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Autore: Sileno    30/04/2017    1 recensioni
Un uomo torna al paese natale dopo tanti anni; passa il tempo visitando ciò che rimane degli edifici della sua infanzia, finché non entra nella vecchia chiesa, dove avrà un viaggio onirico, una visione che lo porterà nei suoi sogni di bambino.
Genere: Malinconico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sole di mezzogiorno picchia sull’asfalto pieno di buche della strada che si arrampica sulla collina rinsecchita. Un’auto sale su per la stradina ripida e sconvolta dal tempo, è una vecchia e luccicante carretta da città. L’uomo seduto al posto di guida ha le ginocchia in gola e una miriade di goccioline di sudore gli colano dalla fronte agli occhi. I pantaloni e la camicia sono impastati con la pelle umidiccia. Gli occhi dell’uomo, irritati dall’acqua salata, sono puntati sulla cima del colle, dove conduce la strada.
Lassù giace un mucchietto di case bianche sovrastate da un vecchio campanile diroccato che si staglia contro il cielo azzurro. L’uomo sposta lo sguardo sul sedile affianco a lui, vi è appoggiato un vecchio cappellaccio bianco. -Siamo tornati- Sussurra, poi riprende a guardare il paese. L’auto arriva sobbalzando sull’asfalto dissestato fino in cima, entra tra le case, una decina di costruzioni ad un solo piano stuccate di bianco poste in due file ai lati della strada, che prosegue sulle colline. E’ l’unico paese nel raggio di miglia, un’isola in un mare di terra ondulata coperta di sassi, polvere e boschi stinti dal caldo torrido estivo.
Al centro del paese c’è  la chiesa dalla facciata bianca e austera, con a fianco il campanile, senza campana.
L’uomo ferma la macchina davanti al portone dell’edificio, prende il cappello con delicatezza e se lo mette in testa, apre lo sportello ed esce nell’aria ferma. La chiesa sembra fissarlo dal piccolo rosone circolare senza più vetro vicino al tetto, come un ciclope bianco. Lo stesso fanno le case dall’altro lato della strada, grossi mostri dagli occhi bui e con balconi al posto delle zanne digrignanti. Tutto è immobile, non tira vento, persino gli uccelli non volano nel cielo. -Forse ci siamo sbagliati- Sussurra l’uomo avvicinandosi al portone di legno tarlato della chiesa. Posa il palmo sulla superfice ruvida e bucherellata dell’anta mobile e spinge. La porta si apre. L’uomo vede due file di panche vuote e distrutte in una chiesa spoglia e polverosa, dai muri nudi e crepati. La luce filtra attraverso gli squarci sul tetto di legno e dalle finestre coi vetri frantumati. All’altare non c’è più neanche un crocifisso. L’uomo avanza incantato attraverso le panche, calpestando i pezzi di vetro e legno sul pavimento. Si va a sedere sulla penultima panca della fila di destra, ancora intatta.
Sospira, si toglie il cappello e lo poggia al suo fianco, distende la schiena sul ruvido schienale. La testa si fa più pesante, chiude gli occhi. Sente la coscienza sfuggirgli come sabbia tra le dita.
 
I grandi corpi accaldati e coperti dalle vesti buone della domenica stanno stretti sulle panche. La rozza pietra bianca della chiesa riflette la luce che entra dal portone aperto per far circolare l’aria. Il ragazzo osserva il vecchio prete che gesticola e raglia dal leggio, graffiando l’aria con le mani piccole e rinsecchite, parla parole sconosciute alle sue orecchie. Tutti lo ascoltano a schiena ritta, con gli occhi perduti nel tragitto verso lo stregone. Le schiene delle tre anziane sedute sulla panca davanti, in prima fila, sono immobili come statue. Anche il nonno, l’uomo grande come una montagna a fianco al ragazzo  con la testona pelata scoperta e il cappello bianco sulle ginocchia, guarda l’uomo simile ad un ragno dalla cui bocca escono parole spaventose e strane, zampettanti come cavallette e inafferrabili. E così diventa il prete, uno sciame di insetti gli esce dalla gola ad ogni sillaba, cavallette, mosche, grilli e api che volano sulle teste della gente, sciogliendosi nell’aria calda come neve. Il ragazzo non riesce a star fermo, guarda intorno a se, si sofferma su ogni dettaglio interessante. Guarda le fibre del legno, esamina la trama delle vesti delle anziane, quando ha paura di smarrirsi in quel mare di fili volta la testa, sbirciando nelle panche della fila di sinistra oltre il ventre del nonno. C’è la donna di cui non conosce il nome, che fissa il parroco con le palpebre pesanti. E’ una vedova, vestita di nero dal collo in giù, giovane e bella. Una donna snella dal volto affilato su cui risaltano gli zigomi levigati e gli occhi scuri leggermente inclinati sotto le sopracciglia arcuate e nere. I lunghi capelli sono raccolti in una crocchia, ha l’aria di una maga, come circe, e la pelle è bronzea.
Si dice che abbia ucciso suo marito avvelenandolo con dei funghi. Ora nella panca al suo fianco non siede nessuno, nessuno le parla mai. Il ragazzo pensa che non meriti tutto questo, che una donna così bella non può uccidere. Pensa a loro due sulla cima di un colle, seduti sulla morbida erba primaverile. Guardano la distesa di gobbe verdi e spruzzate di macchie di alberi e arbusti. All’orizzonte splende sotto la luce del sole la striscia azzurra del mare. Il vento scompiglia i capelli della vedova e le porta via il cappello di paglia, che fluttua a mezz’aria lungo il fianco scosceso del colle. Lui si alza e salta come un capretto fino al punto in cui si è posato, torna su e non ha neppure il fiatone. Le porge il cappello e lei lo prende con le mani dalle dita affusolate, non logorate dallo strofinare i panni come quelle delle altre donne. Il ragazzo è percorso da una folata di selvaggia energia, diventa più alto e cresce a vista d’occhio, gli occhi spalancati della donna lo seguono dal basso verso l’alto, anche la sua bocca è leggermente aperta dalla meraviglia. Lui abbassa la testa e la bacia sulle labbra morbide, sente il sapore dolce della sua bocca. La forza ferina monta nella sua anima e la mente si offusca, afferra il suo abito stretto all’altezza del petto e lo strappa ruggendo come un orso, i bottoni saltano via e la stoffa si sbriciola magicamente. Le afferra la gonna e la strappa come se fosse fatta di foglie secche. Ora quella donna è nuda, il corpo lungo e bronzeo disteso sull’erba. Il ragazzo sente i singhiozzi, gli feriscono le orecchie, la guarda in volto, le lacrime le rigano le guance. Il ragazzo si alza lentamente, senza riuscire a staccare il contatto visivo. Si fa indietro tremando, si sente piccolo ora, appiccicoso sulla pelle. -Sei un mostro- Sibila la donna. -No- dice lui con voce lieve, da bambino –Non è colpa mia, scusa. -Sei una bestia- Grida lei spalancando la bocca in modo innaturale, mostrando una fila di zanne aguzze –Bestia! Ora non è più la bella vedova gentile dagli occhi scuri, ma un essere contorto e magro dalla chioma arruffata e i seni sgonfi che penzolano come quelli di una capra, le sue mani artigliano le zolle d’erba. -NO!- Urla il ragazzo gonfiando il petto, si innalza di nuovo di statura, come un fuocherello nutrito dal vento, ora è alto il doppio di uomo. Si avvicina all’essere che lo fissa con gli occhi sbarrati, ha smesso di gridare e sta strisciando indietro. Il ragazzo alza il piede, che calza un grosso stivale dalla suola chiodata, glielo cala sul volto e lo schiaccia al suolo come una chiocciola. La testa della creatura scricchiola ed esplode come un uovo. -Non sono un mostro!- Urla mentre continua ad alzare e abbassare la suola, la sua voce è cavernosa e baritonale, ha anche qualcosa che ricorda il ringhio di un grosso cane –Come hai osato rifiutarmi, come hai osato sottrarti, sono troppo poco per te? Troppo piccolo? Eri solo un bel gioco, una distrazione! Maledetta puttana infame. Il ragazzo solleva lo stivale che cola viso sciolto e maciullato, il resto è una frittata cruda impiastricciata con l’erba. Le labbra della donna sono intatte, in mezzo a quello schifo. -Ti piace colpirmi- Dice la bocca intatta con voce melliflua. -No!- Urla il ragazzo a squarciagola, torna piccolo, si volta e scappa correndo lungo il versante della collina. L’urlo di lei, la parola Sadico, lo inseguono nella sua folle corsa ansimante. Le anziane sedute nella panchina davanti gli puntano gli indici contro, urla stridule e predicanti escono dalle loro gole marce e rinsecchite, gli occhi sono iniettati di sangue. Anche il prete gli urla addosso dal pulpito con assurde movenze demoniache e inumane, unite a strani belati. Il ragazzo si stringe al grande nonno al suo fianco che lo raccoglie con le grandi mani soffici e lo solleva verso l’alto. La gente scavalca le panche e corre verso di loro, cercando di afferrare il ragazzo con le dita artiglianti, graffiando l’aria. Con la coda dell’occhio vede la veste scura della vedova che esce dal portone. Le braccia del nonno si piegano all’indietro, poi lo scaraventano verso l’uscita come un proiettile umano da circo. Il ragazzo vola fuori, in strada, nella torrida aria di mezzogiorno. Si guarda intorno in cerca della donna. La vede, la creatura in veste nera corre lungo la strada, verso il bordo del colle, scompare oltre il declivio. Il ragazzo sente il vento che soffia dentro di se, si innalza fino a divenire alto metà di una casa. Inizia a correrle dietro. Il ragazzo  enorme corre da ore sui colli assolati, in mulattiere dissestate, sui prati, saltando fossati e fiumi con balzi enormi. Sotto le grandi nubi balorde. Segue sempre quella figura nera e muta che corre davanti a lui, sempre lontana, che non si volta mai. Quando l’orizzonte davanti a lui diventa rosso e le nuvole iniziano a sanguinare, le colline diventano scure e la donna sparisce tra le ombre dei declivi. Il ragazzo alto almeno tre metri scruta tutto intorno, dalla cima della più alta collina. L’ha persa. Si china e piange , poi urla al cielo insulti come un grande cervo belante, infine si ripiega su se stesso ringhiando contro il terreno e tempestandolo di colpi, strappando l’erba con furia cieca. Nel frattempo è divenuto sempre più piccolo, la sua voce sempre più flebile, i suoi potenti ruggiti sono trasformati in gemiti di un bimbo che ha perso la mamma nella folla del mercato. Quando alza gli occhi dal terreno si accorge che si sono spente le luci. Ora ci sono le stelle e la falce di luna che lo scrutano dall’alto. Sulla collina di fronte, sulla cima, c’è un bagliore di finestre illuminate. Il ragazzo si alza e si batte le mani sui vestiti per pulirli, ma le chiazze che ha lasciato l’erba sui pantaloni non se ne vanno. Discende il colle, poi sale sull’altro, sbuffando e inciampando spesso. Quando arriva alla porta della casa, una casetta con il solo piano terra, dai muri di mattoni ,il tetto di legno e un paio di finestre da cui viene la luce, è sporco di terra dalla testa ai piedi e ha la gola secca, il fiato corto. Bussa alla porta di legno due volte. Si sente dentro qualcuno che sposta una sedia, dei passi lievi. La porta si apre e il ragazzo viene illuminato da una lampada ad olio che pende dal soffitto. Una vecchietta lo fissa da oltre l’uscio, è poco più alta di lui, ha gli occhi azzurri e vispi, i capelli scuri attraversati da ciocche di grigio che gli scendono dietro. Sorride increspando il volto con un milione di rughe. -Oh- Sbotta lei senza lasciarlo parlare –E’ un bimbo che si è perso. Il ragazzo annuisce –Correvo per i prati ed è venuta la notte- Dice con voce piagnucolante. -Povero piccolo, vieni dentro- Disse la nonnetta. Il ragazzo entra nella casa, lei chiude la porta.
 
Quando ero piccola, dice la vecchia, c’era la guerra. Avevano messo noi bambini in un castello, sul cucuzzolo di un colle. Un castello vecchio e diroccato come quelli delle storie, con le mura esterne mezze crollate e le pareti che sembravano tenute insieme dall’edera. Stavamo sempre nel giardino interno, un praticello pieno di fiori chiuso da quattro alti muri, con le finestre senza vetri che ci spiavano. Io e le mie amiche giocavamo in un angolo, i maschi in quello opposto. Ogni tanto loro venivano a giocare con noi, ma il più delle volte stavano per conto loro a giocare o a lanciarci occhiate e ridacchiare. Ogni tanto passava un aereo sul quadrato di cielo sopra di noi, noi ci nascondevamo strillando. I giorni passavano così, sentivamo le esplosioni, ma nient’altro. Un giorno però accadde una cosa strana. I maschi non c’erano più. Al posto loro, nell’angolo dove giocavano spesso, c’era un’enorme tartaruga. Una mia amica corse ad accarezzarne il guscio, ma quando appoggiò il palmo sulla superficie dura e liscia la bambina iniziò a crescere d’età a vista d’occhio. Crebbe di statura, le gambe divennero lunghe e il suo corpo si inspessì, i suoi vestitini si strapparono e fu una donna alta e dai lunghi capelli scuri. Poi la sua pelle divenne sempre più tirata in volto, gli occhi sempre più incavati, il seno florido avvizzì come uva sotto il sole, la schiena si incurvò. Le sue braccia sembravano rametti secchi quando il corpo stramazzò a terra e si decompose esalando l’ultimo rantolo di un urlo che era stato strillo di bambina, poi gracchiare di vecchia. Divenne polvere e volteggiò sospinta dal vento verso il cielo azzurro sopra di noi. Strillammo e piangemmo, la tartaruga ci fissava con gli occhi spenti, allungando verso di noi il collo rugoso. Tornammo nelle nostre stanze. Piangemmo per giorni, non osavamo scendere in giardino. Poi, un mattino, una bambina si alzò dal suo lettino e corse giù in cortile. Non riuscimmo a fermarla, quando siamo arrivate l’aveva già toccata. Il suo urlo echeggiava ancora nel giardino e ciò che restava di lei volteggiava sospeso nell’aria intorno a noi, entrando nelle nostre narici. Quella notte un’altra bambina andò a toccare la tartaruga, la mattina dopo un’altra, e così anche quando calò il sole. Ci rendemmo conto che sarebbe capitato a tutte, eravamo rimaste in poche. Scappai, credo di essere stata l’unica a farlo, le altre avevano troppa paura degli aerei.
Ho vagato per il mondo per anni, poi ho trovato questa casa, ci vivo da allora. Sento che la tartaruga sta arrivando, la stavo giusto aspettando quando sei arrivato tu. Ti sei mai chiesto se la polvere su cui camminiamo non sia ciò che resta di chi è venuto prima di noi? Fossi in te mi sbrigherei a bere quel tè…
 
Il cielo brucia, la collina è illuminata dall’ultimo raggio di sole. L’auto di città sta scendendo a valle sulla stradina dissestata. Ritornerà in città. Forse l’uomo alla guida è cambiato. E il cappello bianco ha deciso di restare.

 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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