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Il manichino è sempre lì, esattamente come l’hai lasciato da quel giorno.
Hai cercato di imprimervi tutto ciò che sapevi, tutto ciò che avevi imparato in quei mesi passati – troppo in fretta – insieme, immergendovi nelle anime di chi ormai aveva lasciato la vita alle spalle. Hai curato ogni particolare – l’esatto taglio e colore di capelli (né vera porpora né puro viola, e quella ciocca bianca - un raggio di luce nell’oscurità), la posa leggera e gentile con cui si sedeva (quasi con eleganza, come se fosse abituata a muoversi come se stesse danzando), i due pupazzi del libro racchiusi nel palmo della sua mano (il cuore che non aveva mai nascosto o negato, che sin dalla prima volta in cui vi eravate incontrati, ti aveva scosso fin nel profondo).
Lo vedi tutti i giorni; a differenza degli altri, ben mimetizzati con l’ambiente, quasi fossero semplici fantasmi acquietati, quello è in bella vista, su una sedia dietro al bancone dove accogli le anime da giudicare. Proprio lì, al tuo fianco.
Per qualche ragione, sai che era così. Che quello è esattamente dove sarebbe dovuta essere.
E questa è la cosa peggiore.
Perché non ricordi, chi sia lei. Non ricordi perché sarebbe dovuta essere al tuo fianco.
Non riesci a capirlo.
A spiegartelo.
Quel vuoto che dovrebbe riempire il manichino sulla sedia accanto e invece riempie te.
E quell’intenso, infinito, gravoso dolore che ti stringe il petto in una morsa.
(Ed è del tutto impensabile. Tu sei esattamente come i tuoi manichini: un burattino senz’anima. Non è possibile che una bambola abbia il cuore spezzato).

 
Note del testo:
*cuore,  in giapponese.