo che fluttuava sopra di lui, brillavano dietro le lenti rettangolari di un paio di occhiali dalla bianca montatura.
I suoi capelli rossi, ingrigiti dall'età avanzata, nonostante questa non si riflettesse sul volto levigato, parevano un miscuglio di sangue e cenere dopo un tremendo incendio che aveva divorato case e uomini; teneva le mani giunte sotto il mento coperto da una leggera peluria rossastra, a volte ammiccando verso il nuovo arrivato, ancora immobile sull'uscio nel buio dell'arco, altre addocchiando l'impeccabile scacchiera intonsa che svettava al centro del tavolo, tutte le piccole pedine di vetro colorato in fila come un gelido esercito schierato a battaglia, in un invito esplicito a iniziare una nuova, estenuante partita.
Il ragazzo dai capelli bianchi, dopo aver raggiunto quell'insolito salotto con due ampie falcate ostentanti sicurezza, allontanò la poltrona, le gambe stridettero atrocemente contro il pavimento, e si sedette sopra il morbido cuscino scarlatto, sprofondando nella spugna con un sospiro volontariamente non trattenuto.
  «Buonasera... Professore» lo salutò il giovane con un sorriso freddo e una voce che, se fosse stata una lama, avrebbe trafitto il petto incamiciato dell'uomo che gli sedeva di fronte.
L'altro sorrise di rimando, sarcastico e furbo, portando avanti il pedone candido che teneva tra le dita macchiate di inchiostro di un quadrato, segnando l'inizio del gioco, senza nemmeno rispondere al benvenuto.
  «Ah! È scorretto, Professore» civettò il ragazzo con un'enfasi teatrale, quasi melodrammatica, contrattaccando con una mossa simile, il suo pedone nero e lucido, le bolle rimaste intrappolate nel vetro rilucevano sinistre, si spostò anch'esso di una casella.
La tremenda partita si era stata inaugurata, ogni possibilità di salvezza era svanita, la vita e la morte concentrate in un quadrato invetriato sopra il quale si combatteva una strenua guerra di lettere e numeri: i due solenni avversari si fronteggiavano a suon di azioni, alfieri e pedoni, entrambi divinamente abili nel nobile gioco degli scacchi, era una splendida arte che elevava lo spirito a luoghi inaccessibili al corpo solo, si dilaniavano sul campo di battaglia con mosse astute e studiate che si susseguivano a un ritmo serrato, nonostante fosse una lenta danza di armi in miniatura atte a distruggere l'avversario.
La situazione sulla scacchiera pareva portare un netto svantaggio al ragazzo ancora avvolto nella sua sciarpa quando le prime luci dell'alba, invisibili nella torre, iniziarono a fendere come spilli le sottili nuvole che si erano accampate sopra la città per la notte.
Il Professore rise di gusto, malvagio, appoggiandosi una grande mano sul petto sconquassato dall'ilarità improvvisa.
  «È un vero peccato» sussurrò malignamente arricciando le labbra, dopo che si fu ripreso, prendendosi apertamente gioco dell'altro, che osservava la scacchiera come ipnotizzato dalla disposizione delle pedine. «Ho la dolcissima sensazione che voi finirete come il vostro inutile e sfacciato sottoposto, Re di Cuori» continuò imperterrito, fingendo maestralmente un dispiacere indescrivibile, ma smentito dal ghigno che gli deturpava la bocca, e, con uno sbrigativo cenno del capo indicò un corpo carbonizzato che giaceva al fianco del tavolo.
Il giovane si voltò lentamente.
Sbiancò come se gli avessero stillato tutto il sangue nelle vene nel vedere in cadavere di Thomas, la sua Carta più fidata, così usurpato e umiliato, lasciato a marcire come un pezzo di legno in una stanza dimenticata dalle divinità celesti; reprimendo un conato di vomito, distolse lo sguardo verde e lo posò, invece sul Professore, il carnefice, che sorrideva come un gatto sornione, compiaciuto da se stesso nel pregustare il suo successo schiacciante, e dietro di lui, se ne accorse solo in quel momento, brillava di pura oscurità un nero specchio senza cornici o contorni.
Il ragazzo dai capelli bianchi si riscosse, poi, dal torpore che la paura gli aveva iniettato nell'anima, nell'analizzare la scacchiera con maggior attenzione.
  «Non credo proprio, Re di Scacchi» sorrise trionfante, avendo sciolto la matassa che li teneva legati in quel sadico gioco, internamente esultando nello scorgere l'espressione genuinamente stupita sul volto del suo nemico, evidentemente ignaro della realtà di fatto.
  «Scacco Matto» scandì.
Lo specchio nero si spalancò con un boato degno della fine dei mondi, e dal vetro liquido e vorticoso uscì la demoniaca apparizione della Bestia, nera come l'ombra e rosse come il fuoco, le lunghissime orecchie avvolte dalle fiamme dell'Inferno, gli occhi come due cristalli di sangue in cerca di carne fresca da dilaniare con le zanne putride.
  «E così la vostra ora è giunta, Re di Scacchi!» urlò il febbricitante Re di Cuori sopra il frastuono dell'oltretomba che il demone produceva, ridendo come un matto.
Puro terrore si dipinse sul volto del Professore quando la Bestia spalancò le sue terribili fauci, avvolgendo quel corpo urlante di dolore e terrore con le fiamme della morte, e lo trascinò con sè.

*

Nella stanza ormai regnava il silenzio, perché quasi tutti gli abitanti di quella casa erano andati a dormire, vista l'ora tarda.
L'unica luce proveniva dalle fiamme vermiglie racchiuse nel camino di marmo rosso, ardendo sui ceppi neri.
Lì davanti, su un ampio cuscino dall'aspetto altamente morbido e confortevole, sedeva la bambina bionda, scaldandosi nella silenziosa notte fredda avvolta da una coperta rosa confetto.
Aveva gli occhi fissi sul fuoco, che si muovava come mille braccia richiedenti aiuto, attirata da una bianca pedina che stata bruciando lentamente tra le fiamme.
Si voltò verso la creatura dalle nere orecchie che stava giocando svogliata con un vermiglio gomitolo di lana grezza, sdraiato sul cuscino accanto alle balze della gonna.
  «Che bella la pedina del Re Bianco che brucia!» esclamò meravigliata, il sovrano di vetro che scioglieva appena riflesso nei grandi occhi. «Non trovi, Gatto

*
*
*

Angolo del Drago

Habemus Drago!
È passato tanto tempo, ma eccomi ancora qui!
Come al solito sono bloccata coi capitoli, ma ovviamente scrivo storie brevi autoconclusive.
Bene, questa storia è nata da un disegno, una cosa sobria in cui si vedeva una bambina che teneva per mano qualcuno che non si vedeva con abiti ottocenteschi, e stringeva il coniglio con le labbra cucite. La contrapposizione Scacchi-Carte penso che sia sempre esistita, poi mitificata da quel grande genio di Carrol.
Comunque, ho fatto vincere le Carte, ma io sono piuttosto brava a Scacchi: che contraddizione!
Comunque... Buona fine vacanze di Pasqua e buona serata!
Ringrazio già in precedenza chi leggerà e chi recensirà (le recensioni sono sempre gradite e mi aiutano a migliorare [vero, Filippo?!?!]) <3 <3 <3

Drago :3

  
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