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Autore: gattina04    30/04/2017    1 recensioni
È un momento tranquillo ed Emma ha tutto ciò che ha sempre cercato e voluto; non c’è niente che possa desiderare, nemmeno il giorno del suo compleanno, ad eccezione di un piccolo insignificante rammarico. E sarà proprio quel pensiero a stravolgere completamente la sua esistenza catapultandola in un luogo sconosciuto, popolato da persone non così tanto sconosciute. E se ritrovasse persone che pensava perse per sempre: riuscirà a salvarle ancora una volta?
E cosa succederà a chi invece è rimasto a Storybrooke? Riusciranno ad affrontare questo nuovo intricato mistero? E se accadesse anche a loro qualcosa di inaspettato?
Dal testo:
"Si fermò e trasse un profondo respiro. «Benvenuta nel mondo delle anime perse Emma»."
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino, Nuovo personaggio, Robin Hood, Un po' tutti
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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15. L’incubo nel passato
 
POV Emma
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai esattamente dove volevo essere: a Storybrooke. Non ricordavo come fossi arrivata là, ma rammentavo con molta chiarezza ciò che era successo. Non avrei mai potuto dimenticare quegli istanti, non mi sarebbe bastato un’intera vita per farlo. Un attimo prima quel piccolo ragazzino testardo mi stava urlando contro, ordinandomi di non mangiare ciò che mi aveva preparato Regina, e un attimo dopo lui era a terra privo di sensi. Sembrava l’ennesima dimostrazione che le sue teorie erano fondate.
E adesso ero lì che correvo accanto al suo letto nell’ospedale di quella assurda cittadina, sperando con tutte le mie forze che il mio bambino si svegliasse.
«Henry mi senti? Henry svegliati, ti prego!». Nella mia voce c’era solo il panico, la paura tremenda di aver perso l’unica persona che aveva sempre creduto in me.
Qualcuno cercò di allontanarmi dal suo capezzale, tirandomi per la spalla. «Signora deve uscire».
Sicuramente non aveva considerato bene con chi avesse a che fare. «Non vado da nessuna parte». Me la scrollai di dosso e tornai a guardare il corpo inerme del mio ragazzino mentre il dottor Whale continuava ad esaminarlo. Stava osservando le sue pupille con una piccola torcia ed era una scena talmente orribile che mi sentivo sul punto di crollare. Nessun bambino sarebbe dovuto mai essere in quelle condizioni, tantomeno il mio.
«Che cosa è successo? Ha sbattuto la testa?», mi chiese il dottore. Beh di sicuro non era facile rispondere alle sue domande, soprattutto quando neanche io avevo del tutto compreso cosa fosse accaduto.
«Ha mangiato questo!». Alzai la busta con il triangolino incriminato, sperando così di iniziare a fare chiarezza su quel malore improvviso. «Forse è avvelenato»
«Le vie aeree sono libere», continuò il dottore. Alzò lo sguardo su di me probabilmente aspettandosi che fornissi ulteriori spiegazioni; il problema era che io non ne avevo. «Ha avuto vomito, convulsioni, disorientamento?».
«Ha dato un morso a questo ed è svenuto», ribattei infervorandomi. «Controllate subito se è veleno per topi, acido o qualcosa del genere». Era così ovvio! Perché non si dava una mossa? Prima di mordere quell’affare Henry stava litigando con me e l’attimo dopo era a terra privo di sensi. Cosa altro poteva essere stato?
«I sintomi non indicano in alcun modo ingestione di neurotossine», protestò Whale. «Non so cosa succede ma non è questo dolce la causa». Sembrava sicuro di ciò che diceva, eppure quello che avevo visto era stato altrettanto chiaro.
«Cos’altro può essere?», domandai con voce tremante.
«Non lo so». Ecco le parole più brutte che avessi mai sentito in tutta la mia vita. «Sto cercando di scoprirlo».
Fu allora che posi la domanda più importante di tutte. «Ma se la caverà giusto?». Il mio ragazzino ce l’avrebbe fatta, vero? Perché che razza di mondo era quello dove un bambino di dieci anni moriva così all’improvviso?
«Adesso dobbiamo stabilizzarlo oppure rischiamo di perderlo». Anche Whale sembrava preoccupato e questo non era sicuramente un bene. «C’è qualcos’altro che puoi dirmi sull’accaduto? Un dettaglio qualsiasi…».
«Ti ho già detto tutto», ringhiai. «Ora rimboccati le maniche». Afferrai lo zaino di Henry e iniziai a svuotarlo su un letto vuoto lì vicino.
Nonostante non gli prestassi più attenzione, Whale continuò a parlarmi, come se credesse davvero che io potessi starlo ad ascoltare in un momento del genere. «Emma so che adesso sei nel panico, è comprensibile, ma mi serve qualcosa su cui lavorare. Per ora non ho alcuna spiegazione logica. È come…». Non finì la frase perché non c’era niente che potesse spiegarlo, niente tranne…
Osservai il libro di Henry, quello contenente tutte le sue storie, quelle che pensava che fossero reali. Biancaneve, il Principe Azzurro, la Regina Cattiva. E se lui avesse avuto ragione? E se mi avesse gridato la verità per tutto quel tempo ed io mi fossi solo rifiutata di ascoltarla? Cos’altro poteva spiegare il fatto che adesso la sua vita fosse in pericolo se non la magia? Era assurdo, ma sembrava l’unica spiegazione. La Regina Cattiva aveva appena tentato di liberarsi di me perché io ero l’unica in grado di contrastarla. Solo che non aveva potuto immaginare che Henry avrebbe mangiato il suo malefico dolce. Suonava logico, no? Nella sua assurdità aveva un senso.
«Se fosse magia…», sussurrai più a me stessa che a qualcuno in particolare. Dirlo ad alta voce sembrava ancora più da pazzi. Eppure sapevo che c’era un’unica colpevole in tutta quella storia.
E neanche a farlo apposta, la sua voce mi arrivò da dietro le spalle. «Dov’è mio figlio?».
Come osava chiedere di suo figlio quando era in assoluto tutta colpa sua? Non potevo averne la certezza eppure lo sapevo. Non avrei mai trovato spiegazione migliore, perché non ce n’erano.
«È stata lei». Mi voltai di scatto avventandomi su Regina, afferrandola per un braccio come una furia. La trascinai in uno stanzino dove avrei potuto costringerla a parlare, con le buone o con le cattive, e la scaraventai  su uno scaffale.
«È stata lei», ripetei, mentre la rabbia mi accecava completamente. Gliela avrei fatta pagare per ciò che aveva fatto al mio bambino e, se era tutto vero, anche alla mia famiglia.
«Si fermi, mio figlio…», mi implorò Regina. Le sue parole non potevano fermarmi, non quando avevo capito tutto; per questo la spinsi contro un armadietto puntandole un braccio alla gola.
«Sta male a causa sua, ha mangiato il dolce che mi ha dato».
«Cosa?». Regina mi guardò non capendo ma io avevo in testa solo la mia idea. Era la Regina Cattiva ed aveva tentato di uccidermi, avvelenando il mio ragazzino testa dura.
«Ha mangiato il dolce che mi ha dato!», ripetei spingendola ancora di più contro l’armadietto. L’avrei soffocata con le mie stesse mani se non avessi saputo che lei era l’unica in grado di spegnere ciò che aveva iniziato.
«E con questo?». La voce di Regina arrivo flebile, segno evidente che la mia presa le stava facendo mancare l’aria.
«Che razza di magia ci ha messo dentro?». Il mio tono non suonò rabbioso quanto volevo, mi uscì più lamentoso del previsto. Ma lei doveva confessare, doveva salvare il mio bambino.
«Cosa sta dicendo?». La faccia di Regina fu talmente sconvolta e spaesata che pur un attimo considerai l’idea di allentare la presa.
«Confessi!». Il mio urlo rimbombò nella stanzina, ma era l’unico modo per indurla a dire la verità.
«Cosa dovrei confessare?», sospirò con la poca voce che le restava. Due lacrime le rigarono le guance e i suoi occhi pieni di dolore mi lasciarono del tutto interdetta.
Senza rendermene conto mi scostai da lei, lasciandole la possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere fiato.
«Lui ha mangiato questo». Alzai la busta contenente il dolce e mi sorpresi di sentire in bocca il sapore salato delle lacrime. Era una vita che non piangevo: io non piangevo mai, ero così brava a non farlo, a nascondermi dietro la mia armatura. Ed adesso invece crollavo come una stupida!
«Lei deve essere la Regina Cattiva», continuai, «deve esserlo per forza». Henry aveva ragione e quello era tutta opera della magia e tutto poteva essere risolto solo con un’altra magia.
«Signorina Swan, capisco che è sconvolta. Lo sono anch’io: mio figlio è di là e lei non mi ha dato neanche il tempo di vederlo!». Era il suo turno attaccare e il mio di subire. «Quello che sta dicendo è del tutto assurdo. E adesso mi lasci andare da mio figlio».
«No». Mi misi davanti alla porta, sbarrandole la strada. «Deve essere così! Non ci sono altre spiegazioni».
«Senta, non so di cosa mi stia accusando di preciso. Ma Henry è solo un bambino molto fantasioso, non posso credere che lei dia adito alle sue idee. La credevo più intelligente di così. Adesso mi lasci andare da mio figlio se non vuole che le metta le mani addosso».
«No», ripetei. Regina Mills nel suo abito firmato non mi faceva certo paura, sapevo che in uno scontro fisico io avrei sicuramente avuto la meglio. Ed evidentemente lo sapeva anche lei.
«D’accordo». Invece di attaccarmi in qualche modo, mi strappò di mano il sacchetto; in un solo secondo estrasse il dolce e me lo portò davanti agli occhi.
«Vuole una prova? Ecco la sua prova». Senza aspettare una mia risposta dette un morso al triangolino, sorprendendomi talmente tanto da lasciarmi a bocca aperta. Ciò che accadde dopo fu la cosa più deplorevole che potesse accadere: non successe proprio niente. Quella era la dimostrazione che tutte le mie ipotesi non erano solo sbagliate ma anche assurde.
«Io… io…». Non sapevo cosa dire; sentivo le guance in fiamme ed un dolore opprimente schiacciarmi il petto.
«Adesso mi lasci passare». Mi scansai subito, permettendole di aprire la porta e di tornare al capezzale di Henry. D’altronde non potevo fare altrimenti, visto che mi ero appena resa ridicola di fronte a lei.
Avevo davvero pensato che Henry potesse aver ragione, perché in fondo cos’altro volevo? Quel ragazzino mi stava dando la possibilità di dare un senso a tutto il caos che c’era stato nella mia vita. Quei genitori che mi avevano abbandonata in fasce in mezzo ad un bosco diventavano, in quella assurda favola, il Principe Azzurro e Biancaneve, costretti ad abbandonare la loro adorata figlia e a farla crescere senza di loro. La solitudine che avevo provato in tutta la mia vita diventava un semplice effetto collaterale del sortilegio. E poi come in tutte le fiabe c’era un cattivo, Regina in questo caso, a cui dare tutta la colpa. Sarebbe stato bello, e soprattutto sarebbe stato fantastico poter risvegliare il mio bambino con qualcosa di magico, qualcosa che andava ben oltre la scienza.
Non avevo creduto ad Henry fino a che non l’avevo visto a terra privo di sensi. Non avevo creduto alla magia fino a quando non avevo avuto davvero bisogno di un miracolo per salvarlo. Ma io non ero la Salvatrice, come il mio ragazzino invece sosteneva, ed io non ero capace di fare niente. Solo il dottor Whale poteva salvarlo ed ero stata davvero una sciocca a credere in quell’assurda fantasia. Mi ero ridicolizzata di fronte ad una persona che già mi odiava; per cosa poi? Per niente.
Stringendomi le braccia intorno al petto, tornai di là, cercando di farmi forza. Non mi ero mai sentita più debole di così. Henry era riuscito a scalfire la mia dura armatura e mi odiavo per averglielo permesso. Avevo già sofferto abbastanza nella mia vita, avrei dovuto imparare ad escludere tutti e tutto. Eppure quel bambino, il mio bambino, sangue del mio sangue, era riuscito ad insinuarsi nel mio cuore. Era forse l’unica persona che avessi mai trovato che fosse in grado di volermi bene incondizionatamente e adesso stavo per perderla. Una nuova perdita, un nuovo abbandono.
Quando rientrai nella stanza, sperando in qualche cambiamento positivo, vidi Regina seduta sul letto accanto al piccolo, i singhiozzi che le facevano alzare e abbassare le spalle. Era ovvio che non fosse cambiato niente e che il dottore continuasse ancora a non capire cosa avesse Henry. Restai in disparte permettendo a Regina di avere quel momento di privacy con suo figlio, perché in fondo poteva considerarsi più figlio suo che mio. Lei l’aveva cresciuto e, per quanto la odiassi, aveva ragione su una cosa: io avevo rinunciato ad Henry quando l’avevo abbandonato e non avevo più nessun diritto su di lui. Sapevo che Regina gli voleva bene, ma non riusciva a dimostrarlo nel modo giusto; forse la fantasia sfrenata di Henry era proprio dovuta a questo.
All’improvviso quei complessi macchinari che il dottore aveva collegato al minuscolo corpo del mio ragazzino cominciarono a suonare, facendo accorrere subito medici ed infermieri nella sua stanza. Tentai di avvicinarmi anch’io al letto per poter anche solo stringere la mano del mio piccolo lottatore, ma fui bruscamente spinta via e allontanata.
«Portatele via», sentii qualcuno gridare. «Fatele uscire immediatamente». Tentai di resistere ma due braccia più forti di me mi afferrarono e mi trascinarono fuori. Notai che anche Regina era nella mia stessa identica situazione, costretta ad uscire dall’unica stanza in cui entrambe avremmo voluto restare.
«Signore non lo aiutate se continuate ad intralciarci». Furono quelle parole a farci smettere di combattere. Volevamo solo che Henry si svegliasse e se avrebbe aiutato l’averci lontano, avremmo sopportato quella terribile separazione.
Non ero mai stata madre, non avevo voluto esserlo, non mi ero sentita pronta, ma adesso sapevo cosa significava. Amare qualcuno più di sé stessi non aveva mai avuto senso per me fino a quando lui non era venuto a prendermi. Solo in quel momento, quando avrei dato la mia stessa vita per salvare mio figlio, mi resi conto che senza volerlo lo ero diventato. Ero madre ed era un sentimento talmente forte da riuscire a stravolgermi completamente.
Attraverso il vetro osservai i medici e gli infermieri affannarsi sul corpo inerme di mio figlio, mentre Regina singhiozzava al mio fianco, cercando di non guardare la terribile scena che aveva davanti. Io invece non riuscivo a distogliere lo sguardo da quel macabro spettacolo. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel vetro, dalle mani che massaggiavano il petto del mio bambino, da Whale che preparava le piastre, dall’infermiere che spingeva l’aria nel petto di mio figlio, dai monitor che lampeggiavano e suonavano. Era una scena raccapricciante; ogni cellula del mio corpo mi gridava di non guardare, di distogliere lo sguardo per evitare di vedere ciò che sembrava inevitabile e ciò che mi avrebbe sconvolto per sempre. Eppure io non potevo muovermi, dovevo osservare fino alla fine, dovevo individuare l’esatto istante in cui il mio cuore si sarebbe ridotto in mille pezzi.
E poi accadde: le linee sul monitor divennero piatte, l’agitazione accanto al corpo di mio figlio diminuì per lasciare il posto allo sconforto. Notai esattamente il cambio di espressione sul volto di tutti i presenti: quel dolore misto a pietà che odiavo con tutta me stessa.
Per capire non avevo bisogno che Whale uscisse fuori, con un’espressione contrita dipinta sul volto. E non avevo bisogno nemmeno delle sue parole. «Ho fatto tutto il possibile… mi dispiace».
«No!». Sentii l’urlo di dolore di Regina, la stessa mia disperazione che traspariva da una sola sillaba. Per quanto detestassi ammetterlo si erano appena infranti due cuori: il mio e il suo. Avevo promesso di non farmi più spezzare da nessuno, invece quel ragazzino era riuscito nell’impossibile.
Come un automa mi avvicinai a lui, entrando nella stanza. Arrivai al fianco del suo letto e gli sfiorai una manina con la mia. Era possibile che mi sembrasse già freddo?
Sentivo in bocca il sapore delle lacrime e per quanto tentassi non riuscivo a fermarle. Era come se avessi rotto l’armatura che mi teneva insieme, frantumandomi così in mille pezzi. Mi chinai per sfiorare la sua fronte con le mie labbra, sperando in qualcosa di impossibile, in qualcosa che non si sarebbe mai potuto realizzare.
«Ti voglio bene Henry». Lasciai un dolce bacio sulla sua fronte e come era ovvio non accadde niente. Lui non si mosse, lui non si svegliò e l’inferno in cui ero precipitata continuò a rimanere tale. Non sapevo neanche il motivo, ma avevo sperato che il mio gesto potesse cambiare tutto. Che assurdità! Quasi quanto quella di aver creduto alle fantasie del mio bambino!
Solo quando ripensai alle favole di Henry fui travolta dalla consapevolezza che non avrei più sentito la sua voce, né tantomeno avrei visto la sua testolina spuntare da quell’enorme libro.
Mi accasciai a terra, travolta da singhiozzi, realizzando di aver perso tutto. Henry era diventato negli ultimi mesi il mio tutto e io adesso mi ritrovavo di nuovo sola. Era di nuovo la povera orfanella che non aveva nessuno; avevo appena perso l’unica persona che avesse creduto in me, l’unico che nonostante la sua età fosse riuscito a smuovermi.
Odiavo essere Emma l’orfanella, Emma la bimba sperduta, ma in quel momento mi sentivo di nuovo così. Non sapevo a chi dare la colpa, ma di nuovo mi era stato portato via la parte migliore di me, di nuovo il mio cuore era a pezzi e io non avevo nessuno che potesse rimetterlo insieme. Ero riuscita a stento a tornare in piedi dopo Neal, come potevo rialzarmi di nuovo dopo una batosta del genere? Non c’era una giustizia in quel dannato mondo! Come poteva esserci se un bambino di dieci anni moriva così all’improvviso? Come poteva esistere tanto dolore?
Mentre tentavo di stringermi con le braccia sentii qualcosa di metallico premere tra il mio petto e la mia mano. Cercai di sbattere le palpebre per cercare di vedere, ma la mia vista era troppo appannata; c’erano troppe lacrime a coprire la mia visuale. Mi passai un palmo sul viso e cercai di nuovo di mettere a fuoco quell’oggetto indefinito.
Appeso al mio collo c’era una catena nella quale era inserito un grosso anello. Lo fissai perplessa non capendo da dove saltasse fuori; io non avevo niente del genere, ne ero certa. Da dove diavolo sbucava? Ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, ma non era la presenza dell’anello ad essere errata; era come se l’intera scena fosse scorretta.
Con mano tremante afferrai l’anello e lo strinsi tra le dita osservandolo. Il contatto con il metallo mi fece salire un brivido lungo la schiena e mi fece girare la testa. Era come se davanti agli occhi mi passasse una vita intera: un’altra vita che avevo già vissuto, con persone vere che mi avevano amato e avevano tenuto a me veramente.
All’improvviso voci diverse si affacciarono nella mia mente, ricordandomi ciò che era stato, come questo mi aveva aiutato a cambiare e chi ero finalmente diventata.
Una voce femminile fu quella che distinsi per prima. Adesso, cerco nostra figlia.
Allora è vero?
Tu ci hai trovato Emma. Sapevo a chi apparteneva quella voce; era di Mary Margaret ed era così chiara e cristallina come se fosse stata accanto a me. Non furano tanto le parole, ma fu l’emozione che trapelava a travolgermi: era come se Henry avesse sempre avuto ragione.
Emma io non smetterò mai e poi mai di proteggerti.
Non sono abituata ad essere importante per qualcuno. Ed era così: nessuno, ad eccezione di Henry, aveva tenuto veramente a me. Non avevo mai avuto qualcuno che mi amasse incondizionatamente. Eppure quelle frasi sembravano gridarmi tutto il contrario.
E poi, tra il tumulto di voci che affollavano la mia testa una si distinse tra le altre. Era forte e particolare; non l’avevo mai sentita prima eppure era come se la conoscessi da sempre. Ascoltarla era come tornare a casa.
Sei un pirata.
Sì è vero. Ma credo anche nella correttezza; così quando ti conquisterò Emma, e so che ci riuscirò, non sarà grazie all’inganno. Sarà perché tu vuoi me. Quelle parole, rivolte a me chissà quando e chissà da chi, erano talmente sincere e reali da farmi battere il cuore all’impazzata.
L’unica cosa che devo scegliere è il modo di salvare mio figlio. Era la mia voce, ed era preoccupata e determinata. Lei mie parole non avevano senso: avevo appena perso l’opportunità di salvarlo. Non ci sarebbero state altre possibilità.
Ci riuscirai. Di nuovo quella voce forte.
Tu credi?
Non ti ho ancora mai visto fallire. Non ricordavo di aver pronunciato quelle parole, di aver avuto quel dialogo, eppure ogni frase sembrava portarmi sempre più vicina alla persona che ero.
Fu grazie a quella voce che ogni istante divenne più nitido nella mia mente. Ogni parola, ogni sillaba risvegliava una parte di me che non credevo di avere. Non passerà giorno senza che io pensi a te. Era una promessa e una parte di me sapeva che, a prescindere da chiunque avesse stretto quel giuramento, l’avrebbe mantenuta.
E insieme a quella voce c’era la mia, che continuava a porre domande che non ricordavo di aver pronunciato. Sei felice di sapere che ho il cuore spezzato? Una semplice richiesta che poteva adattarsi anche a quel momento.
Se può essere spezzato vuol dire che funziona ancora. Era vero, sentivo il cuore in mille pezzi eppure non mi ero sentita così viva da anni.
Mentre ascoltavo le sue parole, qualcosa cambiò dentro di me, come se fosse scattato all’improvviso un interruttore. Tutto ad un tratto non ebbi più problemi ad identificare la voce, sapevo chi era e riuscii a visualizzarlo come se fosse stato realmente davanti ai miei occhi. Era il mio pirata e quella era la mia vita, i momenti importanti che avevo vissuto e che non avrei mai potuto dimenticare.
Hai abbandonato la tua nave per me? La sua affermazione mi aveva talmente sorpresa da spingermi a gettarmi in qualcosa che mi terrorizzava. Il fatto che mi guardasse come se non si sentisse affatto un eroe mi aveva spinto a baciarlo per quella che poteva essere considerata la nostra prima volta.
Lui era sempre stato lì, così sicuro e così protettivo; aveva spazzato via tutti i miei dubbi ed incredibilmente lo stava facendo di nuovo. Amore mio non preoccuparti per me. Se c’è una cosa in cui sono bravo è sopravvivere.
Dopo quella rammentai un’altra confessione, due semplici parole che erano riuscite a sciogliermi completamente. Ricordavo benissimo cosa gli avevo domandato e la sua risposta mi aveva fatto commuovere. Se hai davvero paura di perdere il tuo lieto fine vuol dire che l’hai trovato. Qual è?
Non lo sai Emma? Sei tu. Non avevo mai pensato di essere il lieto fine di qualcuno, né tanto meno avevo sperato di poter innamorarmi in quel modo.
Quello che provavamo andava ben oltre il semplice significato della parola amore. Il Vero Amore. Emma tu hai scelto me. Quando dicevamo di amarci sapevamo entrambi che quello che provavamo era un sentimento che ci aveva completamente travolti. Non era vita quella lontana da Killian Jones e per lui era lo stesso.
E noi lo sapevamo bene. Ce n’erano stati di momenti brutti, ma li avevamo affrontati uno dopo l’altro. Ricordavo bene il dolore ma anche quello aveva significato vivere. Non so come si dice addio.
Allora non farlo. Promettimi solo una cosa: se ti ho aiutata a togliere quell’armatura allora non rimetterla soltanto perché mi perderai. Perderlo era stata la cosa più orribile e più difficile che avessi mai affrontato, ma alla fine non aveva fatto altro che rafforzare i nostri sentimenti. Neanche la morte ci aveva divisi. E niente ci sarebbe riuscito e la prova era di fronte ai miei occhi.
Dopo quello che abbiamo passato, l’Oscurità, Ade, essere separati in mondi diversi, volevo solo dirti una cosa… adesso che non siamo in mezzo ad una battaglia o che uno dei due non rischia di morire. Ora che è tutto normale.
Che cosa c’è Swan?
Ti amo. Due parole bastarono per risvegliare tutto dentro di me. Quella che stavo vivendo non era la realtà, le cose erano andate in un modo completamente diverso. Il mio ragazzino non era morto ed io non ero sola. Non lo ero più stata da quando mi aveva trovata.
Henry aveva sempre avuto ragione, esisteva la magia ed io ero la Salvatrice; avevo una famiglia che mi voleva bene, degli amici, Regina era cambiata e avevo trovato un pirata dal cuore immenso che amavo con tutta me stessa.
Quel dolore che provavo, quelle lacrime che mi rigavano le guance non erano vere. Erano solo un’illusione, il mio inferno personale. Tuttavia c’era un punto che nessuno aveva considerato: io avevo qualcuno a cui aggrapparmi e da cui tornare, non mi sarei fatta ingannare oltre. Avevo una missione da compiere e l’avrei portata a termine al più presto. C’erano delle persone che mi stavano aspettando ed io non vedevo l’ora di perdermi di nuovo nel mio oceano personale.
Ma non c’era solo Killian; Henry non era morto, era Storybrooke ed io dovevo tornare anche da lui. Con quella convinzione rialzai di nuovo la testa e osservai il mondo che mi circondava. Quando la consapevolezza che nulla era reale si consolidò nella mia mente, vidi la stanza intorno a me sgretolarsi, cadere letteralmente in mille pezzi e rivelare la vera realtà che mi circondava.
Ero di nuovo in una specie di grotta, il portale era alle mie spalle ed illuminava l’area di fronte a me. Ciò che era appena successo era accaduto solo nella mia mente ed era stato solo grazie all’anello di Liam se ero riuscita a rompere quella maledizione. La stessa fortuna però non era capitata ai miei quattro amici, che erano invece accasciati a terra sparsi ai lati opposti di quella stanza di pietra. Se volevo portarli in salvo dovevo cercare di spezzare anche i loro incubi e non avevo la minima idea di come riuscirci.
Senza esitare mi avvicinai a Milah che era anche quella che si trovava più vicino a me. Sembrava apparentemente priva di sensi, ma le sue labbra tremavano, rivelando l’effettiva sofferenza in cui si trovava.
«Milah? Milah riesci a sentirmi?». Provai a scuoterla, ma era evidente che non fosse sufficiente. Lei continuava ad essere rinchiusa nel suo incubo, senza possibilità di essere svegliata. Intuii che ognuno doveva riuscire da solo a rendersi conto dell’inganno; tuttavia non era detto che io non potessi dar loro una mano.
Se riuscivano a percepire le mie parole, dovevo solo trovare il tasto giusto perché realizzassero l’effettiva situazione. Era l’unica cosa che potevo fare se non volevo caricarmeli uno ad uno in spalla e portarli fuori da quel portale. Poteva essere un’idea ma se una volta rientrata nel portale fossi ricaduta nel mio inferno personale? Non era sicuramente un’esperienza che anelavo rivivere. Riuscire a svegliare almeno Milah e Robin era ciò che mi serviva.
Provai a riflettere su quale potesse essere l’incubo di Milah. C’entrava forse Tremotino? O forse Killian? Sapevo che la risposta ad entrambe le domande era negativa. C’era solo una persona che potesse comportare sia l’inferno che il paradiso di Milah: Neal.
«Milah, non so se riesci a sentirmi, ma devi ricordarti. Baelfire sta bene, lui è in un posto migliore ed è un eroe». Non accadde nulla che potesse anche solo farmi credere che lei avesse percepito lei mie parole; tuttavia non mi arresi e continuai. «Lui è diventato un grande uomo, coraggioso, forte, dal cuore d’oro. È riuscito a perdonare suo padre e ha perdonato anche te. Non ti ha mai odiato, ne sono sicura». Mi sembrò che le sue labbra avessero smesso di tremare, anche se solo per un attimo, però poteva essere anche stata la mia immaginazione. Sapevo di poter essere facilmente suggestionata in una situazione del genere.
«Oh Milah!», inveii. «Volevi tornare nell’Oltretomba per avere la possibilità di passare oltre e di andare da Baelfire. Se non ti svegli, se non apri gli occhi e scopri la verità non potrai mai raggiungerlo».
Stavo quasi per arrendermi e iniziare con  il piano b, quando la sua flebile voce mi giunse all’orecchie. «Bae».
«Milah!». Mi scaraventai su di lei, afferrandola per le spalle.
«Emma?». Con mio grande sollievo la vidi sbattere le palpebre e riaprire gli occhi.
«Va tutto bene», la tranquillizzai. «Adesso stai bene».
«Cosa diavolo è successo?». Si mise a sedere faticosamente e si guardò intorno spaesata.
«È una lunga storia, diciamo che siamo caduti in un tranello. Adesso alzati ed aiutami a svegliare gli altri, dobbiamo andarcene da qua». Una spiegazione più dettagliata poteva aspettare un secondo momento; nel frattempo le avevo dato le informazioni fondamentali.
Mi rialzai e corsi da Robin. Sapevo esattamente quali tasti premere per poterlo svegliare: erano Regina e i suoi figli. Non sapevo in che incubo si trovasse ma ero sicura che riguardasse loro. Ed infatti bastò ricordargli che le persone a lui care erano al sicuro a Storybrooke e che lo amavano immensamente. Bastò quella sicurezza per riportarlo indietro e ciò mi fece stringere il cuore. Non vedevo l’ora di osservare la sua faccia una volta che avesse scoperto dell’ambrosia.
«Emma?». Anche lui era spaesato e confuso. «Dove diavolo siamo finiti?».
«Te lo spiego dopo». Lo aiutai a rialzarsi e corsi verso Milah che era accucciata accanto al corpo di Joe.
«Non ci riesco», sospirò. «Tu come hai fatto con me?».
«Non è stato semplice», confessai. «Devi toccare le corde giuste, capire quale il suo peggior incubo e cercare di rassicurarlo».
«Beh io non ne ho idea», ammise. «Ognuno di noi ha i suoi demoni, ma nessuno ne parla volentieri. Non lo conosco così bene».
Lo immaginavo, ma adesso che lei e Robin erano svegli non sarebbe stato un problema trascinare gli altri due fuori da quell’inferno.
«Robin credi di riuscire a prendere Joe in spalla?». Mi voltai verso di lui, che nel frattempo si era accostato al corpo di Lizzy.
«Sì certo». Si avvicinò a noi, con aria perplessa, ma nonostante l’evidente confusione obbedì ai miei ordini.
«Bene. Milah tu aiutalo, io penso a Lizzy». Mi diressi verso il corpo minuto di Elizabeth. Era una ragazzina così esile, che non avrei avuto problemi a sollevarla, ed infatti fu così. Quando l’ebbi presa in braccio mi diressi verso il portale, aspettando che anche gli altri due mi raggiungessero.
«Siete pronti?». La mia era sicuramente una domanda retorica.
Stavo per muovere il primo passo, ma Milah mi fermò. «Aspetta un attimo. Dov’è Charlie?».
«Al sicuro, fuori da qua. Come ti ho detto è una lunga storia e vi spiegherò tutto una volta che saremo al sicuro nell’Oltretomba». La vidi annuire con la coda dell’occhio e quello fu sufficiente per capire che avevo il suo benestare. Senza aspettare oltre varcai il portale con passo deciso, ritornando con mio grande sollievo nella sala in cui avevo lasciato Charlie.
Aggirai il portale per vedere se fosse ancora privo di sensi, ma ciò che trovai fu un Charlie molto agitato che tentava di liberarsi dimenandosi. Per fortuna Killian mi aveva insegnato a fare dei nodi ben stretti. Quando si suoi occhi mi videro sul suo voltò si mescolarono rabbia e sollievo in egual misura.
«Emma! Dannazione! Io ti…». Le parole gli morirono in gola e la sua espressione cambiò di colpo non appena notò colei che tenevo in braccio. I suoi occhi si riempirono di paura e le sue labbra pronunciarono solo una parola: «Lizzy!». Iniziò a dimenarsi di più, non migliorando affatto la situazione e rimanendo invece legato come un salame.
«Charlie!». Milah accorse da lui con aria preoccupata, mentre Robin depositava Joe a terra accanto a me.
«Chi diavolo ti ha legato in questo modo?», gli domandò, iniziando a liberarlo.
«Emma».
«Cosa?». Sia Milah che Robin si voltarono a guardarmi, non capendo se Charlie mi stesse accusando oppure se volesse una mia spiegazione.
«Beh ve l’ho detto che era una lunga storia», feci spallucce. «Non avrei voluto farlo ma era l’unico modo per impedirgli di fare lo stupido e di entrare anche lui in quel maledetto portale». Doveva essermi grato anziché arrabbiato.
Smisi di preoccuparmi per lui e adagiai Lizzy a terra; tuttavia non feci a tempo a lasciarla che Charlie si era già avventato su di lei. Una volta sciolto dai nodi, era scattato verso l’unica persona che in quel momento occupava la sua mente.
«Lizzy piccola, mi senti?». Al di fuori del portale, tornati nella nostra grotta “sicura”, fu sufficiente chiamarla e scrollarla per far sì che lei si risvegliasse.
«Charlie?», mormorò, rassicurando tutti. Potei sentire un sospiro di sollievo levarsi da ognuno di noi.
«Sono qui, va tutto bene». La fece sedere e la strinse in un forte abbraccio. Lei ricambiò subito e nello stesso istante iniziò a piangere. Era una reazione più che comprensibile, dato che era appena uscita da una realtà infernale.
«Oh Charlie», singhiozzò contro la sua spalla. Lasciai che loro vivessero quel momento di intimità e mi voltai invece a guardare Joe. Anche lui nel frattempo si era svegliato e come gli altri, poco prima, si stava guardando attorno con aria confusa.
Fu in quel momento che realizzai che ce l’avevo fatta. Avevamo l’ambrosia ed ero riuscita incredibilmente a tirarli fuori tutti quanti da quell’inferno. Solo una scala ci separava dall’Oltretomba e dalla salvezza; una volta là, tornare a Storybrooke sarebbe stato una passeggiata dopo quello che avevamo affrontato lì sotto.
«Ragazzi», li richiamai, «non vorrei mettervi fretta. Ma cosa ne dite di andarcene per sempre da questo fiume? Adesso so quel è la strada giusta; non sbaglierò più ve lo prometto». Quelle parole servirono ad attirare subito l’attenzione dei miei compagni. Tutti si rialzarono e, senza fare domande, aspettarono che io li guidassi via da lì.
«Per di qua», dissi sorridendo. Li condussi alla scala che avevo scorto poco prima di entrare nel portale e mi fermai per osservarla in tutta la sua bellezza.
«È sempre stata qui?», domandò Milah scrutandola.
«Eravamo tutti così presi dal portale che non abbiamo notato altro. Pensavamo tutti che la via d’uscita di questo posto fosse un qualcosa di magico, invece sono solo dei gradini». Era una cosa così sciocca eppure non ci avrei mai pensato se Killian non mi avesse avvisato.
«Dovrai spiegarci molte cose», dichiarò Robin.
«Oh non sai quante amico», confermò Charlie, riferendosi ovviamente all’ambrosia.
«Ci sarà tempo. Adesso ci sarà tempo. Muoviamoci ». Percorsi i primi gradini di quella che era una scala ricavata dalla parete rocciosa con il cuore che mi martellava nel petto. Mentre salivamo la scala si fece più ripida e alla fine si trasformò in dei veri e propri pioli. Ero certa di sapere da che parte sbucasse e ne ebbi la conferma quando la mia testa spuntò dal pozzo dei desideri in mezzo alla foresta dell’Oltrebrooke. Fu la prima volta che vedere quell’ambiente rossastro, uscito direttamente dai filtri peggiori di instagram, mi rassicurò, facendomi provare un enorme sollievo.
All’improvviso sentii le lacrime premere per uscire; ero talmente sollevata da piangere di gioia. Era la prima volta che portare a termine il mio compito di Salvatrice mi faceva sentire così bene.
Osservai la foresta che mi circondava cercando di non dare spago al mio sentimentalismo, e di rimanere invece impassibile, mentre gli altri ad uno ad uno uscivano dal pozzo.
«Grazie». Milah mi raggiunse e si posizionò al mio fianco, asciugandosi una lacrima con la mano. «Se non fosse stato per te non ce l’avremmo fatta».
«Beh grazie anche a te», ammisi. «Non ce l’avrei fatta da sola».
«Ci siamo», ci informò Robin, dopo aver aiutato a Joe ad uscire.
«Sembra così bello qui adesso», sospirò Lizzy.
«Già non è mai stato più bello di così», confermò Charlie.
«Oddio siamo salvi», mormorò Joe. Era una fine ed anche un inizio: la fine di quell’intricata avventura e l’inizio della loro rivalsa. L’ambrosia era l’inizio e io non vedevo l’ora di dir loro la verità.
«Che ne dite di un pranzo come si deve al locale della strega cieca?», mi anticipò Charlie.
«Sono d’accordo», convenne Robin. «Sono sicuro che potremo ascoltare Emma con più attenzione seduti ad un tavolo con un piatto di cibo fumante davanti».
Sorrisi e acconsentii ai loro desideri. «Va bene».
«Da questa parte gente», esultò Robin. «Conosco questi boschi come le mie tasche, arriveremo in città in un attimo». Scoppiammo a ridere e con grande euforia generale ci avviammo verso il centro dell’Oltrebrooke.
Mi ritrovai a sorridere nonostante il mio destino ancora incerto e la lontananza dalla mia famiglia. In fondo eravamo appena scampati ad un fiume di anime perdute, ad un mondo fatto di incubi ed inferni personali, a prove su prove. Potevamo dire di essere sopravvissuti all’impossibile e presto avrei potuto dare a tutti loro un futuro. Cosa volevo di più?
Fu quando entrai nel locale della strega cieca che capii che per una volta il destino mi stava dando veramente di più. Fui la prima a spingere la porta d’ingresso per entrare e fui la prima a notarlo nel locale poco affollato. Era in piedi, di spalle, la mano a grattarsi la testa e l’uncino appoggiato al fianco. L’avrei riconosciuto anche se non avesse avuto quella sua appendice e anche in mezzo a decine di persone. Avrei dato la colpa alla mia immaginazione se non avessi sentito fino in dentro le ossa la consapevolezza che lui era lì. Killian era lì ed in cuor mio avevo sempre saputo che avrebbe fatto di tutto pur di raggiungermi, anche scendere nell’Oltretomba come io avevo fatto per lui.
Realizzando quanto lui fosse vicino il mio battito iniziò ad accelerare, le mie ginocchia tremarono e il mio stomaco cominciò a fare le capriole. In un attimo il mio cuore che era stato a pezzi per giorni si riparò all’istante, tornando solido e funzionante a palpitare solo per il mio Vero Amore.
Sentii la mia voce tremare pronunciando il suo nome e rivelandogli così la mia presenza. «Killian…». Ero certa che l’espressione che mi avrebbe rivolto avrebbe fatto crollare di nuovo tutte le mie difese come accadeva ogni singola volta. Tuttavia non ero mai stata così felice di perdere la mia armatura come in quel momento. 


 
Angolo dell’autrice:
Buona domenica a tutti! E come sempre ecco a voi un capitolo.
Questa settimana ho voluto mettere da parte il POV di Killian e dedicarmi completamente ad Emma e alla sua missione di salvataggio. In questo modo finalmente ho fatto tornare tutti nell’Oltretomba e ho riunito i nostri eroi.
Come avrete capito, questo capitolo è dedicato alle stagioni passate di OUAT. All’inizio non sapevo come rappresentare l’inferno personale di Emma; poi semplicemente mi è uscita questa idea. Quale destino sarebbe stato peggiore per Emma se non perdere Henry e continuare ad essere sola senza nessuna famiglia? E soprattutto senza mai conoscere il Vero Amore! In più ho voluto ricordare alcuni momenti importanti della serie che mi hanno fatto emozionare davvero tanto.
Grazie a chiunque legga e recensisca. Siete un grande sostegno, ed un input per andare avanti e trovare sempre più nuove idee.
Un bacione e a domenica prossima!
Sara  
 
  
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