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Autore: PenelopeCortesi    23/04/2017    2 recensioni
Respira. Cammina. Cercavo di dirmi. Mi ritrovai a pregare me stessa di eseguire i miei stessi ordini, a urlare disperata perché questo accadesse. Poi una lacrima scese sul mio viso. Piccola, innocente, involontaria. Non potevo piangere. Non potevo assolutamente farlo, sapevo che, se fosse successo, non sarei più riuscita a fermarmi.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Regina Mills
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminavo. Camminavo da non so quanto ma continuavo a camminare. Avevo un vago ricordo del posto dal quale ero partita, ma ormai non avevo idea di dove fossi, o di dove mi stessi dirigendo. L’importante, in quel momento, era continuare a camminare. Per liberare la mente, respirare, non pensare a quello che mi stava disintegrando l’anima. Il vento in quel momento era una benedizione, avevo bisogno di aria fresca più che mai, perché in quel momento, respirare, non mi sembrava più così scontato. No, era faticoso, difficile, così mi imponevo di respirare profondamente, assimilare più aria possibile, per poi liberarla, lentamente.
Sentivo dei rumori, intorno a me. Fruscii lievi, cinguettii, forse il motore di qualche auto in lontananza. Sentivo bene però, i miei passi sull’asfalto. Ero sola. Terribilmente sola. Li o dovunque. Dentro e fuori. Nemmeno riuscivo a capacitarmi di quella situazione. Era come se una parte di me rifiutasse di accettare quello che era successo, era come se, se lo avesse fatto, avrei sofferto troppo, più di quanto avrei potuto sopportare. Forse ero al limite, pensavo, forse era per questo che avevo la mente così annebbiata, così confusa, incapace di assimilare completamente quello che stava succedendo.
Respira. Mi dicevo. Cammina. Era un mantra. Un mantra indispensabile, perché se avessi smesso di ripetermelo sarei crollata, ne ero certa. Crollare. Non sembrava più un’ipotesi così terribile. Crollare, lasciarsi andare, fare uscire tutto quello che tenevo dentro. Avrei potuto sopportarlo? Sarei potuta andare avanti poi? Non ne ero certa. Così continuai a camminare, ininterrottamente.
Ma ad un certo punto mi fermai. All’improvviso, senza una ragione. Semplicemente le mie gambe decisero di non andare più avanti, ed io mi ritrovai ad alzare lo sguardo e a vedere ciò che era intorno a me. La strada, grigia, il cielo, dello stesso colore e, alla mia sinistra, un bosco che sembrava aver perso il suo verde. In quel momento vedevo solo un ammasso di alberi senza colore, senza utilità. Mi resi conto di iniziare a faticare a respirare. Interrottosi il mio mantra, la concentrazione e la temporanea stabilità svanirono. Cercai di tornare allo stato precedente, di camminare, di respirare, ma era inutile: le gambe non ne volevano sapere di muoversi, e respirare diventava sempre più difficile.
Respira. Cammina. Cercavo di dirmi. Mi ritrovai a pregare me stessa di eseguire i miei stessi ordini, a urlare disperata perché questo accadesse. Poi una lacrima scese sul mio viso. Piccola, innocente, involontaria. Non potevo piangere. Non potevo assolutamente farlo, sapevo che, se fosse successo, non sarei più riuscita a fermarmi. Chiusi gli occhi, più determinata che mai a riprendere il controllo della situazione. Rimasi li, immobile sul ciglio della strada per non so quanto tempo, finché, finalmente, le mie gambe ripresero a muoversi, e il mio respiro ad essere regolare. Per quanto sarei andata avanti? Quando avrei deciso di tornare indietro? Quella domanda mi provocò una straziante fitta al petto, e dalle mie labbra uscì un lamento. Come potevo tornare in quel posto? Quel posto che mi aveva provocato più dolore di quanto ne potessi effettivamente sopportare? Come potevo guardare in faccia ogni persona a me conosciuta, senza cercare involontariamente con lo sguardo quello dell’unica persona di cui in quel momento mi importava? Sarei esplosa, davanti a tutti. Già vedevo gli sguardi compassionevoli dei miei familiari, che cercavano di farmi coraggio.
Ma la compassione era quello di cui meno avevo bisogno in quel momento. Non volevo qualcuno che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene perché, dannazione, niente sarebbe andato bene. Mio figlio aveva perso sua madre, i miei genitori un’amica, la gente un’eroina, e io, io avevo perso l’amore della mia vita. Il  mio corpo iniziò a tremare a quel pensiero, e un minuscolo e amaro sorriso comparve sulle mie labbra.
L’amore della mia vita. Si, lei era questo, era questo e molto altro. Un’altra piccola lacrima scese sulla mia guancia, gli occhi mi bruciavano, ma facevo di tutto per resistere alla terribile tentazione di piangere. Piangere sarebbe stata la mia rovina, il mio corpo si sarebbe rifiutato di andare avanti e sarebbe crollato sull’asfalto, e non credo che a quel punto avrei mai avuto la forza di rialzarmi.
Era tutto così dannatamente ingiusto. Era ingiusto che una nuova vita fosse stata negata ad una persona che aveva fatto di tutto per avere una seconda possibilità, per ricominciare. Era ingiusto che un ragazzino avesse perso sua madre, colei che l’aveva cresciuto, che avrebbe dato la sua vita per lui. Ed era ingiusto anche che la mia di felicità fosse stata negata. Quel pensiero egoistico mi provocò un’ennesima fitta allo stomaco, ma non m’importava, in quel momento non mi importava proprio di niente. Non m’importava di risultare una persona debole, oppure una persona senza cuore, una persona egoista. Perché si, me l’ero proprio meritato quel dannato Lieto Fine. Dal momento in cui avevo messo piede in quella cittadina chiamata Storybrooke mi ero meritata di essere felice. E poi erano successe talmente tante di quelle cose, avevamo affrontato talmente tante sfide, avevamo combattuto talmente tanti cattivi e, finalmente, avevo trovato la mia felicità.
L’avevo trovata in quegli occhi castani, in quelle labbra rosse, in quel sorriso meraviglioso. L’avevo trovata nel modo in cui pronunciava il mio nome, nel suo modo di camminare, nella sua eleganza. L’avevo trovata nella sua voce, nelle sue maniere, nel suo sarcasmo. L’avevo trovata in tutto quello che lei era, dalla sua arroganza alla sua dolcezza. L’avevo trovata in Regina. Ma era tutto finito. Finito per sempre. Era stato come uno di quei sogni talmente belli da non volersi più svegliare ma che, prima o poi, avremmo dovuto abbandonare. Ed era stato così: non avrei più visto il suo sorriso, non l’avrei più sentita ridere o rimproverarmi, non avrei più assaporato le sue labbra. La mia famiglia non era più completa, mancava il pezzo più importante, quello che ci univa tutti. Ma la mia famiglia era ancora li, pronta a sostenermi, ad aiutarmi a rialzarmi se fossi caduta. C’era Henry, il mio ragazzino coraggioso, che più che mai aveva bisogno di me. E c’erano i miei genitori, che avevano sempre trovato il buono nelle persone, che mi erano sempre stati accanto.
Nonostante il dolore, nonostante sentissi il mio cuore lacerarsi, la mia anima distruggersi, avevo ancora delle persone che mi amavano, e che io amavo. Persone che avevano bisogno di me, come io avevo bisogno di loro. Così mi fermai. Improvvisamente come la volta prima, ma questa volta era perché lo volevo io. Mi girai, pregando in silenzio di riuscire a restare in piedi e, con immenso sforzo, tornai, il cuore in gola e le gambe che tremavano, a Storybrooke.
 



Salve a tutti! Beh, questa è la mia primissima storia, spero l'abbiate apprezzata. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi è piaciuta o meno e perché. A presto!
 
   
 
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