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Autore: somewhere over the rainbow    26/04/2017    1 recensioni
Sloane Ainsworth sa quanto può essere pericolosa l’incapacità di provare emozioni. È per questo che ha fatto della sua vita un’elaborata recita, per sopravvivere. Per sopportare la perenne compagnia del nulla.
Enoch Rhys Easton sa che le parole hanno il potere di distruggere una vita, ai suoi occhi sono veleno ed è convinto che le persone preferiscono ferire invece di confortare. Uccidere piuttosto che salvare.
Barricati dietro alte mura fatte di solitudine nessuno dei due si aspetta niente dalla vita. Ma si sa, il destino non risparmia nessuno e ogni cosa cambia quando i mondi di Sloane e Enoch entrano in collisione. Perché cosa succede quando l’oblio incontra il caos?
«Sei il sogno che non ho mai osato sognare.»
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Prologo






 

Settembre, 2016.






 

Guardo il sorriso trionfante del mio avvocato con espressione assorta e mi chiedo con quale coraggio riesca a guardarsi ogni mattina allo specchio.
Perché davvero, sono sinceramente curiosa di saperlo.
Mi torturo le mani, consapevole che questa è una di quelle volte in cui dovrei ricordarmi di collegare la lingua al cervello, prima di dire qualcosa di inopportuno, quando mi rendo conto che la sua attenzione è di nuovo concentrata su di me, e potrei anche sbagliarmi, ma sono pronta a giurare di scorgere nei suoi occhi un velo di malcelata severità.
Distolgo lo sguardo, concentrandomi sulle poche persone che ancora occupano l'aula di tribunale.
Due donne, nei loro eleganti tailleur, sono coinvolte in una fitta conversazione e un uomo, che sosta vicino all’uscita, urla qualcosa di incomprensibile al telefono.
E va bene, capisco il disappunto del mio rappresentante legale. Sul serio. E ammetto che forse, e dico forse, avrei dovuto ricambiare il suo entusiasmo. Dopotutto non tutti gli avvocati hanno la capacità di salvare il proprio cliente da una condanna a tre anni per violazione di proprietà privata e vandalismo quando il suddetto cliente è apparentemente colpevole.
Apparentemente.
Ecco la parola magica che ha salvato il mio regale culo da Ainsworth.
Roger Petterson sarà pure un bastardo senza scrupoli, ma bisogna riconoscere che è un bastardo senza scrupoli che sa fare il suo lavoro.
Niente da dire. Ma per la mia riconoscenza dovrà aspettare.
Ripenso al momento esatto nel quale il giudice ha pronunciato il verdetto e lo stesso senso di disagio provato prima torna a farsi sentire prepotente.
Le parole: «Dichiaro l'imputata non colpevole» galleggiano ancora nell'aria e sento di nuovo l'irrefrenabile impulso di contestare il risultato del processo e di proclamarmi colpevole.
Una parte di me sa che merito di marcire in un’angusta cella, e per tutto il tempo che lo Stato di New York lo riterrà necessario, ma l'aula si è svuotata e non c'è più nessuno che sia disposto ad ascoltarmi.
Non che durante il processo siano stati ben disposti ad ascoltarmi, comunque.
Lascio perdere questi pensieri e ritorno alla realtà quando sento la presenza di Petterson al mio fianco, mentre mi scorta verso l'uscita del tribunale.
Voci concitate, domande indiscrete e flash accecanti mi circondano in pochi secondi. Rifiutandomi di alzare lo sguardo, nascosto dietro immensi occhiali da sole continuo a camminare, impassibile, e tiro un sospiro di sollievo solo quando sono al sicuro dentro una macchina con i vetri oscurati. Uno dei tanti autisti al servizio di mio padre prende posto sul sedile del guidatore e con rapida efficienza si immette nel traffico cittadino, lasciandosi il New York County Courthouse alle spalle.
Mi libero degli occhiali da sole, ormai inutili, e lancio un’ultima occhiata alle persone radunate fuori dal tribunale.
A differenza di quello che pensano tutti, e con tutti intendo la mia famiglia, i miei amici e il mio avvocato, la mia disavventura con la legge non è stato un pretesto per attirare l'attenzione.
Secondo loro era davvero questo che volevo? Diventare il bersaglio della stampa e dei media per poi essere massacrata dall’opinione pubblicata?
Certo che no.
Avevo come obiettivo uno scopo ben preciso, anche se mi costa ammetterlo, ma non potevo prevedere una simile conclusione. Anche se dovevo aspettarmi che l'essere ripresa mentre entravo illegalmente in una casa non mia e la distruggevo da cima a fondo non era qualcosa che di certo poteva passare inosservato.
Le vie di Manhattan scorrono veloci sotto i miei occhi e la voce baritonale di Petterson mi provoca una dolorosa fitta alla testa.
Seduto alla mia sinistra, telefono in mano, sta parlando con mio padre.
Lo sta rassicurando, garantendogli che la sua preziosa, nonché unica, figlia non è stata sbattuta dietro le sbarre.
Evviva.
Cerco di scacciare il ricordo ma la sua presenza ingombrante, sull’altro lato del sedile, mi riporta alla memoria il giorno in cui l’ho incontrato.
Con il suo costoso completo è entrato, a passo di marcia, nella stanza degli interrogatori dove ero trattenuta. Prima ancora di prendere posto sulla sedia posizionata al mio fianco ha sbattuto fuori dalla stanza l'agente di guardia e con atteggiamento risoluto ha detto: «Non mi interessa se sei colpevole o innocente. Mettiamo in chiaro una cosa. Davanti al giudice ti dichiarerai non colpevole. Tuo padre mi paga per tirarti fuori da qui, fammi fare il mio lavoro e questa diventerà una storia divertente da raccontare al ritrovo degli ex alunni.»
Parole superflue.
Il buon vecchio Thomas Ainsworth sapeva fin dall’inizio che Petterson avrebbe sistemato tutto. È la strategia infallibile di mio padre. Si circonda dei migliori, li paga profumatamente e si aspetta che il lavoro venga svolto con la massima efficienza. Non importa di quale casino si tratti. Non c’è niente che i soldi degli Ainsworth non possano sistemare.
Amen.
«Il Signor Ainsworth è più che soddisfatto di come è finita questa faccenda. La prossima volta fai attenzione alle telecamere di sicurezza» scherza l'avvocato, con un sorrisino d’intesa, dopo aver terminato la chiamata con mio padre.
La prossima volta.
Sospetta davvero che ci sarà 'una prossima volta'? E quelli che hanno seguito con maniacale interesse il mio caso? Anche loro sono disposti a credere che prima o poi finirò di nuovo a processo?
'Non ci sarà nessuna prossima volta', vorrei urlare, fino a rimanere senza voce, eppure scommetto che gran parte dell'opinione pubblica non sarebbe disposta a credermi. Anche se in ventitré anni questa è la prima e unica battuta d’arresto di cui sono stata protagonista.
Ma non ha alcuna importanza. Ormai è risaputo che un solo sbaglio è tutto quello che basta.
«Ha ragione. Starò più attenta» annuisco e gli concedo la risposta che si aspetta di sentire.
Se non altro seguirò il suo spassionato consiglio solo per non rivederlo mai più, dopo questa simpatica storia io, con gli avvocati, ho chiuso.
Dopo diversi minuti passati bloccati nel traffico, l’autista parcheggia davanti alla mia destinazione.
Con il timore che qualche giornalista o troupe televisiva abbia seguito la macchina dal tribunale, inforco gli occhiali da sole e con un saluto sbrigativo, destinato al mio - ormai ex - avvocato, scendo dalla macchina.
Ringrazio il vecchio Lawrence quando apre il portone d’ingresso al mio passaggio e prima che le porte dell’ascensore, nel quale sono appena salita, si chiudano studio con accurata attenzione la figura leggermente ingobbita dell'anziano portinaio. E non rimango sorpresa quando individuo della sincera preoccupazione nei suoi gentili occhi verdi.
Ricordo distintamente quando Lawrence ha cominciato a lavorare nel palazzo che ospita l’appartamento della mia famiglia, all'epoca avevo solo cinque anni e da allora è sempre stato una presenza costante nella mia vita, tanto da trovare in lui una sorta di nonno acquisito. Ma al momento, per quanto ci tenga, non riesco a concedergli neppure un lieve cenno di conforto. Vorrei esserne capace, più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma sento di aver esaurito tutte le energie che di solito impiego per replicare un gesto così banale.
Aspetto con pazienza che l’ascensore arrivi a destinazione, e appena l'apertura delle porte mi consente di intravedere il lussuoso attico che mi si presenta davanti, due braccia snelle mi abbracciano con incredibile forza e una vaporosa massa di capelli biondi mi colpisce in pieno viso.
«Sono così contenta che sei a casa, tesoro.»
Rosaline Ainsworth non ha mai compreso quanto l’invadenza dello spazio personale di una persona sia, il più delle volte, una cosa inopportuna. O forse, riflettendoci bene, non gli è mai importato davvero.
Continuando a stringermi, e senza aspettare alcun tipo di replica da parte mia, mi trascina fuori dall’ascensore, spingendomi verso uno dei giganteschi divani bianchi che occupano il salotto.
Noto a malapena il familiare arredo liberty della casa nella quale sono cresciuta perché la persistente voglia di allontanare Rose cattura tutta la mia attenzione. Mi irrigidisco ulteriormente ma non la ostacolo in nessun modo, ha un carattere sensibile. E non voglio ferirla.
È sposata con Thomas Ainsworth da oltre sette anni eppure, il più delle volte, non sa ancora come approcciarsi con me.
Forse pensa che la veda come una persona orribile o una matrigna terribile cosa che, tra l’altro, non ho mai fatto ma ha solo 26 anni. Appena tre più di me.
Certo, mi tocca ammettere che a sedici anni ho messo seriamente in dubbio la serietà di mio padre quando mi ha presentato la sua ragazza appena diciannovenne, ma accogliere Rose in famiglia non è stato affatto difficile.
Durante il nostro primo incontro il suo volto era una maschera di sincera preoccupazione e forse credeva di trovare un nemico nella figlia adolescente dell’uomo di cui si era innamorata. Ma se di sicuro non ho mai pensato a Rose come a una vera e propria madre, ho trovato in lei una buona e fidata amica.
«Stai bene? Eri spaventata? Non capisco perché non hai voluto che ti accompagnassi in aula per la lettura del verdetto.»
Rosaline è in preda all’agitazione, non riesce a contenere l’energia nervosa che la pervade e comincia a camminare, avanti e indietro,  senza sosta, percorrendo con lunghe falcate il lucido pavimento di marmo.
Prima di essere sommersa da altre domande, o peggio ancora vederla avvicinarsi a me con un altro dei suoi abbracci, provo a tranquillizzarla.
«Va tutto bene, davvero. E no, non ero spaventata. E sai anche il motivo per cui Petterson non ti voleva in quel aula di tribunale. Avresti fatto una scenata» le ricordo, con una scrollata di spalle.
«Io non faccio scenate.»
«E questa cos’è?» indico nella sua direzione e si blocca di colpo, le mani sui fianchi, guardandomi con cipiglio severo.
Cipiglio severo che non riesco mai a prendere sul serio, soprattutto se è fasciata, come in questo momento, da un vestito rosa confetto all’ultima moda. È ricoperta da tanto di quel rosa da sembrare una caramella gigante. Pensare ai dolci mi ricorda di non aver mangiato niente dalla sera precedente e ormai è pomeriggio inoltrato. Mi agito sul divano, realizzando di avere fame.
«Sloane…» scuote la testa.
«Va bene, mi dispiace. Okay? Mi dispiace per tutto quanto. Per il casino che ho combinato, per il processo, per la cattiva pubblicità e per aver minato la reputazione della nostra famiglia.»
È quello che dico perché è quello che Rose vuole sentirsi dire.
Lo penso davvero?
No.
Assolutamente.
«Perché l’hai fatto?» si avvicina e si siede di nuovo al mio fianco.
Come sempre sento l’urgente impulso di scappare davanti alla sua rinnovata vicinanza, magari per rifugiarmi in un’altra stanza della casa, ma mi trattengo e mi limito a riflettere sulla domanda che mi ha fatto.
Lei non lo sa, ma nessuno me lo ha ancora chiesto.
Per il mio avvocato è sempre stato un dettaglio irrilevante, i miei amici trovano l’intera storia fastidiosamente divertente mentre mio padre e Rosaline... bé, loro non hanno avuto il coraggio di chiedermi niente.
Almeno non fino a quel momento.
«Lo sai perché. Hai visto anche tu le riprese. Mi sono trovata nel posto sbagliato, al momento sbagliato e con le persone sbagliate» minimizzo con una scrollate di spalle.
«Perché eri con loro? Non li conoscevi nemmeno quei ragazzi, Sloane!»
La guardo dritta negli occhi, forse per la prima volta da quando sono tornata a casa, e mi impongo di recitare la mia parte alla perfezione. E sono brava. Dannatamente brava.
«Li ho conosciuti quella sera, al pub. Erano simpatici, sembravano persone per bene e quando mi hanno detto
di voler cambiare locale li ho seguiti. Non avevo idea di quello che stava per succedere.»

Ed ecco, signore e signori, la versione ufficiale: coercizione ai danni di Sloane Ainsworth.
La verità invece è tutta un’altra storia, ma non c’è bisogno che Rose o papà lo sappiano.
Non potrebbero capire.
Nessuno potrebbe.

La penombra che invade l’attico attira l’attenzione di Rosaline, fino a quel momento concentrata sulla nostra conversazione e capisce che ormai devo essere esausta.
In un attimo prende in mano la situazione e decide di ordinare qualcosa da mangiare. Non che non sappia cucinare, anzi il più delle volte è davvero brava, ma lo fa per me. Mi conosce e sa quanto adori il cibo da asporto.
Aspettiamo la consegna della nostra cena guardando uno stupido reality show e mentre i concorrenti del programma litigano tra loro, Rose mi aggiorna sul suo lavoro di interprete. Conosce ben otto lingue, e ancora oggi, mi chiedo come riesca a orientarsi tra così tanti idiomi. Il più delle volte io dubito di parlare e scrivere correttamente persino nella mia lingua madre. Ed è l’unica che conosco.
Tiro un sospiro di sollievo quando nessuna delle due si avvicina al telecomando. Non vogliamo rischiare, cambiando canale, di vedere la mia faccia nell’edizione della sera di qualche telegiornale.
Meglio non sfidare la sorte.
Il suono del campanello alla porta corrisponde esattamente con lo squillo della suoneria del telefono di Rosaline e le prime note di Bohemian Rhapsody dei Queen invadono l'appartamento.
Lascio che sia Rose a parlare con Thomas, lei riesce ad affrontare il suo carattere meglio di chiunque altro, e mentre risponde al telefono io penso alla cena.
Dopo aver pagato il ragazzo delle consegne scarico le borse sul bancone della cucina, prendo la mia ordinazione e me ne vado in camera.
Anche se si trova dall'altra parte dell'Atlantico, bloccato a Londra per lavoro, voglio evitare qualunque tipo di contatto con mio padre. Almeno fino al suo ritorno. Conosco bene entrambi e non mi entusiasma l'idea di litigare attraverso un apparecchio telefonico.
Con la porta ormai chiusa alle mie spalle, abbandono i contenitori di cibo cinese sul comodino e mi lascio cadere sul letto.
Sentendo l'improvvisa esigenza di chiudere gli occhi per qualche minuto mi dico che il cibo può aspettare, anche se il mio stomaco emette un sommesso brontolio di protesta. Ma lo ignoro.
E poi, distesa su una trapunta floreale, riapro gli occhi e mi ritrovo a guardare i primi raggi di sole che illuminano le pareti rosso scuro della mia stanza.
Non ricordo quando ho ceduto al sonno, ma ero indubbiamente sfinita se ho rinunciato ai noodles cinesi e se non ho avuto neanche la forza di scostare le coperte.
Indosso ancora i vestiti eleganti scelti per il processo. La camicetta a pois verdi è tutta spiegazzata e i jeans stretti sfregano fastidiosamente contro la pelle. Le scomode scarpe in vernice sono finite in fondo al letto.
È una consolazione sapere che dopo la mia partenza per il New Jersey papà e Rosaline hanno mantenuto la mia stanza intatta, senza apportare alcuna modifica.
Concentro l'attenzione sulla familiarità che sento stando tra queste quattro mura, ma mi rendo subito conto che non dovrei trovarmi qui.
Guardo gli scaffali pieni di libri, la scrivania sommersa di smalti e trucchi, l’armadio che occupa un’intera parete stipato di vestiti dal valore di centinaia di dollari e riconosco la gravità della situazione.
Sono nella merda.
Meno di un mese fa ero a Princeton. Forse a lezione, o in biblioteca. O più semplicemente nella mia stanza, situata nel campus universitario, e rimpiango l'attimo in cui ho preso una delle peggiori decisioni della mia vita.
E poi?
Bé, poi è successo quello che è successo.
La denuncia, l’arresto, il ritorno a New York, il processo, la mia vita che prende un ulteriore slancio verso il baratro.
«Bella mossa, Sloane» mi complimento per la mia stupidità.
Mi libero con impazienza dei vestiti e mi dirigo verso la porta che conduce al bagno personale collegato alla mia stanza.
Prorompo in un lamento forte quando il bianco dei mobili e delle piastrelle mi ferisce gli occhi e avanzo praticamente alla cieca.
Impiego più tempo di quanto dovrei sotto la doccia, con la vana speranza che l’acqua calda allontani il senso di stanchezza che non mi da tregua da giorni.
Una volta finito mi avvolgo un asciugamano intorno al corpo, ma prima di raggiungere l’armadio per raccattare dei vestiti puliti, mi blocco davanti allo specchio.
Faccio fatica a riconoscere la ragazza nel riflesso. Forse posso vedere con chiarezza i miei tratti distintivi, nel viso ovale, nel naso alla francese e nelle labbra a cuore, ma mi sembra di guardare una sconosciuta.
I miei capelli, lunghi e rossi, sono irrimediabilmente annodati tra loro e hanno vita propria. Spiccano sul mio incarnato cadaverico, e ancora bagnati per la doccia, mi aderiscono fastidiosamente alle spalle. Perdo interesse per i miei capelli solo quando mi concentro sulle occhiaie scure intorno ai miei occhi. Cristo. Sono davvero profonde e non fanno che accentuare il grigio chiaro delle mie iridi.
Stavolta ho davvero superato il limite.
E mentre continuo a studiare con meticolosa attenzione ogni più piccolo particolare del mio viso, d'istinto, prendo una decisone.
Devo andarmene.
Subito.
Non sopporto più quello che sono diventata, o forse sarebbe più giusto dire che non sopporto più quello che sono sempre stata.
Con un sospiro di sconfitta, realizzo che come prima cosa devo ritrovare un equilibrio o almeno devo tentare, perché dubito sia rimasto qualcosa che valga la pena di essere ritrovato.







[ N.d.A. ]
Salve a tutti, cari lettori!
Per prima cosa vi ringrazio di cuore se siete arrivati fin qui. Dunque, cosa posso dire? È sempre una sfida scrivere una storia originale e questa è la prima che elaboro da diverso tempo. Come avrete notato questo Prologo è a stampo introduttivo e nasce con l’intento di farvi entrare in punta di piedi nel mondo della protagonista quindi spero che vi abbia, almeno in parte, incuriosito e che la lettura sia stata di vostro gradimento.
Mi auguro di sapere cosa ne pensate, per me è sempre un onore conoscere i vostri pareri.
A presto,
Ivory.
   
 
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