Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    23/04/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Il castello di Sigune stava bruciando davanti alle truppe forlivesi, che l'avevano appena espugnato e saccheggiato, prendendo tutto l'oro e tutte le ricchezze che il Conte Carlo di Sogliano vi aveva nascosto.

Gli uomini della Sforza avevano risparmiato quasi per intero i sudditi del suddetto Conte, uccidendone solo alcuni che si erano opposti all'invasione alla stregua di veri e propri soldati, ma per le sue proprietà non avevano avuto alcuna pietà, distruggendole o rubandole, a seconda dei casi, come la Tigre aveva ordinato loro.

Cicognani, i cui occhi pizzicavano per via del fumo che si alzava dalle strutture di legno che avevano sostenuto fino a poco prima gran parte della fortezza, appoggiò una mano guantata di ferro alla spalla di Achille Tiberti e si complimentò con lui per come fosse riuscito a prendere in un paio d'ore la città.

“Niente di che.” rispose l'altro, il cui viso ancora portava i segni dello scontro, sotto forma di schizzi di sangue ormai secco e di polvere: “Erano agguerriti, ma erano pochi e male armati. Quel fanfarone del Conte di Sogliano non si aspettava di essere attaccato. Non qui, per lo meno e non adesso.”

Cicognani sorrise: “Comunque sia, ci abbiamo guadagnato un bel po' di soldi. Non li ho ancora contati, ma a giudicare da tutti i sacchi che abbiamo riempito di monete, si tratta davvero di una somma più che discreta, ci si può giurare. Non dico che basteranno per finanziare l'intera guerra, ma poco ci manca.”

Tiberti annuì compiaciuto, ma, mentre voltava il capo per guardare il suo commilitone, gli occhi gli caddero qualche metro più indietro, attirati da delle grida: “Che state facendo?” fece subito, scostando Cicognani e dirigendosi verso la fonte del fracasso.

Alcuni dei soldati arrivati coi generali faentini stavano trascinando per i capelli delle donne, delle popolane, a giudicare da come erano vestite. Altri, poi, stavano uscendo dalle case, ormai coperte dal fumo che arrivava dal castello, e anche loro avevano preso prigioniere delle giovani, quasi tutte o in lacrime o urlanti.

“Avete dei problemi?” chiese Vincenzo Naldi, comparendo a lato di Tiberti, gli occhi distaccati che lo indagavano con un certo divertimento: “Da che mondo è mondo le belle giovani di una città presa a sacco fanno parte in modo legittimo del bottino che spetta ai soldati per ripagarli del loro sforzo. O mi sbaglio?”

“La nostra signora ci ha espressamente vietato di prendere delle donne come prigioniere.” ribatté Achille, indicando gli uomini di Naldi con l'indice accusatore: “State andando contro gli ordini della Contessa Sforza Riario, lo sapete?”

“Noi non siamo sotto al comando della Contessa Sforza.” fece notare Naldi, dando segno ai suoi di continuare con il loro particolare saccheggio.

“Siamo più numerosi di voi – lo minacciò a quel punto Tiberti, abbandonando una volta per tutte le maniere distese che aveva cercato di mantenere con i faentini in riguardo alle alleanza decise dalla sua signora – se non volete che scoppi uno scontro intestino tra noi e che i miei uomini vi spazzino via, ordinate ai vostri di lasciare in pace le donne di questa città. Se i soldati hanno bisogno di sfogarsi, potranno farlo con quelle che abbiamo al nostro seguito, come mi risulta abbiano già fatto al loro arrivo, senza bisogno di usare violenza a qualcuno che non c'entra niente.”

“Come siete morigerato...” sbuffò Naldi, che però aveva afferrato l'effettiva pericolosità che sottostava al discorso di Tiberti e aveva capito che alle parole sarebbero realmente seguiti i fatti, se non avesse collaborato.

Così, sbuffando, Vincenzo gridò un paio di ordini perentori ai faentini e questi, dopo qualche protesta e parecchie ingiurie e bestemmie, lasciarono andare le prigioniere, che si dileguarono veloci come lepri, imbucandosi nelle case e nelle viuzze secondarie in cerca di salvezza.

“E che altro c'è adesso...” sospirò Tiberti, quando vide un uomo a cavallo avvicinarsi a spron battuto, sollevando un gran polverone.

Per scorgerlo meglio, il comandante strizzò gli occhi nella polvere e nella cenere che si stava sollevando dal rogo del castello, ma non riuscì a distinguere molto del cavaliere che si avvicinava fino a che non fu davvero a pochi metri da lui.

Quando notò lo stemma degli Sforza Riario impresso sulla piastra pettorale del nuovo arrivato, Achille richiamò a sé anche Cicognani.

Il soldato a cavallo era una staffetta veloce che arrivava direttamente da Forlì con un ordine espresso della Contessa.

Mentre il castello che era stato del Conte Carlo di Sogliano si trasformava in brace ardente, Tiberti lesse il dispaccio e poi, con la solerzia degli uomini di comprovata lealtà, ordinò subito alle truppe di rimettersi in formazione e prepararsi alla partenza.

“Voglio una bella squadra di scorta per quello che abbiamo saccheggiato. Non mi perdonerei mai di perdere per straa tutto quell'oro.” precisò Achille, rivolgendosi a Cicognani: “E teniamo d'occhio Naldi e i suoi. Saranno anche nostri alleati, adesso, e avranno anche combattuto al nostro fianco fino a mezz'ora fa, ma non mi piacciono.”

 

Ottaviano Manfredi strinse la mano a Dionigi Naldi come se fosse stato un suo caro parente e non un mezzo sconosciuto.

“Quando tornerà vostro cugino Vincenzo?” chiese l'esiliato faentino all'uomo che l'aveva accolto nel mezzo del bosco.

Dionigi, che aveva dovuto fare le veci del parente nell'andare incontro a Ottaviano Manfredi, si rinfilò il guanto di pelle imbottito di pelo di coniglio e rispose, muovendo le dita che nella breve espozione al vento freddo si erano fatte gelate: “Non lo so di preciso. Direi presto, viste le pressioni che i meldolesi vogliono fare alla Sforza. Scommetto che quella donna ha già dato ordine di far rientrare tutti i suoi e se sarà così, anche io cugino tornerà a Faenza.”

Ottaviano Manfredi, un ventitreenne dalla mente agile e dal corpo prestante, si sistemò una ciocca di lunghi capelli biondi dietro l'orecchio e strinse gli occhi chiari contro il sole pallido e coperto dalle fronte degli alberi: “Vi ricordo – disse, cogliendo la mal celata nota di impazienza nella voce di Dionigi Naldi – che sono accorso qui solo perché vostro cugino mi ha chiamato. Non era mia intenzione tentare il colpo di Stato adesso che la Leonessa ha messo a soqquadro la Romagna, e soprattutto non dopo che Firenze mi ha negato il suo appoggio... Dunque se la mia presenza vi infastidisce, sappiate che non dovete incolpare me, ma vostro cugino, che mi ha messo con le spalle al muro, dicendomi che o la cosa si faceva adesso, o non la si faceva mai più.”

L'altro, che non si era aspettato di sentirsi parlare in modo tanto franco, men che meno da un uomo così giovane, ridacchiò nervosamente e riparò: “Ma che dite... Se vi sembro un po' nervoso è solo perché le cose si sono un tantino complicate, ecco. Castagnino mi sta col fiato sul collo. Non posso ospitarvi in casa mia, al momento, come invece avevamo progettato di fare all'inizio. Dovete avere pazienza. Raccoglieremo gli uomini della Val di Lamone, li solleveremo contro Astorre e, appena Vincenzo sarà tornato, attaccheremo.”

Ottaviano Manfredi si prese un momento per valutare le parole del suo alleato che, malgrado il cognome solido e un lignaggio invidiabile, gli pareva alquanto improvvisato e titubante.

Dicendosi che a quel punto sarebbe stato improbabile riuscire a trovare di meglio in poco tempo, si sistemò ancora una volta i capelli lisci che cadevano fino a metà schiena, che erano stati smossi dal vento, e concluse: “E sia. Sapete dove trovarmi. I miei sono già pronti. Quando sarà il momento, io sarò lì ad attendervi.”

Dionigi Naldi si profuse in un inchino ossequioso, come ricordandosi all'improvviso di aver davanti il suo possibile futuro padrone, e assunse un timbro un po' forzato nel dichiarare la propria cieca obbedienza: “Come comandate, mio signore.”

 

“No, non ci sono ancora notizie certe sui movimenti dei meldolesi. Se vogliono attaccare Faenza come crediamo – stava dicendo Caterina a Tiberti e Cicognani – questo silenzio significa che stanno perdendo molto tempo e un motivo plausibile potrebbe essere che stanno cercando armi o pezzi d'artiglieria.”

I due comandanti, che erano arrivati a Forlì da meno di un'ora, erano già stati convocati per ragionare sul da farsi, senza avere neppure il tempo di dare un veloce saluto ad amici e familiari, che si erano dovuti accontentare di saperli vivi e di vederli sfilare in testa al corteo rientrato in città in formazione vittoriosa.

Vincenzo Naldi e Nicolò Rondanini erano già rientrati a Faenza, per dar manforte alla loro città, proteggendola in prima linea da qualsiasi possibile attacco, mentre i forlivesi avevano prima fatto tappa dalla Contessa, in modo da potersi riorganizzare.

I soldati erano stati accolti dalla popolazione con una grande festa e la Tigre aveva permesso alle truppe di rompere le righe per qualche ora e ritornare dalle famiglie per festeggiare.

Parimenti, la donna dovette anche pensare a quelli che a casa non erano tornati e così fece indire una serie di messe in tutte le chiese della città, in modo che ogni caduto venisse ricordato e pianto a dovere e che ogni soldato rimasto di stanza lontano da casa potesse ricevere la protezione a distanza di questo o quel santo.

“Portate con voi dei uomini freschi.” continuò Caterina, che nei visi tirati dei suoi due comandanti vedeva la stanchezza di quei giorni febbrili: “Lasciate i veterani più stremati e i feriti qui in città e sostituiteli con qualche recluta. Il Capitano Mongardini saprà di certo indicarvi i soldati più abili e preparati.”

Dopo aver spiegato gli ultimi dettagli e i termini in cui avrebbero dovuto dare soccorso a Faenza, la Tigre si fece raccontare dai due, per filo e per segno, tutto quello che era successo durante la loro discesa di conquista.

Restò favorevolmente impressionata dalla logica con cui Tiberti aveva stanziato un buon numero di soldati e di luogotenenti nelle terre catturate e rimase ancor più soddisfatta nel venire a sapere delle ricchezze strappate alle terre saccheggiate, in particolare dei denari rubati al Conte Carlo di Sogliano.

“Ora andate a riposarvi per qualche ora. Ho fatto preparare due stanze per voi qui alla rocca.” disse, alzandosi dal suo scranno e accompagnando alla porta i due comandanti: “Nel pomeriggio, quando vi sarete ripresi un pochino, potrete riorganizzare l'esercito come vi ho detto prima, e poi, a sera, andrete immediatamente a Faenza. La strada è molto breve, non avrete problemi, e così avrete tutta la notte per disporre gli uomini.”

I due annuirono e ringraziarono Caterina per il permesso di restare a Ravaldino qualche ora per riprendersi.

“In fondo, Faenza se la può cavare senza il nostro aiuto, per mezza giornata...” ribatté la Contessa, con un certo buonumore.

Appena i due uomini si furono allontanati, la Tigre fece per tornare nella saletta, dove avrebbe consultato per l'ennesima volta la cartina dell'Italia, in modo da riprendere il filo dei suoi pensieri e ricalibrare la strategia di partenza alla luce dei nuovi fatti.

Tuttavia, mentre stava per eclissarsi nel lavoro, intravide in corridoio sua figlia Bianca, che la fissava.

La ragazzina, che aveva cominciato a vestirsi con abiti fin troppo sobri, in imitazione alla madre, teneva le mani strette in grembo e non sembrava intenzionata a dire nulla, anche se la sua espressione denotava una certa inquietudine.

Caterina, accantonando per un momento tutti i suoi proposti da statista, provò a riscattarsi come madre, pur sapendo che non sarebbe stato facile provarci, e chiese: “Stai bene?”

La ragazzina si tormentò uno dei polsini dell'abito chiaro e, dopo una breve esitazione, rispose: “Sì, grazie.”

“Hai bisogno di qualcosa?” tentò la Contessa, mettendo già una mano sulla maniglia, quasi sperando in un no.

Bianca, imbarazzata, parve ragionarci sopra un istante, lottando internamente contro se stessa, ma alla fine, con fare sconfitto, disse: “Volevo solo passare un po' di tempo con voi.”

Caterina trattenne un sospiro e chiese: “Ti va di aiutarmi a controllare le mappe?”

La figlia, colta di sorpresa dal tono pacifico della madre, fece segno di sì e la raggiunse.

La Contessa spiegò la cartina migliore che era in suo possesso sul tavolone centrale e poi prese i segnalini di legno e ferro e cominciò a piazzarli, elencando ad alta voce i nomi delle forze coinvolte in quella guerra.

La figlia osservava in silenzio e, man mano che la madre schierava le statuette che indicavano le loro truppe, si faceva un po' più vicina al tavolo, sporgendosi per leggere meglio il nome dei paesi e delle città.

“E quindi – concluse Caterina, quando ebbe finito di posizionare i segnalini – ho dovuto richiamare i miei generali affinché corressero in aiuto di Faenza.”

Bianca, che aveva udito anche la battuta fatta da sua madre coi due generali che aveva da poco congedato, deglutì un paio di volte, sentendo il calore che arrivava dal camino acceso come un fastidio e non come un sollievo: “Perché avete deciso di aiutare Faenza?”

Quella domanda forse era inevitabile, ma alla Contessa risultò comunque indigesta: “Perché Faenza ha aiutato noi.” rispose, sperando che ciò bastasse a tacitare le curiosità non del tutto immotivata della figlia.

Siccome Bianca rimase in silenzio, la Tigre provò ad andare oltre, cominciando a parlare della tattica usata per sfruttare a proprio favore la personalità istrionica e cuneiforme di Pandolfo Malatesta, ma era palese che la ragazzina non la stesse più ascoltando.

Mentre Caterina andava avanti a parlare di Rimini e del suo signore, la figlia la interruppe in modo abbastanza brusco: “Mi avevate detto che se non avessi voluto, non avrei dovuto sposare Astorre Manfredi.”

La Contessa non poté più far finta di non sapere cosa angustiasse Bianca e così appoggiò i palmi delle mani al tavolo, stropicciando un po' il lato della mappa, e disse, sperando di non suonare troppo categorica: “L'hai già sposato. Sei già sua moglie.”

La ragazzina prese fiato e controbatté: “Sapete bene che è stato solo firmato un contratto, che non sono davvero sua moglie...”

“A noi, al momento, interessa solo quel pezzo di carta.” la zittì Caterina, rendendosi conto di quanto fosse difficile parlarle di quelle cose in quel momento: “Dobbiamo far pesare il tuo legame con Astorre il più possibile e dobbiamo essere abbastanza bravi da convincerli che la loro fortuna dipende dalla nostra.”

“Io non lo voglio, Astorre Manfredi!” esclamò Bianca, con la stessa veemenza di un getto d'acqua messo sotto pressione: “Non potete impormelo! Non voi, che prima avete sposato un uomo solo perché lo trovavate di bell'aspetto e che ora avete un amante diverso a notte come una donna di strada! Non lo voglio Astorre Manfredi e voi non potete costringermi a...”

“Io posso, invece!” La Tigre, altrettanto tesa, aveva afferrato la figlia per un polso, usando per la prima volta la sua forza contro di lei. Tenendola ferma a quel modo, puntò le pupille in quelle della figlia e restò così qualche istante.

Non era sua intenzione né farle del male, né spaventarla davvero. Era stata una reazione innata, dovuta soprattutto alle accuse mosse dalla figlia.

Con sua grande soddisfazione, per quanto visibilmente atterrita, Bianca non cedette a dimostrazioni di paura o al pianto. Anzi, il suo viso assunse una fierezza che a Caterina ricordò in modo impressionante Bianca Maria Visconti, sua nonna.

Era triste pensarlo, ma anche alla sua Bianca sarebbe servito un carattere duro, per poter affrontare il mondo senza venirne distrutta.

Anche se era suo pungente desiderio liberarla il prima possibile dal giogo di un matrimonio capestro come quello, la Tigre preferiva stare cauta e non illuderla in alcun modo. Così, oltre a essere pronta al peggio, la ragazzina avrebbe anche imparato a combattere, perché non esistevano solo battaglie portate avanti a suon di spada e spingarda.

“Tutta questa storia è più grande di me e di te.” disse la Contessa, cercando di modulare la voce e anche la stretta attorno al polso della ragazzina, che riecheggiava forte e rapido il battito del suo cuore: “Per tua fortuna, Astorre è ancora un bambino. C'è tempo per mettere a posto le cose, prima che tua sia costretta a vivere come sua moglie, ma non possiamo fare nulla, adesso, per svincolarti dal matrimonio.”

Bianca ritrasse la mano con tanta forza e tanto all'improvviso che Caterina non poté fare altro che lasciare la presa.

Massaggiandosi il polso dolorante, la ragazzina abbassò lo sguardo e, lanciando un'occhiata di puro odio alla mappa d'Italia, chiese formalmente congedo alla madre e lasciò la stanza.

 

Niccolò Castagnino, già molto indisposto dall'apparente sparizione di Vincenzo Naldi, che, per quanto tornato in città da poche ore, già non si trovava più da nessuna parte, strappò di mano ad Astorre Manfredi la lettera appena giunta da Brisighella.

Il bambino provò a dire qualcosa per ribellarsi a quella prevaricazione, ma il suo tutore lo liquidò con un cenno annoiato del capo: “Andate a studiare coi vostri precettori.” gli ordinò e al contempo chiamò con una mano i due preti che si occupavano degli studi teologici del signore di Faenza.

Mentre Astorre veniva portato via quasi di peso dai due acculturati vestiti di nero, Castagnino aprì il messaggio con tanta furia che per poco non lo strappò in due.

Si trattava, come la staffetta aveva annunciato, di una missiva scritta da Ottaviano Manfredi in persona.

'Amatissimo cugino, Astorre carissimo e adorato – aveva scritto l'esiliato, forse sperando di far breccia nella mente malleabile di un ragazzino non ancora undicenne – troppi anni ho passato lontano dalla mia terra, esule in Pisa, che Dio me ne scampi, con alterne vicende, strapazzato dagli eventi e dalle maldicenze, e per oltre un lustro, e senza poter veder più la città che mi era stata di natale.'

Seguivano una serie di accorate e sicuramente fasulle lodi per come Astorre stava gestendo il governo malgrado la giovane età e la prematura perdita del padre. Poi c'era un pensiero rivolto a Francesca Bentivoglio, madre del signore di Faenza, senza alcun accenno al fatto che Galeotto fosse caduto proprio per mano sua, e solo una mezza parola di benestare nei confronti delle fatiche di Niccolò, tutore di Astorre in anni così complessi.

Castagnino lesse con molto più interesse la parte finale della lettera.

Avvicinandosi al camino, unica fonte di calore in quel grande e inutile salone di rappresentanza, l'uomo aguzzò la vista e mangiò con avidità le parole scritte dalla mano giovane e insolente di Ottaviano Manfredi.

'Vi chiedo dunque di poter essere riammesso alla corte vostra, come vostro servo umile e fedele, come vostro leale parente e imperituro amico. Revocate subito il mio ordine d'esilio e lasciate che io sia per voi uno scudo e una spada oltre che un confidente e una famiglia. Giurandovi eterna fedeltà, attendo il vostro responso con fiducia.'

Castagnino rilesse tre volte quelle righe e alla fine non trovò di meglio da fare che stracciare il messaggio e gettarlo nel fuoco.

Guardò i riccioli di carta tormentati dalle fiamme e poi ridotti in polvere nera e, quando anche l'ultimo sbaffo d'inchiostro fu trasformato in fumo, batté le mani e chiamò a sé uno dei servi del palazzo.

“Fate subito venire qui lo scribacchino! Ho una missiva urgentissima per la signora di Forlì da far scrivere!” ringhiò.

 

“Dannazione...” soffiò Caterina, non appena lesse ciò che Niccolò Castagnino le aveva scritto.

“Cosa succede?” chiese Cesare Feo, sollevando lo sguardo dai libri contabili.

Quel pomeriggio, ancora molto scossa per lo scatto sconsiderato che aveva avuto con sua figlia, la Contessa si era ritirata nello studiolo del castellano in cerca di tranquillità.

Non aveva voluto sovraintendere ai lavori di Tiberti al quartiere militare, malgrado la sua insistenza, né aveva voluto assecondare le richieste di Galeazzo, che l'aveva pregata di insegnargli l'uso del pugnale in cui aveva sentito dire che la madre fosse molto brava.

Si era anche ritratta all'ipotesi avanzata da Luffo Numai, che le aveva ricordato come fosse necessario cominciare a pensare agli ambasciatori esteri, vagliando una per una le richieste di soggiorno in Forlì che stavano arrivando una dopo l'altra da qualche giorno.

Avrebbe fatto bene a dire di sì a tutti e dividersi tra i vari impegni che richiedevano la sua attenzione, e invece aveva detto di no a tutti quanti e si era presa qualche ora per riprendersi da quell'ulteriore smacco che il suo carattere ferino le aveva rifilato.

Si sorprese nello scoprire come le bastasse starsene nella poltrona che era stata di suo marito e guardare il castellano leggere e annotare cifre e nomi come fosse il contabile di qualche banca per acquietare un po' il suo spirito.

Tuttavia, quando alla porta bussò una delle guardie, cercando proprio lei, la Contessa non poté esimersi dal presentarsi davanti al soldato e prendere dalle sue mani il messaggio.

“Niccolò Castagnino dice di essere sicuro che Ottaviano Manfredi stia per entrare in Faenza con la forza, per strappare la città a suo cugino Astorre.” spiegò la Tigre, porgendo la lettera anche a Cesare Feo affinché la leggesse in prima persona: “Dice che solleverà i valligiani e che da lì avanzerà sulla città.”

“Non adduce prove, però.” fece notare l'uomo, una volta finito di interpretare la scrittura monotona e stilizzata che doveva essere frutto di una dettatura a uno scrivano.

“Non importa, quell'intrigante non si è mai sbagliato su questo genere di cose.” fece la Contessa, abbattuta: “Ci sguazza, lui, nei tradimenti e negli agguati.”

“Dice anche che Faenza può già contare su alcuni soldati di Bologna e di Venezia...” provò a dire il Feo, che subodorava una nuova ingente spesa militare: “Un nostro aiuto potrebbe essere superfluo...”

In altri momenti la Contessa se ne sarebbe lavata volentieri le mani, adducendo qualche scusa, magari dicendo che non aveva abbastanza uomini da inviare, ma, come lei stessa aveva ricordato a Bianca, era fondamentale tenere saldi i legami con Faenza.

Tuttavia, affrontare un esercito di entità sconosciuta, e probabilmente forte dell'appoggio della popolazione, sarebbe stato ben diverso che scontrarsi di nuovo coi meldolesi.

“Devo andare da Tiberti. Deve partire subito.” fece la Tigre, afferrando il mantello pesante dal bracciolo della poltrona e infilandolo: “La vittoria deve essere nostra. Aiuteremo Faenza, ma Castagnino poi dovrà essere nella posizione di debitore nei nostri confronti. Castagnino sta cercando di vendersi a Venezia, ma dobbiamo essere più veloci della Serenissima e comprare lo Stato dei Manfredi prima che lo faccia il Doge.”

Il castellano guardò la donna uscire di corsa dallo studiolo e se la figurò mentre attraversava di volata il ponte levatoio e camminava a passo di marcia verso il quartiere militare, sfidando il freddo pungente di dicembre avvolta nel suo mantello imbottito di pellicce strappate ad animali che aveva ucciso lei stessa.

Forse, si disse Cesare, era lui a essere troppo ottuso e di mentalità troppo ristretta per capire. Fatto restava che non riusciva a comprendere quale fosse lo scopo finale della sua signora.

Voleva davvero mettersi contro Venezia, solo per potersi accaparrare una roba da niente come Faenza?

Oppure... Il castellano si accigliò, mentre per una frazione di secondo la sua mente veniva attraversata da un'altra prospettiva.

Era possibile che la Contessa ci tenesse tanto a soggiogare Faenza unicamente per poi poter disporre tanto di Astorre Manfredi quanto di Castagnino come preferiva?

Per poterli pilotare tanto liberamente da indurli infine a sciogliere il matrimonio tra sua figlia Bianca e il signore di Faenza?

Scuotendo il capo con decisione, il castellano Feo allontanò quel pensiero balzano da sé e tornò, da buon Governatore a interim, a concentrarsi sui conti appena arrivati da Fortunago.

 

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas