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Autore: Emmastory    23/04/2017    3 recensioni
Dieci anni. Questo l'esatto lasso di tempo trascorso dall'ultima battaglia contro i famigerati Ladri, esseri ignobili che paiono aver preso di mira la bella e umile Aveiron, città ormai divenuta l'ombra di sè stessa poichè messa in ginocchio da fame, miseria, dolore e distruzione. Per pura fortuna, Rain e il suo gruppo hanno trovato rifugio nella vicina Ascantha, riuscendo a riprendere a vivere una vita nuova e regolare, anche se, secondo alcune indecisioni del suo intero gruppo, tutto ciò non durerà per sempre. Come tutti ben sanno, la guerra continua, e ora non ci sono che vittime e complici. (Seguito di: "Le cronache di Aveiron: La guerra continua)
Genere: Avventura, Azione, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Le cronache di Aveiron'
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Le-cronache-di-Aveiron-VI-mod
 
Capitolo IX

Errare è umano

Un altro giorno. Soleggiato e tranquillo, iniziava lentamente, e per la prima volta dopo tanto tempo, Chance era lì per svegliarci entrambi. Notandolo poco prima di me, Stefan gli carezzò frettolosamente la testa, e alzandosi dal letto, si sistemò i capelli. Ancora stanco nonostante la lunga dormita, sbadigliò leggermente, e appena un attimo dopo, Chance ci colse entrambi di sorpresa. Io ero seduta sul letto, ormai libera dalla prigionia delle coperte, e lui mugolava. Guardava alternativamente me e Stefan, e sembrava agitato. Posando il mio sguardo su di lui, mi chiesi cosa gli stesse accadendo, e alzandomi in piedi, lo scoprii determinato a farsi seguire. A tale scopo, seguiva ogni nostro movimento nella stanza, e non appena arrivai alla porta, ricominciò a uggiolare. Preoccupata, lo guardai di nuovo, notando nei suoi occhi il vero terrore. Ricordavo benissimo quello sguardo, mascherato dal coraggio nel giorno di quella sanguinosa battaglia. In quel nefasto giorno, il suo unico scopo era trovarmi e proteggere le bambine, e ce l’aveva fatta, ma ora sembrava provare le stesse emozioni. Provando istintivamente pena per lui, mi abbassai al suo livello, e in quel preciso istante, mi afferrò la manica del vestito. Di lì a poco, iniziò a ringhiare e tirare, portandomi di peso in giardino. Una volta fatto, mi lasciò andare, e posando gli occhi su Rose, corse subito verso di lei. Con ogni passo, uggiolava spaventato, e appena raggiunta mia figlia, si sedette, guardandola. Incuriosita, li raggiunsi a mia volta, notando solo allora gli occhi di Rose pieni di lacrime. “Ho sbagliato, ho solo sbagliato, non volevo, è stato un errore!” diceva piangendo e guardandosi intorno alla semplice ricerca di conforto. “Rose, amore, calma. Che è successo?” le chiesi, avvicinandomi e guardandola negli occhi. “Isaac… Isaac è ferito, ed è tutta colpa mia!” rispose, non riuscendo a smettere di piangere e abbassando lo sguardo in segno di vergogna. “Cosa? Dov’è adesso?” mi informai, attendendo in silenzio una sua qualsiasi risposta. “Vieni con me.” Fu la sua risposta, che mi diede prendendomi per mano e portandomi subito dal suo amico. Lo trovai appoggiato alla quercia del giardino, teso, dolorante e affaticato. Non riusciva a tenersi in piedi, e tutto per colpa di una ferita alla gamba. Confusa, lo guardai, ma prima che potessi fare domande, mia figlia intervenne. “Sono stata io, io e le mie stupide frecce.” Disse, singhiozzando e guardando l’amico con occhi lucidi. “Ci stavamo allenando, volevo colpire l’albero, ma ho sbagliato, e… e poi…” continuò, tremando e provando a giustificarsi. Soffrendo in silenzio, non feci che guardarla, e abbracciandola, l’accarezzai come fosse stata una cucciola. “Tranquilla, tesoro, so che non volevi. È stato un errore, l’hai detto tu stessa.” Risposi, tentando in ogni modo di rassicurarla. Pur ascoltandomi, non riusciva davvero a calmarsi, e in quell’istante, Chance si avvicinò ad Isaac, leccandogli la ferita. La freccia incriminata giaceva in terra, e la neve era macchiata di sangue. Non molto, per fortuna, ma pur sempre sangue. Allarmata, tornai in casa, e raggiunto il bagno, incrociai Samira. Sapeva bene che suo figlio si era ferito, e dall’espressione dipinta sul suo volto, capii che era preoccupata almeno tanto quanto me. Parlandole, la rassicurai, e mostrandole delle bende, sorrisi. “L’aiuto io.” Le dissi, tornando fuori e inginocchiandomi al fianco di Isaac. Preoccupatissima, Samira mi seguì, e non appena gli medicai la ferita, anche Soren uscì di casa, e prendendo Isaac in braccio, lo adagiò sul divano. Ferma e inerme di fronte a quella scena, Rose piangeva in silenzio, credendo fermamente che io fossi arrabbiata con lei. Aveva dodici anni, e non importava quante volte le dicessi di non essere in collera, lei non ci credeva. Si incolpava per ciò che era successo, e guardando Isaac negli occhi, singhiozzava le sue scuse. “Mi dispiace.” Ripeteva, sperando nel suo perdono. “Rose, no. Non scusarti. Sto bene, non vedi?” le rispose lui, mettendosi a sedere sul divano e provando poi ad alzarsi. Una volta in piedi, tentò di muovere qualche incerto passo in avanti, e perdendo l’equilibrio, cadde fra le sue braccia. In quel momento, i loro sguardi si incrociarono, e sorridendosi reciprocamente, pronunciarono, parlando all’unisono come gemelli, una singola frase. “Ti voglio bene.” Si dissero, stringendosi in un delicato abbraccio soltanto un attimo dopo. Noi adulti eravamo tutti lì, e guardando Samira, la sorpresi ad asciugarsi una lacrima. Notandola, mi avvicinai lentamente, e cingendole un braccio intorno alle spalle, le regalai un sorriso. Subito dopo, guardai fuori dalla finestra, e notando l’avvicinarsi del tetro imbrunire, non dissi nulla. Sedendomi accanto ad Isaac, mi assicurai che stesse bene, e con l’arrivo della sera, aggiornai il mio diario appena prima di dormire. Vi scrissi molto, includendo anche quanto era successo oggi. Un nuovo spaccato di vita, che aveva ricordato ad ognuno di noi, ma soprattutto a mia figlia Rose, che nonostante le buone intenzioni e la buona volontà, tutti possono sbagliare. Poco prima di andare a letto, passai dalla sua stanza. Entrandovi, vidi che dormiva, e avvicinandomi, sussurrai il suo nome. Non so davvero come, ma riuscì a sentirmi, e mugolando qualcosa in risposta, mi guardò stropicciandosi gli occhi. “Sì?” chiese, ancora girata di spalle e con il viso affondato nel cuscino. Muovendo qualche passo in avanti, raggiunsi il suo letto, e sedendomi, presi a parlarle. “Sei stata coraggiosa sai?” le feci notare, cercando la sua mano sotto le coperte e stringendola forte. “Non è vero. Ho fatto male ad Isaac, e lo sapete tutti.” Rispose in tono secco, voltandosi e dandomi ancora le spalle. “Rose…” la chiamai, sperando che il suo ora ferito orgoglio di ragazzina non fosse d’ostacolo alla nostra comunicazione. Mantenendo il silenzio, lei non si voltò, e sospirando, mi trovai costretta a deporre le armi. Rimettendomi in piedi, lasciai la sua stanza, e una volta tornata in corridoio, mi imbattei in Stefan. “Non vuole saperne.” Dissi soltanto, con voce bassa e mesta. “Dai, non preoccuparti, le passerà.” Mi rispose, rassicurandomi e accompagnandomi nella nostra stanza. Provando a dargli ragione, mi infilai sotto le coperte, e continuando a pensare alla mia povera Rose e ai suoi delicati sentimenti di ragazza ora feriti, trascorsi gran parte della notte sveglia a pensare e parlarne con Stefan, che, calmo come sempre, non fece una piega. Intanto, le ore notturne passavano, ed io non riuscivo a crederci. Sembrava passato solo un giorno dalla sua nascita, e soltanto guardandola, mi accorgevo che non era così. Da fragile e indifeso seme qual era, aveva continuato a crescere e cambiare, diventando un vero e proprio fiore. Una rosa, come suo padre aveva detto guardandola negli occhi per la prima volta. Come ben ricordavo, era stato proprio lui a scegliere il suo nome, nome che ora capivo le calzasse a pennello. Proprio come sua sorella Terra, lei somigliava fisicamente a me, ma avendo ereditato il carattere di entrambi, ad un primo impatto appariva incline al dolore e alla paura, ma come oggi avevo avuto modo di notare, aveva in sé anche la vena d’orgoglio e giustizia del padre. Una vena ancora non matura, che ora come ora, le impediva di comprendere una lezione molto importante, composta da tre semplici parole, che io avevo imparato e sperimentato sulla mia stessa e candida pelle. Errare è umano.
   
 
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