Piove. Non finirà mai di
piovere.
Il cielo è scuro, minaccioso, nuvole gravide d’acqua si scontrano generando
elettricità. Le gocce che si infrangono contro i vetri
della finestra sono grosse, e lasciano una lunga scia prima di unirsi alle
altre compagne. Il vento scuote le mura, ulteriore
manifestazione del temporale che sta imperversando sulla città.
Ma solo sopra il suo cielo le nuvole hanno deciso di svuotarsi. Tutto intorno
alla città non vi sono tracce di pioggia, di vento, di tristezza. Sono solo in questa.
Perché solo in un palazzo di questa vi sono io.
Una ragazzina, una giovane
donna, con in mano un coltello. Una singola candela è
posata sul parquet, ricco di tappeti come in tutte le altre stanze dell’hotel. Solo che, mentre in tutte le altre le luci sono accese per
sconfiggere con la tecnologia i bisogni della natura, nella mia tutto è spento,
persino quel piccolo mozzicone destinato a morire dopo essere stato usato sino
allo stremo. Ogni tanto vi è una piccola fiammella che lascia
intravedere per qualche secondo i tratti del mio viso, ma dura poco. Il mio
indice si brucia e soffro ogni volta nel vedere la luce. Eppure,
lo devo fare.
Per l’ennesima volta, fissò
attentamente le mie mani, in particolare i polpastrelli. Li guardò,
attentamente, vedendo in essi altri milioni di mani. Ma questi, per magia, si accendono al mio solo volere. Ed
ecco di nuovo una fiamma, distruttrice di utopie.
Adesso, con la luce, si vede
chiaramente. L’entrata di una grotta, lì dove dovrebbe
esserci la fine della stanza, nel punto dove fino a pochi secondi fa
intravedevo i contorni del letto. Lo scintillio di qualcosa all’interno
della grotta, nelle sue profondità. Dei rilievi sui bordi
dell’entrata, antichi simboli geometrici la cui astratta bellezza è resa ancor
più vivida dall’azzurro che li riempie. I mobili
scomparsi, tutti, sostituiti dalla presenza di due uomini, posti ai margini
della bocca di quel buco nero.
Faccio
estinguere la fiammella, non mi serve
in questo momento. Avverto chiaramente dietro di me, la presenza di un uomo.
Non lo vedo, riesco solo a
percepirlo, sia attraverso i miei sensi, acuti come possono esserlo solo in una
situazione di pericolo, sia attraverso il mio corpo, riscaldato dal suo. Non
porta niente addosso, nessun vestito, nessun misero straccetto per poter
nascondere la gioia che prova nel toccarmi. Niente. Ha solo la pelle, il
sangue, i muscoli, che pian piano si avvicinano a me fino a trattenermi in una
morsa.
Il suo intento è chiaro, e va
contro i miei desideri, ma è del tutto inutile protestare con le sole forze del
mio misero corpo. D’altronde il suo è già formato, esperto su come forzare una
donna e anche su come non far sembrare il suo atto una costrizione, sapiente
dei suoi desideri e dei mezzi per ottenerli.
Ed io, misera ragazzina, non posso far altro che
rilassare tutti i muscoli del mio corpo e tenderli a sferrare un unico attacco,
l’unico a me concesso.
Un solo colpo, alla vita.
Il coltello taglia l’aria
vicino il mio fianco sinistro, deciso ad affondare in quello del mio
avversario. Quello si sposta, più verso destra, un po’ più lontano dal mio
coltello. Eppure, questo riesce nel suo compito.
Una sottile striscia di
sangue rosso vivo scivola da un involontario taglio, che spicca sul mio fianco
nudo. Un piccolo ritardo nella mia reazione, sufficiente però
a risvegliarmi da quell’illusione.
Attorno a me, vi è solo aria.
In fondo alla parete, vi sono solo i classici elementi degli arredamenti di un
hotel. Il coltello è ancora stretto nel palmo della mia mano
sinistra, il taglio si sta già rimarginando, andandosi ad aggiungere
agli altri presenti a decine sulla superficie di quella pelle candida.
Controllo inconsciamente la
mia ferita, non sporcherà la mia maglietta, il cui orlo
sfiora la mia pelle appena un centimetro sopra quella striscia. Pulisco il
coltello sul cotone della mia T-shirt, fino a rendere nuovamente continuo il
riflesso della luna sul suo acciaio. Prendo il mozzicone
della candela in mano, mi avvicino alla porta. Scorgo per un attimo il
mio ritratto in uno specchio: insensibile a tutto. Adesso posso andare, anche
oggi ciò che andava fatto l’ho fatto.