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Autore: Adeia Di Elferas    29/04/2017    1 recensioni
Lucrezia - nota poi con il cognome del marito, ovvero Landriani - conobbe il futuro Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, probabilmente verso la fine dell'estate del 1460.
Non si sa bene come si fossero conosciuti, ma, dopo aver individuato con maggior certezza il periodo più probabile per il loro primo incontro, ho provato a ipotizzare in questo modo l'inizio della loro storia d'amore, che durò per parecchi anni e che, in un certo senso, non finì mai.
Questa storia può essere vista come una sorta di prequel/spin-off del mio racconto "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo".
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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A Galeazzo Maria non sembrava vero che sua madre avesse alla fine ceduto di fronte all'evidenza e avesse dato ascolto alle parole che le aveva scritto in risposta alle sue lamentele.

Mentre conduceva il cavallo verso il castello di Pavia, di ritorno da una breve e furtiva battuta di caccia non autorizzata, il sedicenne figlio del Duca di Milano si sentiva il nuovo padrone del mondo.

I suoi genitori avevano fatto di tutto, pur di portarlo vicino allo studio, sua madre Bianca Maria aveva anche provato a farlo torchiare da precettori stranieri e che non lo conoscevano, convinta che almeno loro sarebbero stati immuni alle capacità sottili di Galeazzo Maria di accattivarsi i propri maestri al punto da indurli a lasciargli fare quel che voleva, trascurando i libri e il latino.

Agosto stava volgendo rapidamente al termine e l'odore dell'erba grassa e verde riempiva le narici dell'erede al Ducato di Milano. Alla sella del suo cavallo erano legate alcune piccole prede, nulla di vistoso, per non attirare troppe domande una volta rientrato al castello.

Sua nonna Agnese, che per prima aveva fatto pressioni a sua made Bianca Maria, non avrebbe reagito bene, quando avesse saputo che il nipote aveva perso la mattina tra i boschi.

Rientrando al castello, Galeazzo Maria smontò dal suo destriero e lo consegnò agli scudieri, pregandoli di dare la cacciagione alle cucine.

Sapeva che lo aspettavano per organizzare la giostra, ma quando, svegliatosi all'alba, aveva visto quel sole magnifico affacciarsi all'orizzonte, non aveva resistito, aveva infilato gli stivali da caccia ed era partito.

“Dove vi eravate cacciato?” l'aggredì subito Cicco Simonetta, il cancelliere che il Duca aveva portato con sé come uomo di fiducia quando si era sposato con Bianca Maria: “Lo sapete che vi aspettano per visionare i capitoli della giostra! Vostro padre non sarà contento, quando gli dirò che perdete il vostro tempo, invece di fare quello che vi è stato ordinato!”

Galeazzo Maria, alzando il naso adunco e facendolo vibrare, guardò senza timore alcuno l'uomo, sulla cinquantina e un po' stempiato, con una cartelletta di cuoio stretta al petto, e ribatté: “Non dovevate tornare a Milano, stamattina? Qui è tutto sotto il mio controllo, quindi credo che sarete più utile alla corte di mio padre.”

Il cancelliere scosse il capo e, gettando gli occhi al cielo, si allontanò scalciando l'aria e borbottando qualcosa sulla mancanza di educazione dei giovani.

Galeazzo Maria sbuffò e andò nei suoi appartamenti per cambiarsi. Per quanto fosse recalcitrante a seguire gli ordini del tirapiedi di suo padre, sapeva che Simonetta aveva ragione. Non doveva deludere i suoi genitori, non anche quella volta.

Con una delle sue invettive per lettera, era riuscito a convincere sua madre che l'arte militare fosse l'unica in cui sarebbe mai riuscito a sfondare e quindi l'aveva spinta a intercedere presso il Duca suo padre affinché lo lasciasse percorrere quella carriera, abbandonando una volta per tutte gli studi classici, che proprio non gli si addicevano.

Quando, quasi a sorpresa, da Milano era giunto il nulla osta, Galeazzo Maria si era sentito euforico, senonché suo padre aveva subito aggiunto il carico, mettendogli in mano, come prova, l'organizzazione della giostra per il nuovo rettore dell'Università di Pavia, Giovanni da Lussemburgo.

In realtà non sarebbe stato un compito complesso, dato che i capitoli erano già pronti e bastava dare al tutto l'impostazione militare di cui Galeazzo Maria si era vantato di essere un esperto, però era comunque un impegno che al sedicenne stava un po' stretto.

Dopo il viaggio a Firenze, presso Cosimo Medici, e dopo la partecipazione al Concilio di Mantova, il figlio del Duca si sentiva adulto a tutti gli effetti, ma ancora non era pronto per assumersi responsabilità del genere in prima persona.

Dopo essersi risistemato, uscì di nuovo, ma a piedi. Volle andare da solo fino al campo dove si sarebbe tenuta la giostra, in modo da poter assaporare in silenzio il calore dell'estate sul viso e pensare in santa pace.

Dopo il Concilio di Mantova, sua madre Bianca Maria aveva finalmente trovato un accordo coi Gonzaga, e si era deciso che Galeazzo Maria avrebbe sposato Dorotea, che, al contrario della sorella, non aveva la gobba. Benché la signora di Milano sembrasse ancora un po' infastidita dalle perplessità dei Gonzaga – assurde, visto che la tara l'aveva la loro famiglia e non gli Sforza – quella volta il matrimonio pareva inevitabile.

Spostando con un colpetto un sasso che stava sulla sua strada, il figlio dei Duchi di Milano guardò con malinconia le case umide di Pavia. Inspirò a fondo l'aria, che secondo lui sapeva sempre di fiume, anche quando si trovava in zone lontane dal Ticino, e si ripeté ancora una volta che lui Dorotea non la voleva sposare.

Arrivato al campo, salutò alcuni dei giovani scudieri che si stavano occupando degli ultimi preparativi, e poi si perse via per il resto della giornata tra progetti e chiacchiere.

 

“Ti dico che è un bene per noi essere qui, adesso. Con questa giostra, molti nobili di Milano e di Pavia saranno disponibili a fare nuove conoscenze e allora...” disse la donna, sistemandosi il belletto che si stava sciogliendo per colpa del caldo e del passare delle ore.

Lucrezia guardò sua madre e, con un sospiro pesante, si trattenne all'ultimo dal rimproverarla per la sua voglia di arrivare laddove, ormai le era chiaro, non c'era posto per loro.

Ammirava la sua forza d'animo e le era grata per averla mantenuta da quando era nata, ma, giunta ad avere vent'anni, vedeva in tutta la sua pienezza lo squallore della vita che sua madre aveva condotto fino a quel giorno.

Pavia era immersa nella sera e il palazzo che le ospitava era abbastanza vicino al fiume da costringerle a una fastidiosa convivenza con le zanzare. Tuttavia, nemmeno quella volta Lucrezia si lamentava del fortunoso riparo trovato dalla madre.

“Avanti, adesso vai a riposarti.” concluse la donna, allungando una mano verso la figlia, affinché le facesse un baciamano di buonanotte: “Domani potrai andare a messa, se vuoi, mentre io passo un po' di tempo con...” non terminò la frase, affettando un sorriso, lo stesso che aveva esibito altre mille volte, quando stava per ammettere a voce alta con che metodi riuscisse sempre a trovare qualche gentiluomo disposto a offrirle protezione, vitto e alloggio.

Lucrezia le augurò un buon riposo, le baciò il dorso della mano e si ritirò nella piccola stanza che le era stata assegnata.

Non si coricò subito, ma andò alla finestra. Visto che il ronzare incoercibile delle zanzare già riempiva la camera, non si preoccupò troppo del fatto che aprendo i vetri ne avrebbe fatte entrare altre.

Si appoggiò al davanzale e scrutò la città che stava già dormendo. Non conosceva molto bene i salotti pavesi e forse non avrebbe mai avuto occasioni per farlo. In realtà ancora non conosceva nemmeno la corte di Milano.

Sua madre l'aveva tenuta lontana da certe cose, almeno fino a quel momento. Era stata costretta a servirsene qualche volta, era vero, ma solo quando si erano trovate realmente in difficoltà. Ora che avevano raggiunto una certa stabilità, sua madre non si era mai sentita obbligata a coinvolgerla nei suoi avvilenti affari.

Ora che si era accorta di non essere più giovane, però, forse aveva pensato che la figlia, una ventenne di rara bellezza, con occhi tanto azzurri da sembrare fatti di ghiaccio e capelli tanto biondi da poter essere assimilati ai raggi del sole, fosse pronta per prendere il suo posto in quel mondo.

Lucrezia sospirò, con un lieve senso di nausea, mentre l'odore dell'estate che stava per stemperarsi in settembre l'avvolgeva come un abbraccio.

In serate come quella, non poteva evitare di sentirsi sola. Non sarebbe riuscita nemmeno a trovare conforto nelle letture classiche che portava sempre con sé. Perfino i versi greci che tanto amava l'avrebbero fatta sentire ancora peggio. Se nei giorni di sole interpretava le parole di Saffo come dolci e appassionate, in sere come quelle versi come 'ma io su morbide coltrici voglio adagiare le membra' le sembravano solo lamentele vuote dell'ultima delle cortigiane.

Non sapeva chi fosse suo padre, e non l'avrebbe mai saputo. Sua madre, quando necessario, la presentava, a volte, come la figlia nata da una relazione con Carlo, attuale pievano di Santa Maria in Mugello, figlio illegittimo di Cosimo Medici di Firenze.

Lucrezia si morse il labbro, cercando di scrutare le luci delle case vicine e immaginandosi che vite conducessero gli uomini e le donne che vivevano oltre quelle pareti, ma ciò non bastò a placare la sua inquietudine.

Ogni volta che pensava alle sue origini, non poteva far altro che sentirsi persa, come una foglia accartocciata che il vento poteva portare da una parte o dall'altra senza preoccuparsene.

Sapeva bene che sua madre la spacciava come la figlia di un Medici solo per darle un lustro maggiore, ma era abbastanza sicura che non ci fosse molto di vero, in quella dichiarazione. Forse sua madre era stata davvero l'amante di quel religioso, ma...

Con un respiro fondo, Lucrezia prese al volo una zanzara che era volata troppo vicino al suo orecchio e la schiacciò tra le dita, facendo una smorfia mentre il sangue schizzava fuori dal ventre squarciato dell'insetto.

Chiuse la finestra e finalmente andò a coricarsi, chiedendosi che mai lei ci facesse davvero in quella casa e in quella città.

 

Galeazzo Maria raggiunse il Duomo con passo pesante e un'espressione da cane bastonato che incupiva ancora di più i suoi occhi castani, già segnati dalla notte passata quasi insonne.

Fosse stato per lui, avrebbe saltato volentieri la messa di quella domenica, ma sua nonna era stata più inflessibile di un generale e così il ragazzo non aveva potuto far altro che vestirsi per bene, ma senza eccedere con la ricchezza degli abiti, per non dare troppo nell'occhio, e andare.

Quando arrivò, però, si accorse con disappunto che la funzione stava per iniziare e che la chiesa era già stipata.

Il gran caldo di quel giorno era entrato nel Duomo con tutta la sua prepotenza e per colpa sua le navate, di norma pregne dell'aroma fumoso dell'incenso, olezzavano di corpi sudati e fiati pesanti.

Reprimendo un moto di disgusto, Galeazzo Maria si sistemò poco lontano dal portone centrale aperto, nella prima ombra della chiesa, e rinunciò seduta stante a raggiungere un punto più privilegiato.

Tanto, era più interessato a sentire le voci dei passanti, nella piazza fuori, che non quella del prete, che, paonazzo per l'afa, stava faticosamente arrancando verso l'altare.

Allargandosi un po' con due dita il colletto stretto del giustacuore bianco e rosso, Galeazzo Maria si mise il cuore in pace e si finse un fedele interessato e partecipe.

 

Lucrezia si sentiva soffocare, in mezzo a tutta quella gente. Era stata puntuale ed era riuscita a mettersi quasi a metà della navata centrale.

Da lì poteva vedere i pavesi più importanti, che stavano, come di norma, in prima fila. Li guardò con attenzione uno per uno, chiedendosi se tra di loro vi fosse qualcuno di davvero importante.

Sua madre le aveva chiesto espressamente di vagliare tutti i giovani in età di matrimonio e questo l'aveva scossa non poco, tuttavia stava ubbidendo ai comandi senza farsi troppe domande.

Come altre volte nel corso dei suoi vent'anni di vita, Lucrezia si stava mettendo completamente nelle mani della genitrice, convinta che lei sapesse cosa fosse meglio per lei.

Appurato che tra i più ferventi fedeli delle prime file non vi fosse nessuno di papabile, malgrado gli abiti broccati e le armi laccate d'oro portate al fianco a unico uso di farne mostra, la giovane si permise di lanciare uno sguardo anche agli altri presenti.

I suoi occhi azzurri stavano per tornare alla schiena grossa e imponente del prete, senonché qualcuno attirò la sua attenzione.

Era un ragazzo, forse un po' più giovane di lei. Portava un giustacuore bianco e rosso e calzabrache dello stesso colore. Aveva i capelli a media lunghezza, un po' mossi, che, col sole che li lambiva appena, sembravano di una tonalità di castano molto chiara. Aveva un naso molto particolare e le labbra erano piccole, ma carnose.

Spostava il peso da un piede all'altro e dal modo in cui inclinava il capo di quando in quando si poteva intuire quanto fosse annoiato.

Da come si atteggiava, sembrava essere lì da solo. Gli uomini che gli stavano accanto non avevano nulla a che fare con lui. Al suo confronto sembravano tutti goffi e insulsi. Non era una bellezza, non nel senso classico del termine, ma lo trovava incredibilmente attraente. Nessuno aveva le sue spalle dritte, né la sua stessa figura slanciata e flessuosa.

Lucrezia si abbassò un po' il velo domenicale sugli occhi, come a punirsi per l'ardire dei suoi pensieri, e tornò a rivolgersi all'altare.

 

Galeazzo Maria accolse con un giubilo interiore la fine della messa e fu tra i primi a raggiungere l'esterno del Duomo.

Prese un paio di boccate d'aria, sperando di ristorare i polmoni, invece respirò polvere e umidità, come sempre.

Non aveva voglia di tornare al castello, dove di certo sua nonna, che aveva seguito la messa nella cappella privata, lo stava aspettando con qualche rimprovero o con qualche ordine differito dei suoi genitori.

Vagò per qualche minuto per la piazza, sentendo la camicia, gravata dal farsetto di seta, che si appiccicava alla schiena per colpa del sudore. Come poteva esserci tanto caldo, visto che l'estate stava finendo, per Galeazzo Maria restava un mistero.

A un certo punto, mentre osservava cupo alcuni passanti, intravide una donna che usciva dal portone della chiesa, avvolta in un abito blu chiaro, con un velo un po' trasparente che le copriva i capelli biondi.

Fu un lampo. Per una frazione di secondo, il figlio dei Duchi di Milano non sentì più né il caldo né l'umidità. Tutto il mondo si era concentrato in quella figura alta, longilinea e aggraziata che stava lasciando il Duomo.

Senza ragionare, il giovane si mise sui suoi passi. La seguì per qualche metro, perdendosi nelle strade laterali di Pavia, che egli conosceva a menadito, e si accorse solo dopo parecchi minuti che la donna era sola, senza accompagnatori.

Il fatto che non avesse né una dama di compagnia, né un marito, un figlio o un padre con sé era molto strano, ma Galeazzo si disse, con la cocciutaggine tipica di chi non vuole vedere nulla di male nemmeno nelle corna del diavolo, che nemmeno lui era accompagnato, anche se, in qualità di erede al Ducato, come minimo avrebbe dovuto girare per strada armato e con una decina di guardie al seguito.

Così continuò nel suo inseguimento, sperando che fosse abbastanza discreto da far sì che la preda non si accorgesse di lui. Perché così gli sembrava quella donna. Una preda ambita e bellissima. Il brivido della caccia gli percorreva il collo, come una scossa. Quella battuta, in mezzo alla città, non era semplice. Ma lui era un abile cacciatore.

 

Lucrezia aveva avuto la sensazione di essere seguita fin da quando era uscita dalla chiesa. Alla prima svolta un po' improvvisa – fatta apposta per appurare il suo dubbio – aveva avuto la certezza che qualcuno fosse sui suoi passi.

Non aveva osato guardare dietro le spalle per capire di chi si trattasse, così si limitava a continuare a camminare, addentrandosi sempre di più in una zona della città in cui non era mai stata.

Sua madre le diceva spesso che era pericoloso, per una donna come lei, uscire per strada da sola, anche se di giorno e anche solo per andare a messa, ma Lucrezia ogni volta si rifiutava categoricamente di farsi scortare da una dama di compagnia prestata dall'amante di turno.

Sentiva il cuore battere sempre più forte, mentre svoltava ormai senza più un piano in questa o quella strada, trovandosi man mano in quartieri sempre meno abitati.

A un certo punto, dopo aver preso un viottolo sulla destra, si trovò di sorpresa in un vicolo cieco.

Presa dal panico, stringendo i bordi del velo che ancora non si era tolta dalla testa, soffocò un gemito di paura e si girò, pronta a fronteggiare il pericolo.

Il fiato le morì in gola, quando si trovò davanti il ragazzo che aveva notato poco prima in Duomo.

A giudicare dai suoi occhi spalancati e dalle sua labbra appena schiuse, anche lui doveva essere molto agitato in quel momento.

Lucrezia lo guardò per un momento interminabile e non riuscì a reagire, quando lui le si avvicinò fino quasi a sfiorarla.

In quella stradina c'erano solo loro. I rumori delle arterie principali della città erano lontani e il fondo del vicolo cieco dava su una porta di una bottega chiusa. Lucrezia si sentiva in trappola, ma, sorprendentemente, non era una sensazione troppo spiacevole.

Galeazzo Maria sentiva il cuore pronto a scoppiargli nel petto. Quella donna doveva avere qualche anno più di lui, ma non gli importava. Anzi, quella sì che era una donna vera, non come quella maledetta undicenne di Dorotea Gonzaga che volevano fargli sposare.

Erano più o meno alti uguali, e Galeazzo Maria si trovò con naturalezza a specchiarsi negli occhi color del ghiaccio di quella meravigliosa creatura.

Piegando il capo a una legge di natura che lo voleva impulsivo, l'erede al Ducato di Milano prese le mani della donna tra le sue, scostandole dai lembi del velo che ancora le premeva sulla testa.

Lucrezia non si oppose a quel gesto che era al tempo stesso dolce e prepotente, e non fece nulla per fermare il ragazzo nemmeno quando questi le scoprì i capelli biondi. Tanto meno fece resistenza quando il giovane le strinse la vita con ambo le mani e, tirandola ancor di più contro di sé, la baciò.

Galeazzo Maria sentiva che avrebbe potuto fare pazzie, in quel momento, dimenticando qualsiasi dovere morale e civile. Non gliene importava nulla, tutto quello che contava era la donna che stringeva tra le mani.

Però, quando delle ridanciane voci maschili e il suono delle ruote di un carretto si fecero vicine al vicolo, Lucrezia si ritrasse, come spaventata.

Galeazzo capì che se i pezzenti che stavano facendo fracasso a pochi metri da quella viuzza fossero arrivati proprio fino a lì, la donna gli sarebbe sfuggita per sempre, perciò tentò in extremis di trattenerla a sé.

“Come vi chiamate?” chiese, la voce un po' strozzata per l'emozione.

“Lucrezia.” sussurrò la donna.

“Io sono Galeazzo.” si presentò il figlio dei Duchi di Milano, odiando i popolani che si stavano facendo inesorabilmente sempre più vicini.

Mentre una saetta di impaziente inquietudine attraversava le iridi inconfondibili di Lucrezia, Galeazzo Maria chiese: “Posso sperare di rivedervi?”

La donna fece per rispondere, ma gli uomini e il carretto erano finalmente giunti a destinazione e parevano diretti proprio alla porta di legno che stava in fondo a quel vicolo cieco.

Lucrezia piegò appena le ginocchia, in segno di reverenza, e sgusciò via dalle mani di Galeazzo Maria, scappando verso la strada principale, tanto di fretta che per poco non travolse i pavesi che stavano portando nel vicolo un carico di farina.

Galeazzo ignorò quegli uomini, imponendosi di non arrabbiarsi con loro per quell'interruzione.

Se avesse ceduto alla sua collera, forse, sarebbe anche stato capace di ucciderli tutti in quello stesso vicolo.

Ma non voleva rovinare quella giornata meravigliosa con la morte di una manciata di nullità.

 

Lucrezia ci mise quasi un'ora a ritrovare il palazzo in cui era alloggiata con la madre. Quando riuscì a raggiungere la sua stanza, era ancora molto accaldata, le gote rosse come il fuoco e il respiro irregolare.

Sua madre, la cui bellezza ormai sfiorita ancora diceva la sua sotto a tutto il trucco pesante che aveva addosso, la guardò preoccupata: “Che ti è successo?”

La figlia scosse la testa, qualche ciocca di capelli biondi che scivolava via dalla stretta crocchia che portava sulla nuca: “Nulla... Il caldo.”

L'altra la guardò di sottecchi, poi si accorse della presenza di una delle schiave del suo protettore del momento ed ebbe la sensazione di essere ascoltata. Così si voltò di scatto verso di lei e le abbaiò di andarsene.

Quando si trovava di fronte delle schiave, si sentiva molto potente. Se non altro, si diceva, lei non aveva un padrone.

“Vieni...” disse con Lucrezia, prendendola per una mano e conducendola alla sua camera provvisoria.

Dopo essersi chiusa la porta alle spalle, la madre chiese: “Davvero stai bene?”

Lucrezia, inconsciamente, si portò una mano alle labbra, ricordando il bacio di quel giovane Galeazzo che aveva conosciuto poco prima. Risentì nelle narici l'odore della strada polverosa e le parve di avvertire anche il calore delle mani di lui sulla sue pelle. L'abito che portava era abbastanza sottile da averle permesso di sentire in modo netto il suo tocco, quando l'aveva stretta per la vita.

Mentre le loro labbra si univano, in un modo quasi disperato, Lucrezia aveva risentito nella mente le parole delle poesie che tanto le erano care e per la prima volta in vita sua aveva davvero capito il senso di quelle parole...

“Sto bene.” assicurò la giovane.

La madre, allora, si rasserenò all'istante e, andando allo specchio per sistemarsi un po' l'acconciatura, cambiò tono e disse: “Ormai sto invecchiando, bambina mia... Presto non mi vorranno più.”

Lucrezia trovava quel genere di discorsi troppo imbarazzante, ma non disse nulla, convinta che qualsiasi cosa l'avesse distolta dal pensiero di Galeazzo sarebbe stata buona.

“Tra un po' potrei non essere più in grado di mantenerti.” continuò la donna, tornando a guardare la figlia: “Avrei dovuto trovarti un marito anni fa, ma non volevo separarmi da te...”

L'aria nella camera era immobile, imbalsamata dall'afa sorda di Pavia. Almeno, però, non c'erano le zanzare che l'appestavano quando arrivava la sera.

“Avrei dovuto farlo, invece.” proseguì la madre, dando una leggera carezza alla guancia ancora arroventata di Lucrezia: “Qualche anno fa sì che avrei potuto comprarti un marito come si deve, ricco e altolocato. Ce l'avrei fatta, a trovarne uno così. Gli avrei venduto la tua bellezza, la tua giovinezza e la tua virtù.”

La donna fece un sospiro dolente, le dita lisce che disegnavano con distrazione la linea delicata del mento della figlia: “Ora, invece, ti resta solo la bellezza e presto anche quella sfiorirà. Trovarti un marito ora che hai vent'anni, ora che ho lasciato che ti rovinassero... Non sarà facile.”

Quelle parole avvilivano Lucrezia più di quanto potesse dire, ma non ebbe il coraggio di zittire la madre, che, al contrario, andò avanti, ormai lanciata nella sua marcia: “Forse ci toccherà accontentarci di un uomo potente che ti protegga tenendoti come sua favorita. Non avrei voluto questo destino, per te, ma quando torneremo a Milano, dopo questa giostra, sarà bene che tu venga con me a corte. Parteciperai al mio fianco a qualche festa, conoscerai un po' di gente nuova. Ho degli amici che potrebbero essere interessati a te...”

“Madre, io...” tentò di ribellarsi Lucrezia, ritraendosi anche dalle sue carezze.

“Ti ho fatta istruire, sei una donna colta, figlia mia.” disse la madre, assumendo una linea di durezza che la prendeva quando faceva discorsi seri: “Sai bene quanto me che senza la sicurezza economica, il resto non conta. Se non vorrai, a corte con me non ci verrai, ma a quel punto dovrai trovarti un altro modo per mangiare tutti i giorni. Io non sono eterna e anche se lo fossi, alla fine non troverei più nessuno disposto a mantenerci entrambe in cambio della mia compagnia.”

Lucrezia abbassò gli occhi, evitando quelli della madre, che erano di una calda tonalità di verde, e poi disse, con voce mesta: “Lasciatemi almeno un po' di tempo per pensarci.”

“Certo.” sorrise l'altra e, dopo una breve esitazione, abbracciò la figlia e le diede un rassicurante bacio sulla fronte.

 

Galeazzo Maria non aveva fatto altro che pensare a Lucrezia. Da un paio di giorni si rosolava nel suo ricordo, chiedendosi come avrebbe mai potuto fare per ritrovarla, sapendo solo il nome.

Aveva vagato per la città il più possibile, nella speranza vana di imbattersi di nuovo in lei per caso e aveva anche partecipato a tutte le messe del Duomo, annoiandosi a morte, ma sempre acceso dall'esile ottimismo degli innamorati.

Non sapeva nemmeno se fosse di Pavia o di una città vicina. Non sembrava nobile, anche se indossava un abito costoso. Se fosse stata figlia di qualche uomo importante, non sarebbe mai andata a messa da sola...

Anche la mattina dell'inizio della giostra, Galeazzo Maria aveva la testa immersa nel ricordo di lei, senza possibilità di scampo.

Da quando l'aveva baciata, aveva perso l'appetito e il sonno e si tormentava nel terrore di non poterla rivedere mai più.

Non poteva nemmeno chiedere aiuto a suoi genitori, che magari avrebbero capito di chi si trattava, se lui l'avesse descritta loro. Se si fosse lasciato scappare di essersi innamorato di una donna più vecchia di lui e probabilmente priva di un cognome altisonante, l'avrebbero come minimo messo in monastero per un anno.

Era nel padiglione riservato a lui e si stava lasciando mettere da uno scudiero la piastra pettorale della sua armatura. Non avrebbe giostrato, ma, come organizzatore, avrebbe fatto un giro d'onore in lizza, prima di sedersi sugli spalti a godersi lo spettacolo.

Quando il ragazzino gli strinse anche l'ultimo laccio, Galeazzo Maria si sentì pervadere da una folle speranza. Quella giostra aveva attirato moltissima gente e non solo nobili. Forse la sua misteriosa Lucrezia sarebbe stata tra il pubblico...

“Quello, voglio quello.” disse, indicando l'elmo più vistoso, quello ornato con la vipera dei Visconti.

Lo scudiero glielo prese e Galeazzo Maria se lo mise sotto al braccio. Fino a un momento prima avrebbe deciso di indossare l'elmo piano, quello senza troppi fronzoli, ma se Lucrezia era lì, voleva che lo vedesse al suo meglio.

“Il vostro destriero è pronto.” annunciò un altro scudiero, entrando nella tenda.

Il figlio dei Duchi di Milano ringraziò e, indossato l'elmo, andò fuori dal padiglione e montò in sella al cavallo da guerra che era stato scelto per lui da sua madre Bianca Maria.

 

Lucrezia guardava con ansia gli altri spettatori, chiedendosi se Galeazzo sarebbe stato tra loro.

Sua madre, seduta accanto all'uomo che stava dando loro ospitalità lì a Pavia, aveva notato la tensione della figlia, ma non aveva voluto metterci becco.

Era curiosa di capire chi mai stesse cercando con tanto interesse. Chissà mai che avesse risolto, senza dirglielo, il dilemma che l'affliggeva ormai da tempo. Se fosse riuscita a trovarsi da sola un partito decente, sarebbe stata una vera manna dal cielo.

Tuttavia, quando le trombe suonarono, Lucrezia si mise a guardare verso la lizza con un'espressione delusa che spense gli entusiasmi della madre.

Un giovane addobbato a festa lesse un proclama ufficiale che magnificava il nuovo rettore dell'Università e a quel punto metà del pubblico scollegò le orecchie dal cervello.

Anche Lucrezia non ascoltò mezza parola, tanto che, quando il primo cavaliere arrivò al galoppo, non sapeva né di chi si trattasse né cosa avrebbe fatto.

Quando, però, il cavaliere che portava un elmo ornato con una vipera d'oro, cavalcò avanti e indietro, mostrando la sua abilità nel muovere prima l'asta e poi la spada, l'attenzione della giovane si ridestò tutta di colpo.

Finita la dimostrazione di bravura, l'uomo si tolse l'elmo, inchinandosi alla folla e a quel punto Lucrezia non ebbe più dubbi. Avrebbe riconosciuto quel naso adunco e quello sguardo ovunque.

“Chi è?” sussurrò alla madre, indicando con discrezione il cavaliere.

“Ma come chi è?” sorrise la donna, gonfiando le guance, divertita: “Davvero non lo sai? Capisco che non ti ho mai portata a corte, ma, insomma, tutti conoscono il figlio del Duca Sforza.”

Lucrezia deglutì a fatica, la gola troppo secca per riuscire a dire altro.

“Tipo strano, si intenda.” continuò la madre, mentre applaudiva assieme agli altri: “Un ragazzo irrequieto... Ho sentito dire molte cose su di lui... E non belle, lo ammetto. Sta dando dei grattacapi non da poco ai suoi genitori...”

Il discorso della donna, però, venne interrotto dal suo accompagnatore che, come un cliente esigente, pretese la sua attenzione e la richiamò all'ordine con un colpetto sulla spalla, prima di mettersi a parlarle nell'orecchio.

Lucrezia ignorò le risatine civettuole che sua madre dedicava al suo amante e guardò rapita Galeazzo che si beava degli applausi, meritati per altro.

Quando stava per lasciare la lizza, il ragazzo riuscì a trovarla tra la folla. Si immobilizzò per un istante e poi, tenendo i suoi occhi castani, illuminati dal trionfo, fissi verso di lei, fece un ultimo inchino e le mandò un bacio con la mano, prima di spronare il suo cavallo da guerra a tornare verso i padiglioni.

La mente di Lucrezia ci mise un po', prima di elaborare la straordinaria notizia che sua madre le aveva fornito poco prima. Ora sapeva che esisteva un modo per rivedere Galeazzo. Non solo, esisteva un modo per poterlo conoscere meglio.

Al terzo scontro della giostra, mentre sua madre guardava con scarso coinvolgimento un cavaliere che ne buttava in terra un altro, Lucrezia le bisbigliò all'orecchio: “Ho deciso. Quando torneremo a Milano, verrò a corte con voi.”

 
   
 
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