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Autore: L0g1c1ta    20/04/2017    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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La tomba scoperta non l’ha nemmeno pensata in quei giorni. Alla luce del giorno, col sole che filtra i suoi raggi in mezzo ai rami verdi, pare quasi patetica. Sospira a denti stretti. Le rose sono marcite in questa settimana dolorosa. Le dovrà bruciare, più tardi. Stare lì, nell’ombra della sua casa, a guardare l’inizio del suo struggimento gli toglie ogni energia. Ricorda cosa debba fare, allora attutisce dentro di sé un secondo sospiro.
Si abbassa, afferra la bara di legno. La solleva con facilità. Sembra molto più leggera di come ricordasse. Con la sinistra afferra il coperchio. La chiude, la serra, la porta sulla spalla e cammina.
Il giardino d’avanti casa è illuminato dal sole estivo. Sente la pelle bruciare, fa davvero caldo. Ma preferisce ardere sotto al sole che irrigidirsi nel freddo della neve, per questo non si lamenta e, se non fosse per la tristezza, gli spunterebbe un sorriso. Parte del giardino è spoglio. Non è rimasta nemmeno una rosa, tutte donate a Polonia. Il cuore pesa di tristezza. Dovrà piantare altri semi, forse di altri fiori. Vedere di nuovo i cespugli rossi e bianchi gli farebbe irrigidire lo stomaco.
“Lettonia caro!” sente in lontananza. L’occhio si volta. Non li vede, devono essere dall’altra parte del giardino. Ucraina è guarita in fretta e Lettonia ne è rimasto sollevato. Sorpassa la macchina e il cancello. La voce si fa più lontana “Ti ho preparato un panino…” gli sembra di sentire, insieme ad un Lettonia con una vocina timida e felice. Non li sente più.
Il boschetto gli pare insignificante e tutto questo verde pare non aver alcun colore. Non vede gli scoiattoli appollaiati sui rami alti, non sente il cuculo cinguettare tra le foglie, non nota i ricci e i funghetti appoggiati sulle loro spine, né sente odore di lamponi e fragole.
Si ferma di fronte alla casetta. La osserva un attimo. Sembra cupa ed ipocritamente pericolosa. Non pare nemmeno terribile. È un mucchio di legno come tanti altri. La scalinata cigola sotto i suoi piedi pesanti. Questa, si rende conto, è la vera tomba dove doveva stare Polonia. È il luogo dove avrebbe abbandonato Lituania, se il suo amico l’avesse portato in Paradiso insieme a lui. Avrebbe poggiato i capelli scuri del ragazzo vicino alle ciocche dorate di Polonia. Li avrebbe lasciati dormire sul suo vecchio materasso e avrebbe imboccato a loro le coperte. Sente Lituania come morto. Si chiede ancora, come ogni giorno, se sarebbe stato meglio lasciarlo morire. Immagina se stesso quella notte, che girasse le spalle al ragazzo e lo lasciasse accogliere tra braccia più morbide delle sue. Sarebbe stato felice, avrebbe chiuso il debito che ha con Lituania. Non avrebbe avuto un fantasma insensibile in casa. Non avrebbe mai visto degli occhi seri e freddi nel suo viso. Non avrebbe visto un estraneo simile a lui in guerra, ad uccidere come se fosse parte della sua anima. Lituania non è più un angelo, dopo tutto quello che ha vissuto e sofferto.
Prova ad aprire la porta. È chiusa a chiave. Ha un attimo di smarrimento, poi ricorda: l’ha chiusa per sempre ieri, questa casetta. Scuote la testa, incredulo della sua memoria corta. Si volta, pensa di lasciare qui la bara e di sperare che nessuno se la porti via. Potrebbe servirgli d’inverno, per accendere le braci del camino. Si volta, dimentica cos’è questa casa e perché lo angosci così tanto. Le spalle sono pesanti come montagne. Cammina verso casa, senza nemmeno guardare il boschetto fuori il cancello. A malapena ricorda cos’ha fatto e come ci sia finito in giardino.
Il cancello lo sorpassa col cuore pesante. Fino ad ora ha tenuto lo sguardo ancorato ai suoi piedi. Se ne vergogna, non dovrebbe farsi vedere infelice a casa sua. Alza la testa. Il sole lo abbaglia. Strizza gli occhi, d’istinto poggia una mano di fronte a sé per proteggersi. Il sole sembra perdere consistenza sotto la sua mano. Un lampo nero si muove alla finestra. Estonia non lo vede, voltato di spalle. Lo guarda alzato sulle punte, con lo straccio che strofina con fatica il ripiano troppo alto della biblioteca. Fosse alto come Lituania ci arriverebbe senza fatica. Lettonia gli dà un grande aiuto in casa, ma non ce la possono fare da soli. Hanno bisogno del fratello maggiore, per il fisico e per lo spirito. Lituania sarebbe stato alle spalle di Estonia, gli avrebbe dato un altro compito e avrebbe ultimato lui lo spolverare della biblioteca. L’assenza di Lituania sembra un pezzo di puzzle che in qualche modo rende incompleto il quadro.
Oltrepassa il giardino frontale, si dirige verso la tomba, che ora pare più una fossa scavata inutilmente. Questo lato di giardino non ha un raggio di sole. Abbassa il braccio, afferra la pala appoggiata al muro della casa. Con questa butta la terra, pezzi di rose e gambi di fiori dentro il buco.
Inizia a chiudere la tomba, così come vorrebbe rattoppare ogni strappo che ha provocato nel cuore di Lituania.
 
 
 
 
 
Il ronzio interminabile del rasoio è straordinariamente rilassante. Non lo agita, non gli dice nulla di sbagliato. Non gli fa del male, nemmeno se strappa dal suo cranio ciuffi di capelli. È come starsene ore ed ore ad ascoltare il gocciolare insistente della pioggia sulla sua testa. Lo rende leggero, questo ronzio. Polonia sente sempre più la testa leggera. Vede la mano che regge l’apparecchio, ma non l’uomo, né il suo volto. Non gli interessa nemmeno, in verità. Crede che non lo ricorderà comunque. Vorrebbe sbadigliare, ma non è certo di riuscirci.
Una metà di testa si libera delle ciocche bionde, il rasoio concentra le sue lame sull’altra metà di cranio. Il lato sgombro non ha un pelo. Polonia lo immagina biancastro, un pallone imperfetto. Ha freddo su quella pelle. Non ricorda affatto quando mai avesse avuto i capelli corti o quanto li rasò da ragazzino. Non ricorda neanche il gelo sul cranio affatto liscio. Immagina buchi microscopici sulla sua testa, senza un filo di capelli a riempirli. Che immagine triste, pensa.
Guarda in basso, mentre il ronzio dell’aggeggio pare quasi sul punto di spegnersi. Sulla sua spalla cade una ciocca sporca di fango. Era pesante come una zavorra. È quasi felice di liberarsene. Non si muove, ma quella cade dalla scapola e finisce a terra. Ai suoi piedi ce ne sono altre di queste larve. Non vede nemmeno un ciuffo giallo. Il pavimento tra le sue caviglie è tetramente scuro. Prussia l’ha trascinato fin quaggiù e quaggiù, in questa baracca congelata, l’hanno fatto sedere come un burattino senza fili. Non riesce ancora a muoversi ed è troppo stanco anche solo per pensare di essere in grado di muoversi. Ma dopo quel sogno orribile, non crede di poter più riuscire a fare un passo. Il rasoio si spegne, una mano gli scuote la testa col palmo e lo libera dai ciuffi morti. Hanno finito.
Sanno che non può muoversi, a quanto pare. Qualcuno gli poggia il braccio sotto la gamba e un altro sotto la schiena. Ha le braccia robuste, questo personaggio. Lo tira su, quasi gli fa fare un balzo in alto, e Polonia non batte nemmeno le palpebre. E’ esausto, ha sonno, non riesce a sbadigliare. Sente l’ondeggiare del corpo dell’uomo insieme al suo. Lo rilassa anche questo. È come una di quelle culle in cui non è mai riuscito ad entrare da bambino. Il cranio ha brividi di freddo.
L’uomo senza volto e senza identità lo poggia a terra. Polonia non registra su cosa sia seduto, non riesce a rendersene conto. Questo stesso uomo, con naturalezza, si china affianco a lui e inizia a sbottonargli la casacca della divisa. Polonia segue con fatica le dita grassocce. Gli sfila la mantella, la casacca e gli stivali. Le sue mani sono veloci, anche se spesse come salsicce, non riesce a registrare tutti i suoi scatti. È come vedere tutto sfocato. Si muovono sulla sua schiena. Sente lo strappo della maglia. Chiude le palpebre, le riapre. Non lo sente più. Forse deve aver finito e gliel’ha tolta, non ne è sicuro.
Poggia la sua schiena per terra. L’impatto leggero con il pavimento non lo ode, immagina solamente che ci sia stato un impatto. Non gli interessa veramente. Il mondo gira attorno a sé, come scosso. Smette di girare. Gli toglie i pantaloni. Sente freddo ovunque. Quello se ne va, senza voltarsi. Lo abbandona lì, nel pavimento congelato, nudo come un bambino. I suoi vestiti non li ha portati via. Deve avergli calciati in un angolo, lontano da lui. Non sente vergogna. Il mondo è fermo, i suoi pensieri sono fermi. Non sente un briciolo di disagio come quando si dovette svestire tra tutti quegli sconosciuti con Magda. Non gli interessa molto. È ancora troppo stanco per realizzare qualcosa.
Scende dell’acqua dall’alto, che lo bagna come un pulcino. Sbatte le palpebre. Qualche goccia perlata gli entra negli occhi. Serra le palpebre, sospira per il nuovo freddo che scambia per caldo. Per un attimo ricorda la stanza affollata dov’era stato rinchiuso con la piccina. Crede che sia la stessa, ma non ne è certo. Dall’alto scendeva acido e qualcuno aveva urlato di un certo gas che non aveva mai sentito nominare, ricorda. L’acqua lo innaffia, è ghiacciata, ma non lo fa tremare. Con fatica capisce che non sia la stessa acqua disgustosa che ha bruciato la sua pelle quella volta. È acqua, vera acqua invernale. E ne è zuppo, in ogni angolo di sé. Immagina che dovrebbe vergognarsi, ma non ricorda bene come ci si vergogna, quindi resta fermo laggiù, ancora abbandonato. Non apre le palpebre.
L’acqua smette di bagnarlo e ferma la sua pioggerella in quella stanzetta. Delle ultime gocce tentennano nel toccarlo. Ha freddo, ma immagina che il suo corpo non ne abbia. Non lo capisce affatto in questo momento. Si sente umido, ma pulito. Non del tutto, ma è pulito. Apre le palpebre e ora sembra la cosa più complicata del mondo. Un’altra ombra, un altro uomo senza volto. Non sa se sia lo stesso di prima: se l’è già dimenticato. I suoi vestiti appaiono in mano a questo, con la maglia strappata e gli stivali distrutti da tutto quel che gli è accaduto. Guarda delle mani rovistare dentro le tasche della casacca e dei pantaloni. Polonia ha un lampo di consapevolezza. Sbatte le palpebre. Il corpo per un attimo si riscalda di vita. Ricorda della coroncina che aveva trovato con Toris e del nastro di Liet. Li ha nella tasca, ne è certo. Sono le uniche cose che si è portato dietro da quel viaggio nel nero. Deglutisce, incerto di quel che stia facendo questo mostro.
Le mani rovistano nella tasca sinistra della giacca. È gonfia, rovista per pochi secondi. Tira fuori la coroncina e il nastro nero, ingarbugliato tra le pietruzze rosse e blu. Polonia sente aria nei suoi polmoni e palpebre spalancate. Il cuore ha un sobbalzo: le mani separano la coroncina dal nastro. La coroncina striscia fin nella tasca dell’uomo. La serra. L’uomo si volta, sembra andarsene. Polonia guarda le dita, come se possano cambiare qualcosa di tutto quello che gli sta accadendo. Vede la tasca dell’uniforme nera ingrossata e mai più toccata. Il nastro scivola dalle sue dita, sbatte contro il tallone della suola di cuoio e cade accanto alla mano di Polonia. Lo abbandona, insignificante per lui. Polonia guarda con fatica il nastro. Un istinto muove le sue dita. È meravigliato che riesca a sporgere la sua mano fino ad afferrare con l’indice e il medio il nastro. Le dita lavorano con una fatica inumana. Chiude il nastro nero nel suo pugno, lo ingloba completamente. Lo stringe forte, chiude il pollice sull’indice e il medio. Sembra la cosa più calda che abbia mai preso in mano.
Chiude le palpebre e le riapre. Ora è seduto, toccato da altre mani. Sbatte le ciglia. È come se si fosse addormentato e poi fosse stato buttato in un altro posto sconosciuto. Se ne rende conto, ma non gli importa. Muove pian piano il pugno. Il calore del nastro di Liet chiuso dentro le sue dita non è svanito. È l’unica cosa che gli interessi per davvero. Lo tengono ferme un paio di mani, un altro paio sembrano fargli indossare dei vestiti diversi. Gli occhi riescono a compiere la fatica di guardare quello che fanno. Un paio di mani lo sollevano, un altro paio gli fanno indossare con distrazione dei pantaloni, forse un po’ troppo larghi per lui, una camicia, anche questa troppo grande, e delle scarpe che non ricorda di aver mai visto. Sembrano fatte di legno, ma Polonia non riesce a capire perché debba indossare delle scarpe di legno e perché debbano esistere delle scarpe del genere. Guarda questa sorta di divisa. Rimane per la prima volta perplesso. Sembra una di quelle uniformi carcerarie che ha visto anni fa nei film di America: è strappata, bianca a righe nere. Non capisce, ma è troppo stanco per farsi domande.
Una delle quattro mani gli afferra il braccio, non quello che stringe il nastro di Liet, si accorge con sollievo. Fa tirare la camicia a righe fino al gomito, senza fretta, ma nemmeno con calma. Sono incredibilmente brusche, le mani. Gli fanno quasi male. Un’altra mano sconosciuta fa avvicinare un bastone scuro, lungo e probabilmente anche pesante. L’estremità tondeggiante pian piano si avvicina verso l’interno del braccio. Polonia vede le sue vene blu e verdastre sotto la sua pelle magra. Il bastone si avvicina. Avverte un calore improvviso, verso la sporgenza del bastone. Polonia batte le palpebre, avuto uno scatto improvviso al cervello addormentato: quello non è un bastone.
La punta tonda viene premuta sulla sua pelle. Il bruciore fa scattare un segnale d’allarme nella sua mente. Eppure non sente quasi nulla. Polonia continua ad osservare con attenzione, ora chiedendosi perché non senta la puzza di pelle bruciata e il dolore che il suo corpo chiede di provare, ma che non riesce ad emulare. La punta incandescente del ferro viene alzata e abbassata più volte. Le mani gli stringono con fermezza le spalle e le braccia. Pensano che possa avere una reazione o uno scatto, immagina Polonia. Ma non si muove, non sente dolore, non urla, non prova a scappare o ad allontanarsi da questa che dovrebbe essere una tortura o una punizione incomprensibilmente terribile. Lasciano il suo braccio, non lacrima nemmeno una goccia di sangue, non pare aver udito nulla nemmeno lui. Polonia stringe con più forza il pugno e il nastro, anche se non avrà spiegazioni per tutto ciò. Lo fanno alzare ancora e lo trascinano chissà dove, mentre la testa di Polonia ciondola verso il basso e guarda quel che gli hanno cicatrizzato per tutta la sua permanenza qui.
 
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Ritorna la sonnolenza e la consapevolezza di voler dormire. Sente lo sbadiglio rimbalzare nel suo petto e percorrere la sua gola. Non lo libera, anche la mascella fa fatica a muoversi. Chiude le palpebre, non pensa di volerle riaprire. Sente come una porta aprirsi. Vertigini da caduta. Le mani che l’hanno mosso fino ad ora lo hanno abbandonato ancora. Il suo cranio sbatte su un gradino, uno spigolo, un qualcosa che ora ha fatto prendere la rincorsa al suo corpo. Sente di precipitare ancora e di non sentire nemmeno un granello di dolore. Ha sbattuto poco più sopra dell’orecchio sinistro: lì l’hanno sparato quando fu separato per la prima volta da Liet, nella neve, con Russia che portava via il suo amico. Il proiettile è stato rimosso secoli fa, ma la conca è pur sempre rimasta. Toccarla di solito lo fa sobbalzare e sussultare, eppure ora non sente niente, solo capisce di essere stato toccato lì.
Il suo rotolare in fondo alle scale pare smettere in fretta. Erano pochi scalini, a quanto pare. È finito a pancia in giù, con la testa di lato ad osservare un muro che ora non identifica. Ritorna il sonno, a malapena ricorda di dover stringere meglio il pugno per non far volare via il nastro di Liet. Sbadigliano i suoi polmoni, si chiudono le sue palpebre. Il respiro si fa lento e dimentica quel che gli è accaduto fino ad ora.
Morfeo lo prende fra le braccia e lo porta lontano dall’Inferno.
 
 
 
 
 
Il re sbarra gli occhi e rimane incredulo della trappola, avvolto nello scuro mantello di ermellino. Il cuore pare aver preso il sopravvento sui polmoni, nel ritmo incalzante. Si sente rinchiuso tra le braccia della morte bianca. Lo stivale ricamato da abili sarti rimane imprigionato a terra. Il soldato senza volto, col suo lungo mantello luminoso, rimane fermo nella sua posizione, attendendo i comandi per poter sferrare il colpo decisivo. Il re si volta alla destra e alla sinistra, cercando una via d’uscita inesistente, ma è tutto inutile: il lato destro è marcato da un secondo soldato, senza un’espressione di pietà, senza poter chiedere di essere risparmiato; il lato sinistro è ben peggiore, pensa il re: il cavallo bianco dell’arciere non sbuffa nemmeno di fronte alla sua debole figura. È spacciato, si rende conto. Deglutisce, sentendo di essere giunto alla sua ora. Il cavaliere a cavallo incrocia gli occhi insensibili coi suoi terrorizzati. È pronto per attaccare.
Lituania allunga gli angoli delle labbra, consapevole di aver già vinto “Allora, Polonia… adesso sei con le spalle al muro. Cosa pensi di poter fare?” gli occhi azzurri scintillano per la futura vittoria. Entrambi hanno guardato la scacchiera ed entrambi sanno che qualsiasi mossa potrà fare il re nero non sarà altro che inutile, circondato e ormai perduto. Polonia sobbalza indignato. Sa bene che perderà. Odia gli scacchi e non vuole più giocarci da quando Liet incominciò a prendere quel gioco con una serietà disarmante. E’ ammirato dall’intelligenza di Liet, ma vorrebbe che quell’intelligenza sia sua. Incrina le sopracciglia, offeso.
“Che?! Cioè, questa è una totale follia! Non me ne posso uscire totalmente in nessun modo da questo casino! Tipo, per davvero!” Lituania sembra paziente e ugualmente felice. Polonia reprime il sospiro di rabbia e sdegno. Non vuole che Liet sia felice di vincere. In verità non vuole che Liet stia per vincere. Vorrebbe vincere lui. Ed essere intelligente come lui. E dimostrargli di essere migliore di lui. Ma Lituania è migliore di lui e Polonia non lo accetta. Gli occhi azzurri si posano gentilmente sui suoi.
“Io non perdo mai nei giochi in cui devi usare il cervello” anche la sua gentilezza irrita il biondino. I pugni si stringono e una nocca schiocca. Si sente tradito dal suo stesso amico. Si sente inferiore a lui. Non vuole essere inferiore a lui. Liet trasale, incredulo dall’espressione sbalzata di Polska “Uh?!”
Polonia alza i pugni. Non se ne accorge, ma ha quasi fatto un salto, seduto sulle proprie ginocchia “Userò la Regola di Polonia! Sarà il mio turno per sempre!” non si accorge nemmeno di aver alzato la voce. Lituania è spiazzato, preso di sprovvista. La lingua rimane incastrata nel palato. Spaventata, la testa si abbassa e il collo si ritira fra le spalle.
“Cosa?! Ma che dici?!” a Polonia spunta un sorriso: la faccia spaventata di Liet è divertente e soddisfacente allo stesso tempo. Prende l’alfiere col suo cavallo immaginario e lo butta. Afferra i due pedoni e le loro spade fiabesche e li getta lontani “Cosa? Che diamine è questa ‘Regola di Polonia’?!” Afferra la torre e la lancia dietro le sue spalle. E un altro pedone. E la regina. Tutti i pezzi bianchi di Liet. Lituania comprende quel che sta accadendo e sporge con uno scatto la testa dalle spalle “Hey, questo non è più il gioco degli scacchi! Ci sono solo pedine che volano via dalla scacchiera!”
Non c’è più nemmeno un pezzo bianco. Polonia ha tra le dita solo un ultimo pedone. Non c’è più nessun nemico da sconfiggere, non c’è più nessuno che possa impedirgli di vincere. Gli scappa da ridere. Liet ha una faccia divertente “Ho vinto!” esclama, più leggero con se stesso. Si sente il vero vincitore “Veramente, Liet, guardare la tua faccia è più divertente che giocare a scacchi!” ride ancora di gusto, sincero in quel che dice. Lituania ha la faccia nascosta dentro al suo cuscino. Non si muove da lì. Polonia lo guarda e la risata pian piano si affievola. Lituania sembra sentirsi male. Cade un cupo silenzio. Polska lo guarda e non ride più. Guarda la fronte ingoiata dalla seta arancione, le mani strette nei pugni, i capelli scomposti. Polonia sente un’angoscia strisciargli lungo le vertebre. Tutto questo non è più divertente. Il pedone fra le sue dita scivola via.
“Liet, scusa…”
Lituania non si muove. Non si smuovono i pugni, né i capelli impigliati nell’arancione. Sembra non respirare nemmeno. Polonia ricorda di avere nell’anima un altro se stesso più anziano, ma sente ugualmente la colpa iniziare a vibrare nella sua mente. Ricorda di aver riso e di aver rovinato il gioco. Si sente male. Il silenzio diventa pesante.
“Liet, non volevo dirti quelle cose… Non è vero che sei divertente quando sei triste. Liet, ci sei?” sussurra debolmente, ha paura di dire qualcos’altro di crudele. Lituania non si muove ancora. I pugni si stringono con più forza sul cuscino. Polska guarda le mani più morbide e le nocche più rosee del Liet più grande e gli pare udire lo stesso sconforto che ha il suo amico. Guarda la fronte, gli sembra rossa. Crede che stia per piangere. Gli trema il cuore. Si guarda attorno. I pezzi degli scacchi sono sperduti nella stanza. Non ha idea di dove possano essere quelli che ha buttato via dalla scacchiera. Guarda il pedone che aveva fra le dita e che avrebbe potuto fare la fine dei suoi gemelli e fratelli. Gli tentenna il sorriso quando lo poggia di fronte al re nero. Il turno è di Liet. Guarda il suo amico. Ha ancora la testa bloccata nella seta “Liet, ora è il tuo turno. Stai vincendo tu. Lo sai, no?”
Attende che l’amico alzi la testa, che lo guardi arrabbiato o triste o deluso di lui, che prenda il pedone e mangi il re. Che ritorni tutto alla normalità. Polonia attende e Lituania si fa attendere. Alza la testa dal cuscino. La sua fronte è più rossa di quel che credesse. I capelli gli nascondono gli occhi. Non lo guarda, non sembra pensarci nemmeno. Non sorride. Si alza, si volta, cammina verso la porta, senza nemmeno alzare la testa. Il cuore di Polonia smette di battere, le pulsazioni intrappolate tra le costole.
“Liet, hai vinto tu. Sei tu il migliore”
Lituania sembra non ascoltarlo o forse non vuole ascoltarlo. I passi vengono trascinati fino alla porta. La mano pesantemente tocca la maniglia. Polonia pensava di veder voltare il suo amico, di prendere il re nero e di gettarlo alle sue spalle. Di fargli capire che ha vinto e che è il più intelligente di lui. Il re nero rimane fisso sulla scacchiera. Gli occhi di Polonia sono attaccati alla figura del moretto che si aggrappa alla maniglia e la gira.
“Liet, ti voglio bene”
La porta viene aperta con una debolezza soffocante. Lituania striscia dentro i pochi centimetri aperti. Sparisce nel nero indefinito. Polonia guarda la porta e spera, prega, che possa tornare. La porta viene chiusa e la tristezza e il pentimento lo attagliano. Non respira neanche. Lituania non torna.
“Liet, torna qui. Facciamo pace…”
Liet non torna. A Polonia sembra che il mondo inizi a sbiadirsi e a scuotersi dolcemente sotto di sé. Il pedone bianco viene dimenticato sulla scacchiera dominata dal nero.
 
 
 
 
 
Il ricordo del sogno gli fa sentire più freddo di quanto non abbia. Si stringe con più forza le ginocchia alla pancia. Guarda il nastro ruvido di Liet e lo poggia fra gambe e naso. Gli pesa il cuore. Non ricorda se quella volta, giocando a scacchi, si fosse scusato. Immagina di no, non era il tipo da scusarsi per qualcosa. E la faccia triste di Liet gli era sembrata veramente molto divertente. Deglutisce, tira su il naso, anche se non ha pianto e non piangerà. Il nastro di Liet sembra profumare, ma non capisce di cosa possa profumare. Si sente male, anche il braccio marchiato dal ferro rovente brucia. Lo stomaco borbotta ancora. Si poggia una mano sulla pancia. È ancora perplesso del perché voglia mangiare. Con Toris, immerso nel bianco, non aveva mai sentito la fame e il freddo. La spina dorsale trema e scuote tutta la carne attorno. Ha freddo, sprofonda ancor di più nei panni sporchi che ha trovato.
Questa stanzetta scavata nel terreno non la comprende. Non capisce perché esista e perché abbia una finestrella così alta e irraggiungibile. Non capisce perché ci siano delle sedie e un tavolino. Non capisce perché ci sia questa oscurità fitta, nonostante la luce debole ma potente. Non ha senso. Non capisce nemmeno perché ci siano queste camicie strappate e questi pantaloni rattoppati proprio lì, gettati in un angolino. Non ha senso. Si stringe là dentro, scava dentro i panni, come un cane in una cuccia. Ci si rotola e ci si stringe dentro. Non riesce a scaldarsi, non è un vero letto. Il nastro di Liet è ancora in mano sua. Se lo poggia sul naso. Immagina il profumo di bosco del suo amico. È veramente la cosa più calda di questo Inferno.
Una porta sembra cigolare frettolosamente e sbattere contro la parete. Polonia sobbalza e parte della sua cuccia sporca si sfalda. Degli stivali marciano rapidamente sulle scale. Prussia si sfila il soprabito della divisa e l’appoggia su una delle sedie. Polonia lo guarda da sotto una camicia fin troppo sottile. Riconosce e vede la sua figura accomodarsi nella stanzetta, come se fosse casa sua. Sente il tintinnio indistinguibile di porcellana. La figura rimane un attimo ferma. Decide di togliersi dalla faccia la camicia strappata. Polonia guarda Prussia come se non l’avesse mai visto in tutta la sua vita. Questo soprabito luminoso ricorda di non averglielo mai visto addosso. Ha gli stivali appena lucidati, la divisa stirata, con quei due fulmini cuciti sopra. E piastre e piastre di medaglie sul lato del cuore. Lo abbagliano, anche se in questo posto vede più buio che luce. Prussia sembra luminoso e lui è gettato nell’angolo più buio della stanzetta. Polonia lo guarda meravigliato, Prussia non alza lo sguardo verso di lui, gli fa troppo male il cuore. Quella testa rasata e il segno passato del proiettile lo disgustano e lo opprimono. È un ricordo che non vuole avere nella sua memoria ora. Polonia non vede tutto questo, vede piuttosto quel che ha poggiato sul tavolo: un piatto con quella che sembra carne.
Si passa la lingua sulle labbra, lo stomaco brontola con più forza. Il cervello sembra pizzicare insistentemente sulle sue tempie. Per un attimo gli sembra di sentire l’odore del pollo nel piatto. Potrebbe buttarsi sopra il tavolo e rubarglielo da sotto al naso. Immagina delle patate e dell’insalata affianco al piatto. La pancia brontola ancora, come se lo stomaco mordesse la sua stessa carne per nutrirsi. Il cervello pizzica ancora, ha fame da morire. Prussia guarda il suo riflesso del piatto. Non ha idea del perché sia voluto andare lì.
Si sfila i guanti, come se fosse la cosa più difficile del mondo. Prende il coltello e la forchetta. Taglia un pezzo di pollo e se lo ficca in bocca con voracità. Ha fame anche lui e vuole andarsene da lì. Si maledice per essersi trascinato qua dentro. Polonia deglutisce, come se quel bocconcino fosse finito in bocca a lui. Il collo si sporge, gli occhi s’inclinano supplichevoli. Guarda Prussia e spera che gliene dia un po’. Vorrebbe chiederglielo, ma questo comandante severo e splendente lo intimidisce. Ha paura di lui, come se non lo riconoscesse.
Prussia ingoia gli ultimi bocconi. L’odore buono di pollo nell’aria svanisce. Si passa la lingua sulle labbra, completamente sazio. Si rimette i guanti. Si alza dalla sedia. Senza neanche voltarsi, afferra la sopraveste nera. Scappa via verso la porta, coi passi che vorrebbero spezzare il legno sotto i suoi piedi. Finge di dimenticarsi il piatto. La porta viene sbattuta dietro le sue spalle. Prussia non ha guardato Polonia per tutto questo tempo.
Polonia tende l’orecchio, non sente più i passi degli stivali. Guarda il piatto lasciato sul tavolo. Posa di nuovo gli occhi sulla porta. I piedi gli ordinano di scagliarcisi addosso. Lo stomaco si rigira ancora dentro la pancia magra. Ha fame, troppa fame. Scatta in avanti, traballa sulle sue gambe ossute. Abbandona il nastro di Liet nel cumulo di stracci. Sbatte il ginocchio sul legno, si fa cadere sulla sedia dove si era seduto Prussia. Afferra l’osso del pollo e se lo butta in bocca. I denti gli sembrano spezzarsi sotto le gengive. Inghiotte i pochi pezzi di pollo rimasti incastrati nelle ossa, raschia le ossa coi denti e succhia il sapore della carne ormai perduto. Pulisce tutte le ossa. Le guarda: sembrano levigate e lustrate da un artigiano. Lo stomaco borbotta frustrato: ha ancora fame. Spezza gli ossicini disperatamente. Non può aver già finito di mangiare. Dev’esserci altro che può ancora ingerire.
Succhia dentro l’osso spezzato, comprendendo che non ci sia altro da mettere sotto i denti per quel giorno. E intanto lo stomaco gli ordina di succhiarsi le dita e di morderle, se necessario per nutrirlo.
 
 
 
 
 
“Che?! Siete totalmente fuori di testa!” urla la voce infantile di Polska, tanto forte e spaventata che persino nella torre est del castello l’hanno sentita. Tanto che qualcuno è addirittura sobbalzato “Voi dovete totalmente cancellare questo matrimonio! Gli stranieri mi fanno tipo paurissima!” continua a lagnarsi e ad agitarsi il biondino. Il cuore trasale ogni secondo ed agita le mani come morso dalla tarantola, pensa il soldato, deglutendo.
“E’ vero. Tutto questo fa un po’ paura” afferma con occhi docili e saggi la sovrana bambina, le mani al cuore e la corona che appena le sfiora i capelli “Che io sappia lui è un uomo anziano” abbassa la testa, con un qualcosa di malinconico “Spero che potremmo andare d’accordo” dice la piccina, forse già accettando quel che le avverrà e ciò che la corte ha già deciso sulla sua vita. Il soldato la conosce, conosce il suo dispiacere e lui stesso ne rimane dispiaciuto, anche se ne è solo l’ambasciatore. Intanto Polska non ha fatto altro che lamentarsi.
“S-Si dia un contegno, la prego” afferma con fatica, guardando addolorato la giovane Nazione. Conosce anche il suo dispiacere ed è ben più doloroso di quello che vuole far apparire. Polska non vuole perdere Jadwiga, non vuole che sia di nessun altro se non sua. Ha paura che possa andar via per sempre, la sua amata, per questo piange come un bambino. Sa anche che le sue lacrime non serviranno a nulla. E che tutto è ormai deciso da mesi.
“No! Mi sento tipo per morire! Davvero, non può essere vero!” singhiozza, con gli occhi già arrossati, scuotendo ora la testa, preso da chissà quale demone “Gli stranieri mi fanno paura! Non ci posso parlare! Non ci posso parlare…! Io…” e gli si spezza il cuore, comprendendo di non essere ascoltato e di essere trattato in qualsiasi modo come un bambino capriccioso. Le lacrime gli scendono ben oltre le guance. Non vuole perdere Jadwiga. Ha come uno scatto improvviso e si getta al collo della sovrana bambina. Poggia la testa al suo collo e sembra quasi che almeno parte di sé si sia calmato. Piange e piange ancora, inzuppando la tunica della sua amata. Jadwiga rimane paralizzata per un attimo, ma poi poggia la mano alla sua testa.
“Su, su…” sorride con dolcezza, comprendendo anche lei il demone che morde il cuore di Polska. Continua a carezzarlo. Polska continua piangere e solo ora smette di agitare il corpo, in parte quietato. Il soldato balza in avanti, con l’armatura tintinnante dietro di sé.
“Non faccia i capricci, la prego! Saranno qui a minuti!” dice, dimenticando in parte il motivo del pianto. L’ha detto con la paura di avere una punizione dalla corte. Una Nazione non può apparire in lacrime di fronte agli stranieri, gli hanno detto.
“Lituania e la sua compagnia sono appena arrivati” esclama un secondo soldato, a malapena notato dai tre. Sentito questo, Polska si stacca da Jadwiga, terrorizzato e vergognoso. Quel soldato non sa nulla di lui e del suo dolore. Non lo conosce e lo spaventa, ma meno di quel che ha appena sentito. Il soldato più anziano annuisce.
“Perfetto” dice, voltandosi verso la Nazione, con lo sguardo severo di chi vuol essere ubbidito “La prego di accoglierli convenientemente” la tarantola pare pizzicare ancora il povero Polska che trema manco fosse bruciato dalla febbre. Comprende di avere degli occhi orribili e di avere un’impressione altrettanto amara ed infantile. E comprende che nessuno potrà mai ascoltarlo e che nemmeno Jadwiga potrà mai essere ascoltata. Questo giorno doveva arrivare, ma non è pronto per ospitarlo dentro di sé. Sbarra gli occhi, corre via.
“La prego, non fugga!” urla terrorizzato il soldato anziano. Alza lo sguardo e sobbalza con forza. La Nazione ha raggiunto il trono del re e vi ci è seduta con la caviglia sul ginocchio e la mano poggiata al mento. Il soldato sussulta dentro di sé. Polska gli sembra un qualche sovrano, con gli occhi severi, un qualcosa di adulto e forse cattivo. Gli sembra un demone seduto al trono, con quegli occhiacci da gatto. Ne rimane incredulo e meravigliato. Un lampo bianco tocca gli occhi verdi. Polonia inizia a vivere nel suo corpo da fanciullo.
Le porte si spalancano e i soldati le tengono ferme con le braccia robuste. Il tappeto rosso viene per la prima volta sfiorato da stivali stranieri. I lituani hanno tuniche molto più pregiate di come ricordasse, con colori vivi e mantelli di pelliccia. Il Granduca non gli interessa, già gli si rigira lo stomaco nel pensare a lui. Lituania fanciullo ha lo sguardo basso di chi sta per essere sgridato da un adulto e trascina i piedi come se volesse scapparsene in fretta verso l’uscita di quel posto mai visto. È la prima volta che calpesta un tappeto straniero. Polonia lo guarda rapito, non lo ricordava così timido. Gli carezza il cuore vederlo così bambino. Il piccolo Lituania alza per poco gli occhi, per poi cacciarli di nuovo sulle sue mani. Ha sentito chiaramente il suo sobbalzo. Sa di avere uno sguardo crudele, sa di parere molto più adulto e severo, senza sorriso, con gli occhi truci di un demonio. Lo vede tremare, dentro la sua tunica scura. È dolce, anche quando ha paura. Lo trova adorabile, tutto d’un tratto.
“Ho sentito parlare di te” inizia, con la voce dura e inflessibile come pietra “Ti ringrazio per essere venuto fin qui” accenna ad un sorriso, che tanto desidererebbe di poter prolungare “Io sono Polonia… colui che comanda l’Europa dell’Est” gli si scalda il cuore vederlo sobbalzare. Ne gioisce dentro di sé. È così Liet: timido, adorabile e buono come il pane appena sfornato.
“S-Sì signore!” non ricordava la sua voce così stridula. Il piccolo Liet abbassa gli occhi, gli rialza e gli abbassa di nuovo “Io…! Io…! Uh...!” chiude gli occhi, prende un profondo respiro. Riapre gli occhi in un modo tanto infantile e deciso che Polonia, con un’anima più anziana, ne ride dentro di sé “Io sono Lituania!” esclama con forza “Siamo giunti fin qui per discutere riguardo al matrimonio tra il nostro Granduca e la vostra sovrana” Polonia continua a sorridere e a giocare in questo ricordo. Si toglie la mano dalla guancia e la poggia al mento. Guarda il piccolo Liet negli occhi, sentendosi più forte e importante.
“In effetti, sia i tuoi interessi che i miei… potranno essere soddisfatti grazie a questo matrimonio” il soldato sospira e tutta la sua paura striscia via come cacciata dal suo cuore. Quel che ha sperato si è avverato: Polska può gestire bene queste situazioni, quando arriva un momento critico.
“Ah…” sussurra una vocina da Polonia. Il soldato alza gli occhi, diventati perplessi. Anche Jadwiga fa lo stesso, perplessa e meravigliata anche lei. La sala cala nel silenzio “Ecco… Beh, insomma… Uh…” Polonia alza gli occhi. La sfumatura verde si fa meno lucifera e più fraterna. Il ginocchio fa scivolare la caviglia dalla tunica, le mani cadono sui manici del trono. Il sorriso del biondo pare quasi timido “Spero che diventeremo buoni amici, Lituania”.
Il moretto lo guarda stupito e meravigliato, così come tutta la sala. Lo guardano chi sgomentato, chi invece incredulo, come se un attore avesse recitato, di fronte alla sala gremita di gente, di fronte a tanti altri attori come lui, una frase del copione completamente sbalzata e inesatta.
Lituania lo guarda ancora rapito. Chiude le palpebre e calca il sorriso, più adulto di quello di Polonia.
 
 
 
 
 
Ha trovato nell’involucro degli stracci una cintura tagliuzzata, di un cuoio utilizzato eccessivamente. Se struscia troppo il pollice iniziano a staccarsi pezzetti scuri di chissà che pelle di animale. Polonia pensa che ormai ci farà la cuccia qua dentro. Usa la cintura e se la lega alla vita, insieme ai pantaloni troppo grandi. Perlomeno sono ben lunghi per lui, almeno lo scaldano un po’. Il nastro di Liet ha trovato posto nel suo polso: è riuscito a farci un nodo. Lo strattona con forza, nota che non si stacca. Il suo polso sembra uno scheletro senza carne. Vede le sue giunture, i rami fini dello scheletro della sua mano e gli ossicini delle sue nocche. Non avrebbe mai immaginato che fosse così imponente e robusta la nocca, in confronto al dito. È come un doppio nodo fra falange e falangetta. Deglutisce, lo stomaco non romba più nemmeno: non ha mangiato neanche oggi, neanche gli altri giorni, se ne siano passati altri. Schiocca con fatica la lingua secca. Ha sete.
Un suono irregolare si spinge oltre il muro. Polonia, dal garbuglio di stracci, sotto camicie e pantaloni strappati, si concentra ad ascoltarlo. Tum tum tum… Polonia ricorda quand’era seduto su una panchina. Ricorda di aver guardato una palla e dei bambini che la facevano rimbalzare soddisfatti. Stava per incominciare la partita della domenica o forse del mercoledì, non ricorda. Tum tum tum… E’ una palla, che rimbalza sulla sua testa, oltre la finestrella del suo buco. Polonia sporge il collo dal mucchio di stracci. La palla si avvicina e si avvicinano anche dei piedi.
Tum! Il rumore sordo non spaventa Polonia come l’ha spaventato il getto che è entrato nel buco. Quella cosa si è fiondata dentro il fascio grigio chiaro della finestrella, è rimbalzato sulla tavola, mirando e facendo cadere il piatto e le ossa di pollo, ed è caduto poi, infine, a terra. Polonia osserva di sottecchi quell’affare, ma capisce che non può fargli del male, che non può muoversi e, se si sia mosso, non è per colpa sua. Tranquillo, poggia i piedi nudi a terra e inizia a camminarci vicino. E’ da un po’ che non cammina, gli fanno male le ginocchia. Il pavimento è stranamente tiepido.
Scorge una delle sedie e l’istinto lo fa correre dietro per nascondersi. Guarda cos’è quella cosa e le spalle sospirano per il sollievo. È quello che sembra un pallone o almeno, per il biondino, quello è un pallone. Tende la mano, lo afferra con il pollice e l’indice, con una certa paura e un lieve disgusto. Il pallone si è bucato e ora pare più un cartoccio informe e bruno. Si chiede di cosa sia fatto questo affare.
La poca luce della finestrella si oscura, cala il buio. Polonia si accorge che questo buio sia mobile. Delle mani ossute quanto le sue, più corte e terrorizzate, si tendono e acchiappano aria attorno a loro. Polonia capisce subito. Sente i versetti dei bambini, incomprensibili. Le mani smettono di arraffare il vuoto e si ritirato, così velocemente da sbattere contro legno e altre mani. Devono aver paura, ma vogliono comunque la palla. Polonia guarda la finestrella e capisce che non ci potrà mai arrivare. Poggia il pallone sul tavolo, arruffa una sedia e la poggia contro al muro. Afferra di nuovo i resti della palla e si mette in punta di piedi sulla sedia. Sente schioccare le ossa dei piedi. Non sfiora nemmeno la luce. Una delle mani è uscita di scatto, tentando un altro balzo nel vuoto. Polonia tende il pallone sulla sua testa. La falange tocca il pallone. La mano viene ritirata con un urlo terrorizzato. Ritorna subito la luce nel buio. Polonia sobbalza, la palla gli cade dalle mani.
“No, aspettate!” urla, non vuole che scappino. Scende dalla sedia e guarda il tavolo. Lo sposta contro al muro, getta la sedia sul tavolo. Non ha nemmeno paura di cadere, vuole vedere quei bambini. Si mette in punta di piedi sulla sedia “Non scappate!” silenzio. La luce abbaglia gli occhi di Polonia. Lo investe il freddo pungente del fuori. Non ha visto la luce quasi per niente e gli bruciano gli occhi. Sbarra le palpebre, ritenta. La luce è ugualmente terribile. Si sforza di guardare attraverso la finestrella. Non capisce cosa vede, ma è grigio e informe. Gli bruciano ancora gli occhi. Poggia le mani sul legno e sopra del vero terreno spoglio. Sente freddo sul viso. Gli tremano le spalle e così trema anche la sedia sotto ai suoi piedi.
Un pigolio di vocine. I bambini sono tornati. Polonia ha gli occhi chiusi, ma li sente ad un palmo dal suo naso “Siete tornati!” i bambini osservano quella strana creatura dentro al buco. Chi rimane atterrito, chi rimane sollevato: è una persona. Hanno avuto paura che fosse un mostro. Polonia li sente parlare. Non capisce una parola in tutto quel pigolio. Quella lingua non la conosce. Socchiude gli occhiacci. Per alcuni bambini pare un vecchio gatto raggrinzito. I più grandi dicono quel che hanno pensato, i piccini ridono. D’istinto anche Polonia ride. Una delle figure più grandi e scheletriche sembra parlargli. Non capisce una parola “N-Non vi capisco… Scusate, ragazzi” i bambini rimangono in silenzio. Il pigolio dei piccini interrompe la riflessione dei grandi. Chiedono un’altra cosa a Polonia, lui sospira, un po’ agitato. Sono bambini, ma non li conosce “Non vi capisco, vi è tipo chiaro? Sapete il polacco? Il francese?” i piccolini cinguettano preoccupati. I più grandi scuotono la testa. Polonia deglutisce “N-Nemmeno il russo? Il tedesco?” le teste si scuotono. I piccini non capiscono e il pigolio continua.
Una mano nel gruppetto indica Polonia, che chiude le palpebre, non capendo. La mano insiste e così la voce che non comprende. Punzecchia il nero dietro le sue spalle. Ripete una parola che non comprende. Polonia capisce “Ah, la palla… Un attimo” scende dalle punte, dalla sedia e dal tavolo. Ritorna il caldo soffocante della sua fossa. Afferra i resti della palla che ha dimenticato e corre verso i bambini. I cinguettii si fanno alti e felici. Polonia si alza sulle punte e spinge fuori la palla. I pigolii dei piccini sono bassi. La palla è sgonfia e rotta. Polonia socchiude le palpebre per la luce ritornata, ma vede i resti passati da mani a mani. Immagina che siano delusi “M-Mi dispiace, ragazzi…” uno dei più grandi lascia a terra la palla. Non possono farci più nulla. Il loro scontento si carica dentro Polonia. Si fa scontento anche lui. Sente la pancia brontolare, i bambini continuano a discutere sul da farsi.
“Ragazzi, sentite, avreste tipo qualcosa da mangiare?” le facce sfumate lo guardano per un attimo. Non sembrano capire. Lo stomaco borbotta “Sì, cioè, del cibo…” pigolii incomprensibili. Polonia deglutisce, si fa più in alto sulle punte. Le sue braccia sporgono al sole e al freddo rinfrescante. Muove le falangi “Qualcosa…” afferra con entrambe le mani l’aria “…da mangiare” avvicina il cibo immaginario alle labbra, ne strappa un pezzo e finge di masticare. Borbotti incomprensibili. Sembrano affermativi. Lo stomaco esulta, hanno capito “Sì! Del cibo!”
De sibo?” mormora una vocina di bambina. Polonia ha voglia di ridere e piangere allo stesso tempo.
“Del cibo, totalmente esatto!”
De sibo, totabenme egiato!” afferma con fermezza la piccina, imitando gli stessi gesti di Polonia. Uno dei piccini scappa via. Polonia guarda meglio. La bambina ha la testolina rasata come la sua e una divisa carceraria più ingombrante di quella che ora indossa. Ma gioisce troppo il suo stomaco per guardare certi particolari. Le mani sono ancora fuori dalla finestrella. Le punte dei piedi gli fanno male, gli tremano le gambe. La pancia continua a mordicchiargli la carne nelle viscere. La fame non si è mai sentita con così tanta prepotenza. Saltellio e corsa su piedini in scarpette di legno. È arrivato “De sibo!
“Grazie, ragazzi!” ride e trattiene le lacrime Polonia. Gli tendono una lattina nera. Lo stomaco si zittisce, diventa perplesso. Polonia avvicina la latta al naso. Non sembra avere odore. La fame è troppo forte. Lecca quel che c’è dentro. È acqua. Polonia la ingoia in un sol boccone. Lo stomaco rimane dubbioso e frustrato. Ha un sapore strano. Il pigolio si mischia col cinguettio. Anche loro sono perplessi, non volevano vedere la lattina nera. Polonia la poggia, qualcuno la afferra e scompare dalla poca vista. Gli occhi sono rossi per la fatica, quasi non li vede più. Non hanno neanche loro da mangiare “Niente cibo…”
Ne de sibo…” dice la bambina dispiaciuta, fattasi traduttrice del gruppo. Polonia tira su il naso, deluso come lo erano i bambini quando hanno visto i resti della palla.
“Non fa niente, grazie lo stesso” dice, non credendo alle sue stesse parole.
Ha ancora fame, davvero tanta fame.
 
 
 
 
 
Il nastro di Liet al suo polso tocca la vena. Polonia immagina che la carezzi. Il silenzio della notte fuori dal buco lo abbraccia. Ricorda il galoppare dei cavalli nei boschi lontani. Ricorda di aver stretto Liet, con il vento che gli voleva strappare via il mantello. Ricorda i suoi capelli bruni legati nella coda con un nastro simile a questo. Non ricorda quand’è successo questa cosa. Non ha senso che lo ricordi. Ricorda il profumo mielato del pane e del burro nella sacca che si erano portati dietro. Deglutisce, non ascolta più lo stomaco.
Non ha contato i giorni passati. Non ha mai creduto di poterlo fare. Allunga ancora il dito. Carezza quel nastro come se fosse la vera mano di Liet, addormentato affianco a lui, nel grano giallo, sotto al sole d’estate. Non l’ha mai fatto, non lo ha mai carezzato, ma gli si para di fronte agli occhi l’immagine fanciullesca. Tutto quello che ha vissuto fino ad ora non esiste più. E non importa più a nessuno. Nel buio vede meglio di un sorcio. Sotto al nastro ci sono quei sei zero allineati con la precisione di un maestro. Li sfiora con fatica. La carne è insensibile e dura come cuoio. Non potrebbe più crescere nemmeno una seconda pelle per coprirli. Non sa che significhino, ma a volte bruciano e pesano molto più del suo braccio. Si sente morire di fame.
Abbandona i segni indecifrabili. Il nastro nero al suo polso lo scalda. Lo avvicina al naso una millesima volta. Profuma ancora di Liet e dei suoi boschi solitari. Ne ha nostalgia. La fitta fa tremare il cuore. Presto morirà di fame, se continuerà così. Si muove tra gli stracci. Gli si libera la testa e il braccio. Il calore è asfissiante. Non può scappare: dalla finestrella non passerebbe nemmeno un cane e la porta è sigillata. Quella è la sua tomba.
Guarda il muro senza vederlo. Si fa l’animo capriccioso. Scaglia il polso in una maniera che solo un debole può farlo. Si fa infantile di cuore. Il polso senza nastro e senza numeri struscia contro il muro. Si fa indifferente di mente. Continua a strusciare, non sente nemmeno dolore. Lo fa per capriccio o per noia o perché vorrebbe fare qualcosa. Perché non accade nulla da giorni. Struscia. Perché si sente male. Struscia ancora. Perché ricordare Liet gli fa male.
“Ti sei già totalmente deciso ad ammazzarti?”
Polonia riprende coscienza di sé. Il polso smette di farsi del male.
“Hey, Po, ora che non puoi più fare il totale bastardo con nessuno…” Polonia si volta nei suoi stracci. La mascella gli cade quando vede rosso porpora e capelli dorati, sfolgoranti come gemme, in quella sua fossa nera “…incominci a fare tipo il bastardo con te stesso?”
L’occhio verde e grigio di Polonia si scontra spaventato contro lo smeraldino vivo e crudelmente ridente del suo sosia poco più giovane, luminoso come un principino.
  
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