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Autore: Old Fashioned    04/05/2017    20 recensioni
Siamo nell'India coloniale di fine ottocento. Il tenente Eldred Grosvenor dei fucilieri di Sua Maestà è prigioniero dei thug e sta per essere sacrificato alla dea Kali per mano di un maharaja traditore alleato con l'Impero Russo. Ma i thug non erano stati debellati quarant'anni prima dal generale Sleeman? Chi è stato a far riprendere loro l'antico vigore e a fomentarli contro l'Impero Britannico? Chi è la misteriosa spia dello Zar che sta finanziando il Movimento Indipendentista Indiano? Ma soprattutto: riuscirà il nostro tenente a salvare la pellaccia?
Prima classificata al contest "Dire Circumstances" indetto da Sagas sul forum di EFP.
Genere: Avventura, Azione, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Grosvenor'
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Capitolo 2

L’umidità della notte si era condensata in una nebbia che i primi raggi di sole coloravano di rosa e arancio. Solenne, indistinta nella caligine, la foresta sembrava un fantasma silenzioso e immanente.
Grosvenor uscì al cospetto di tanta misteriosa bellezza con la sensazione di aver dormito un decimo del necessario e dolorante persino in parti del corpo che fino a quel momento non aveva neppure saputo di possedere.
La sua uniforme, lavata e asciugata da Kaur durante la notte, aveva riacquistato una parvenza di decoro, ma il suo aspetto rimaneva quello di uno che ha litigato pesantemente con un branco di cinghiali.
Jenkins, la cui inappuntabilità aveva invece come sempre del soprannaturale, lo salutò militarmente e gli presentò la forza, composta dai soldati Thayes e Barrett.
Quali sono gli ordini, signore?” gli chiese, tranquillo come se fosse stato nella caserma dei fucilieri a Calcutta.
Oggi ci trasformeremo in fanteria di marina, sergente. Sembra che dovremo introdurci in un palazzo costruito sull’acqua.”
Un palazzo sull’acqua, sissignore.” rispose Jenkins, all’apparenza per nulla turbato dalla faccenda.
In quel momento arrivò anche Chāyā, che aveva in tutto e per tutto l’aspetto del più umile dei contadini. Grosvenor lo fissò meravigliato: lo snello giovanotto che aveva conosciuto il giorno prima sembrava adesso un macilento omiciattolo di mezz’età, piegato dalla fatica e dalla malnutrizione. Aveva addosso degli stracci rattoppati e in testa un pezzo di saree sbiadito a mo’ di turbante. Il fango gli incrostava le gambe come se fosse appena uscito da una risaia.
Venite con me,” disse semplicemente il Pandit.
Stavano per incamminarsi quando comparve Kaur sulla soglia. “Tenente Grosvenor,” chiamò.
L’ufficiale la raggiunse. “Signora?”
Solo Kaur.” Gli porse alcuni dadi scolpiti nell’osso. “Prendeteli,” gli disse. “Questi sono un nostro segno di riconoscimento. Chiunque dei nostri li veda saprà che vi deve aiutare.”
Vi ringrazio.”
E state attento, i thug sono maestri del trasformismo. Così come noi siamo dappertutto, lo sono anche loro. Non fidatevi di nessuno.”
Ci sarà Chāyā con noi. Lui dovrebbe avere l’occhio allenato, no?”
Chāyā è una spia. Obbedisce ad autorità che in ogni momento potrebbero richiamarlo altrove.” Fece una pausa e lanciò un’occhiata al giovane indiano. “Oppure potrebbe morire.”
Iddio non voglia,” rispose Grosvenor, inorridito al pensiero di rimanere nel bel mezzo del Bengala inseguito da thug e spie russe con l’unico conforto di tre militari disarmati.
Tuttavia bisogna essere realistici,” rispose asciutta la donna, “quindi conservate quei dadi e state attento a chi vi sta troppo intorno. E ora andate.”
Con un cenno di saluto gli girò le spalle e rientrò nell’edificio. La porta si chiuse dietro di lei.
Grosvenor per un attimo rimase a fissare l’anta serrata con l’espressione del naufrago che vede l’ultima scialuppa allontanarsi, poi si riscosse e tornò dai suoi uomini. “Siamo pronti, sergente?” chiese, come se avesse avuto davanti l’intero plotone in assetto di marcia.
Signorsì.”
Molto bene, allora direi che è il caso di muoverci.” Poi, con una condiscendenza degna del Re Sole, soggiunse: “Siate così gentile da fare strada, Chāyā.”

Scoprirono che la sera prima erano entrati nel tempio dalla porta posteriore. Aggirando l’edificio videro che la facciata aveva degli ornamenti di stucco, aggraziati anche se scrostati dal tempo, e ai lati della porta invece dei vasi di fiori c’erano due statue a forma di leone, entrambe multicolori per il gulal che era stato loro offerto nel corso degli anni.
Da lì si dipartiva un sentiero lastricato che si addentrava nella foresta.
A differenza dello spiazzo sul retro, quel percorso era in buone condizioni e battuto da numerosi passaggi quotidiani.
Tramite quello arrivarono in pochi minuti a un paese. I primi contadini si stavano preparando per andare nei campi e le vacche sacre meditavano, assorte nella scelta dell’orto da depredare.
Chāyā fece cenno di attendere, poi scomparve e tornò poco dopo con un carretto coperto.
I militari salirono nel cassone. Nessuno sembrò notare che il veicolo si allontanava con quattro sahib a bordo, ma questo non diede alcun conforto a Grosvenor, cui le parole di Kaur continuavano a risuonare in mente come un sinistro presagio di sventura: così come noi siamo dappertutto, lo sono anche loro.
Cercò di distogliere il pensiero e riprese il calcolo del giorno prima.
Quando furono fuori dal centro abitato, strisciò verso il pandit che sedeva a cassetta e sottovoce disse: “Chāyā, vi ripropongo il problema di ieri: senza armi, le giubbe rosse possono avere al massimo una funzione decorativa.”
L’altro annuì. “Abbiamo pensato anche a quello.”
E a quale conclusione siete giunti?” chiese il tenente, ignorando se Chāyā stesse usando una sorta di plurale maiestatis o se facesse riferimento alla misteriosa organizzazione cui sembrava appartenere.
Sotto il carro,” fu la scarna risposta, poi il giovane tornò a rivolgere lo sguardo alla strada polverosa.
Passò qualche secondo, ma non giunsero altre spiegazioni.
Sotto il carro,” ripeté allora scettico il tenente, poi si ritirò nel cassone come una lumaca nel guscio. Incontrò lo sguardo del sergente, che gli rimandò la sua stessa sfiducia.
Proseguirono per un tempo imprecisato. Ormai il sole era sorto e nell’aria stagnava il consueto caldo umido. Grondante di sudore, Thayes fece per slacciarsi il colletto della giubba, ma venne fulminato dallo sguardo di Jenkins e abbassò la mano con espressione colpevole.
Cominciarono ad aleggiare odori di limo e acqua stagnante. Il poco che si vedeva dell’esterno erano erbe alte e canne palustri. Disturbato dal passaggio del carretto, si alzò in volo un airone.
Siamo vicino a un lago,” constatò il tenente.
Signorsì,” approvò Jenkins, che sedeva impettito e con l’aria di ignorare totalmente le condizioni climatiche.
Il carretto si fermò. Pochi secondi dopo Chāyā scostò la tenda che chiudeva il cassone e disse: “Scendete, presto!”
Ecco che ricomincia a fare il Bianconiglio, pensò Grosvenor con un sospiro.
Nel frattempo il pandit stava estraendo da sotto il veicolo una cassetta di legno che aveva l’aria di pesare parecchio. La appoggiò al suolo con delicatezza e la scoperchiò, rivelando una matassa di paglia da imballaggio. Ci frugò dentro e cominciò a tirare fuori degli involti di stoffa che avevano un inconfondibile odore di olio per armi.
Tutti presero a fissarlo come cani che vedono il padrone trafficare con la ciotola del cibo.
Chāyā distribuì un involto a ciascun militare e ne tenne uno per sé. Con sorpresa di tutti, continuò a frugare e distribuì a ognuno un secondo involto molto più piccolo, che aveva più che altro l’aria di un sacchetto con dentro della ghiaia, solo notevolmente più pesante.
Grosvenor e il sergente si scambiarono un’occhiata.
È quello che siamo riusciti a trovare in una notte,” disse l’indiano raddrizzandosi. “Comunque sono in ottime condizioni.”
Ufficiale e sottufficiale reputarono la frase decisamente sospetta.
Jenkins disfò il più grande dei due involti che aveva ricevuto e ci trovò un cinturone con una fondina da cui spuntava il calcio di una pistola. Tirò fuori l’arma, ebbe qualche secondo di sbigottito silenzio e infine proferì: “Che mi venga un colpo. Ma questa la usavo nella Guerra di Crimea!”
Il tenente diede un’occhiata: Colt Navy modello 1851 a tamburo. Ricordava di averne vista una in una vetrina nel salotto del colonnello Wilson, esibita come una specie di cimelio.
Per sua fortuna, il sergente stava già provvedendo a istruire le truppe: “Allora, giovanotti! Io usavo già queste armi quando i vostri padri andavano ancora a scuola, le conosco come le mie tasche! Primo, sono ad avancarica! Secondo, niente cariche troppo potenti o vi salta la canna! Terzo, se becco un cretino che non mette del grasso sul tamburo dopo averlo caricato, lo faccio arrivare a Calcutta a calci nel deretano!”
Grosvenor stava già pensando con orrore che nemmeno lui aveva mai usato un’arma ad avancarica, ma il sergente, che non aveva certo svolto trentacinque anni di servizio scaldando una sedia in fureria, col tono di chi propone la cosa più normale del mondo disse: “Signore, permettetemi di caricare la vostra pistola, non vorrei che vi sporcaste con la polvere.”
Tutti procedettero alla complicata operazione.
Sistemata la propria arma, Thayes si alzò in piedi e grazie alla sua altezza fu in grado di esclamare: “Ehi, ma c’è un palazzo in mezzo all’acqua!”
Dì un po’,” gli chiese Jenkins in tono severo, “dove hai scovato la roba per ubriacarti?”
È la verità, sergente!” protestò il soldato. “C’è un palazzo enorme, proprio nel bel mezzo del lago.”
Il sottufficiale si fece strada fra le canne, guardò oltre e l’unica cosa che disse fu: “Che mi venga un colpo.”
Grosvenor era curioso come una scimmia, ma fedele al suo ruolo di ufficiale, con sussiego chiese: “Che c’è, sergente?”
Signore, un palazzo in mezzo al lago, con quattro torri e degli alberi dentro.”
Singolare,” commentò il tenente.
In quel momento arrivò Chāyā, che arrancava con l’acqua fino alle anche tirandosi dietro una piccola imbarcazione.
Ecco che stiamo per diventare Royal Marines,” disse Grosvenor.

Poco dopo, una barchetta carica di frutta e verdura si staccò dalla costa. Accovacciato a poppa, un misero contadino vestito di stracci la spingeva con fatica verso il palazzo.
Con ogni evidenza, il pover’uomo aveva intenzione di proporre i prodotti del suo campo alle cucine del maharaja, e si era mosso di buon mattino per essere tra i primi fornitori.
Sul fondo della barchetta, ben nascosti sotto le ceste di ortaggi, i quattro militari facevano del loro meglio per non dar segno di sé.
Dati i suoi sei piedi e sei pollici di altezza, sistemare Thayes non era stato uno scherzo. L’avevano dovuto mettere supino, perché se stava sdraiato sul fianco le sue enormi spalle creavano una sporgenza del tipico rosso British Army difficilmente camuffabile. Ai suoi lati c’erano Barrett e il sergente, con una posizione che ricordava quella dei fedeli protetti dal manto della Madonna di certi quadri manieristi.
In omaggio al suo rango di ufficiale, il tenente era sdraiato sopra a Thayes, faccia a faccia con lui e con un assortimento di cesti e sacchi sulla schiena.
Dopo un tempo che a tutti parve interminabile, si udì il raschiare della prua contro la pietra del molo e delle voci accolsero l’attracco del natante.
Chāyā rispose, si accese un dialogo che rapidamente divenne piuttosto concitato.
Ammucchiati l’uno sull’altro, gli inglesi potevano solo scambiarsi degli sguardi, che si facevano sempre più preoccupati man mano che il colloquio saliva di tono.
Ci furono anche dei colpi qua e là sulle ceste, a Grosvenor parve che qualcosa di duro e appuntito scavasse fra gli ortaggi.
Faccia a faccia con lui, Thayes lo stava fissando con espressione di panico. Il sergente, alla sua destra, era nella fase di impassibilità attenta di chi deve mantenere il decoro ma sa che è in arrivo qualcosa di profondamente sgradevole. Solo Barrett, alla sua sinistra, appariva perfettamente tranquillo. Grosvenor stabilì che l’ingenuo ragazzotto probabilmente non aveva capito nulla di quello che stava succedendo, e che chissà da quanto tempo si crogiolava in quella serafica condizione.
Lo fissò, e lui gli rimandò lo sguardo pacioso di una vacca sacra.
Pian piano il vociare e il tramestio cessarono e l’unico rumore che rimase fu il lieve sciabordio dell’acqua contro i fianchi della barchetta. Dopo un lasso di tempo imprecisato ma decisamente penoso, finalmente la voce di Chāyā sussurrò: “Tutto a posto. Venite, presto.”
Il pandit spostò qualche cesta permettendo ai clandestini di abbandonare lo scomodo natante.
Grosvenor non aveva ancora fatto in tempo a rimettere tutte le ossa al loro posto che già l’indiano ripeteva: “Presto, presto!”
Il tenente si guardò intorno: il molo conduceva a una grande camera dal soffitto a volta. Il luogo era chiaramente adibito al servizio e non concedeva nulla all’estetica. Le pareti una volta bianche erano sporche e in qualche punto annerite dalla fuliggine, per terra c’erano scarti di verdura e paglia. In un angolo era appoggiato una specie di carretto a due ruote a trazione umana.
C’erano porte sui quattro lati, e al di là si intravedevano corridoi e scale.
Seguendo Chāyā, i militari si addentrarono per un dedalo di stanze. Ogni tanto il pandit si fermava con l’orecchio teso e cambiava percorso a seconda dei rumori che si udivano, scegliendo sempre le vie più silenziose.

L’ufficiale aveva già perso l’orientamento alla terza deviazione. Ricordava solo di essere sceso e salito più volte per scale di ogni genere e di aver percorso corridoi bui e meno bui al seguito di una tremula luce di candela, ma tutti quei percorsi si sovrapponevano nel tempo e nello spazio mescolandosi come le carte tra le mani di un croupier di Montecarlo. Nemmeno nelle sbronze più orribili sono mai stato così confuso, pensò.
Chāyā invece si muoveva in quel labirinto più disinvolto dell’architetto che l’aveva progettato.
Alla fine si ritrovarono in una stanzetta senza finestre, a porta chiusa, con un’unica smilza candela a illuminarli. In quella relativa sicurezza il tenente espresse un dubbio che da un po’ lo assillava: “Abbiamo un piano?”
Il pandit annuì. “La situazione è delle più fortunate,” disse, “il maharaja si trova qui e si incontrerà con O’lim nelle sue stanze, che sono proprio qui sopra.” Fece un cenno verso l’alto.
Come fate a esserne così sicuro?” gli chiese il tenente.
Abbiamo una spia nelle cucine, la stessa che ci ha aiutati ad arrivare fin qui con la barca.”
C’è un posto dove non ci siano spie di qualcuno in questo Paese?”
Chāyā mantenne un diplomatico silenzio.
Ci stavate parlando del piano,” lo incoraggiò Grosvenor. Aveva pensato alla situazione, in effetti, non è che non l’avesse fatto, ed era giunto alla conclusione che tra padella e brace, sempre di scottarsi il deretano si trattava. Ovvero: o dispersi nel bel mezzo del Bengala senza nemmeno un temperino per difendersi, o con quattro catenacci d’antiquariato e al seguito di una spia del Grande Gioco per intercettare il suo arcinemico russo. Perlomeno la seconda opzione sarebbe stata un argomento di conversazione più interessante.
Il piano venne accuratamente esposto da Chāyā: “Ora andiamo su, ci nascondiamo e li aspettiamo. Quando arrivano li facciamo fuori, ci appropriamo dei documenti che si scambieranno per portarli a Calcutta come prove e ce ne andiamo.”
Se non altro, non rischieremo di dimenticarci qualche particolare di fondamentale importanza,” sospirò Grosvenor.
Io sono abituato a lavorare da solo,” rispose l’indiano. “Di solito non ho bisogno di spiegare a me stesso i piani che intendo seguire.”
Capisco.”
Una domanda, signore,” intervenne Jenkins.
Sergente?”
Ci saranno uomini armati a difesa di costoro?”
Nel caso, sergente, compito vostro e dei vostri uomini sarà aiutarli a raggiungere il loro paradiso, qualunque esso sia.”
Ammazzarli dal primo all’ultimo. Tutto chiaro, signore.”
La vostra capacità di sintesi è encomiabile, Jenkins.”
Grazie, signore.”

Se questa è una delle situazioni più fortunate, non vorrei conoscere quelle decisamente sfortunate, pensò il tenente Grosvenor, tirandosi indietro mentre una pallottola faceva schizzare via schegge di pietra dalla colonna dietro cui si stava riparando.
Qualcosa era andato storto. Non era certo quello il contesto più adatto per scoprire in che punto il trenino della pianificazione aveva deragliato dai binari della tattica e della logistica, fatto sta che lui, i suoi uomini e il pandit erano asserragliati intorno al trono del maharaja e impegnati in uno scontro a fuoco in piena regola.
Avevate detto che sarebbe stato facile!” disse a Chāyā, alzando la voce per sovrastare il rumore degli spari.
Non l’ho mai detto!” replicò piccato l’indiano.
Quando si parla di situazioni fortunate, uno si fa l’idea che si tratti di qualcosa di positivo.”
Questo perché voi non avete mai preso parte al Grande Gioco. Altrimenti, state pur certo che avreste fatto in fretta a rivedere il vostro concetto di positivo. Qui perlomeno siamo al coperto, non ci sono dirupi profondi duemila piedi dietro le nostre spalle e non ci sono trenta gradi sottozero.” Si alzò e abbatté una delle guardie del maharaja con un colpo di pistola, poi tornò accanto al tenente.
La pur ampia sala del trono era ormai invasa dal fumo degli spari, l’aria rimbombava di detonazioni. A ogni colpo, qualche inestimabile elemento di arte moghul andava in frantumi spargendo schegge di stucco, vetro o specchio tutt’intorno.
Chinandosi per evitare una sventagliata di frammenti di ceramica, Grosvenor chiamò: “Sergente!”
Signore?” rispose subito il sottufficiale, che finalmente si trovava nel suo elemento.
Sergente, è giunto il momento di far capire a costoro che errore hanno fatto a non accettare istruttori britannici per le loro truppe.”
Sissignore!” rispose Jenkins. Si calcò in testa con fare risoluto il casco coloniale, atto che immancabilmente preludeva ad azioni decisive.
Il tenente fece per dire qualcosa a Chāyā, ma scoprì che nel frattempo il pandit si era abilmente eclissato. Pronunciò con sentimento la parola di Chambronne.
Era pur sempre un mangiacurry, signore,” gli ricordò il sergente, “di quelli non ci si può fidare.” Poi, a voce più alta: “Thayes, tu a destra. Barrett, tu a sinistra, lungo le pareti. Io e il signor tenente vi copriremo. E non sprecate le pallottole, dovete prendere i mangiacurry alle spalle!”
I due soldati caricarono le pistole e si prepararono a scattare.
Jenkins e Grosvenor si scambiarono un’occhiata, poi in sincrono si alzarono e cominciarono a bersagliare le sagome che sporgevano da dietro le colonne.
Alcuni tizi vestiti come comparse de Il ratto del serraglio caddero a terra e vi rimasero immobili.
Bel colpo, signore,” approvò il sottufficiale.
Grazie, sergente. Complimenti anche a voi.”
Grazie, signore.”
Continuarono a sparare. Le pallottole ronzavano nell’aria, alle loro spalle il trono di Suraj Singh di Barhdaman, tripudio di intarsi e legni pregiati, si stava rapidamente trasformando in assi sforacchiate buone solo per il camino.
Poi finalmente i due soldati arrivarono in posizione e a questo punto furono le guardie del maharaja a trovarsi in una situazione poco simpatica.
Una cosa che Grosvenor notò, ad esempio, fu che Barrett sterminava pagani peggio dell’arcangelo Michele: con quel faccino pulito da seminarista e gli occhioni spalancati sul mondo, ogni colpo che sparava era un tizio che cascava per terra e ci rimaneva.
Thayes, invece, che da un po’ aveva scaricato la sua pistola e non aveva certo tempo di ricaricarla, con grande spirito pratico raccoglieva le armi dei caduti e le usava come corpi contundenti, facendo gli stessi danni del commilitone.

Non avevano fatto in tempo a bonificare la sala che già si sentivano le urla e il tramestio di un secondo contingente in avvicinamento. “Via tutti!” urlò Grosvenor. Staccò dalla parete un talwar* dalla lama damascata augurandosi che oltre ad avere l’impugnatura d’oro tempestata di diamanti fosse anche affilato.
Attraversarono di corsa la sala, serrarono i battenti della porta d’onore e Thayes vi ammucchiò contro due enormi statue e un po’ di mobili.
Continuarono a correre come se avessero il Diavolo alle calcagna. Alle loro spalle già si udivano urla e tonfi contro la porta.
Grosvenor notò confusamente che si trovavano in una sala grande quanto la prima, quasi ugualmente sfarzosa, con ori, stucchi e stoffe pregiate dappertutto. Si accorse che sul pavimento di marmo bianco c’era una fila di gocce di sangue.
Le seguirono, imbattendosi ben presto nel cadavere di una guardia del maharaja che giaceva supina, con un buco in mezzo alla fronte e gli occhi spalancati.
Le tracce di sangue proseguivano oltre il cadavere.
Continuarono a seguirle fino a che il tenente, che correva davanti a tutti, entrò in quello che sembrava uno studio, con una scrivania e scaffali di libri. Appoggiato a una parete, il pandit si stava premendo una mano sul petto. Tra le sue dita contratte scorreva un rivolo di sangue.
Chāyā!” esclamò Grosvenor muovendosi verso di lui.
Attento,” lo avvertì l’indiano con voce debole.
Immediatamente un’ombra si mosse verso di lui, egli vide un baluginio d’acciaio e fece appena in tempo a indietreggiare per evitare un fendente.
Si voltò e si trovò di fronte un uomo dai lineamenti vagamente orientali, smilzo, vestito di nero, che brandiva un kukri** nepalese.
Ripeté mentalmente la parola di Chambronne.
L’uomo lo studiò dapprima con sguardo freddo, poi improvvisamente attaccò. Un fendente, l’unica mossa possibile con il kukri, che però aveva la potenza di un colpo d’ascia.
Grosvenor lo parò con il talwar. La lama resse, ma il tenente dovette rinforzare la presa sull’impugnatura con la seconda mano per non farsi sfuggire l’arma.
Subito dopo tentò un tondo dritto, ma l’altro scattò indietro con la velocità di un felino e la sciabola tagliò solo l’aria.
Il tenente ruotò il polso e incalzò l’orientale con un tondo rovescio, ma fu intercettato dalla pesante lama del kukri, che subito dopo si levò preparandosi a calare su di lui dall’alto.
A quel punto, fortunatamente echeggiò uno sparo e Jenkins irruppe nella stanza.
Vistosi in minoranza, l’uomo in nero si buttò contro una finestra fracassandone i vetri istoriati. Si udì il tonfo del corpo che cadeva in acqua.
Grosvenor si voltò verso Chāyā, che nel frattempo era scivolato sul pavimento e ormai era seduto in una pozza di sangue. Vide che aveva il volto terreo e imperlato di sudore freddo.
Fatemi dare un’occhiata,” gli disse, chinandosi accanto a lui. Cerò di scostargli la mano che copriva la ferita.
Ormai è tardi,” ansò l’altro. Gli porse una busta che teneva nell’altra mano. “Portate questa a Calcutta più presto che potete, ci sono dentro le prove del tradimento di Suraj Singh. Dite che… i thug...” Dovette interrompersi mentre una fitta di dolore gli deformava i lineamenti.
Faremo il necessario,” gli assicurò Grosvenor.
O’lim… dovete fermarlo.”
È il tizio in nero che era qui?”
Sì, è lui. Fermatelo. Sta preparando una rivolta, tutti i thug...” Si interruppe di nuovo, gemette in preda a uno spasmo. “I thug attaccheranno… dappertutto. Al segnale...”
Che segnale?”
Il segnale… la morte del...”
Si afflosciò riverso.
È andato,” constatò Jenkins, in piedi alle spalle del tenente.
L’ufficiale si alzò e si girò verso di lui. “Sarà meglio che ci muoviamo, se non vogliamo fare la stessa fine. Fatemi solo dare un’occhiata alla scrivania, magari troviamo qualcosa di utile.” Gli porse la busta: “Questa tenetela voi, sergente. Siete sicuramente più affidabile di me.”

Poco dopo, i quattro stavano nuovamente correndo attraverso le stanze del palazzo, con la differenza che questa volta non avevano una guida.
Un tonfo sordo aveva segnato la fine del portone d’onore e subito dopo aveva cominciato a risuonare il sinistro tramestio di decine di piedi al loro inseguimento.
Grosvenor, cui come ufficiale spettava il difficile compito di condurre la ritirata, aveva scelto la tattica della lepre, ovvero brusche svolte ad angolo retto per disorientare gli inseguitori. La cosa purtroppo disorientava anche lui, e scompaginava ogni volta le poche idee che nel frattempo era riuscito a mettere insieme sull’architettura di quel dannato labirinto.
A un certo punto sbucarono in un giardino interno, dove fanciulle in abiti colorati si dispersero strillando al loro apparire. Lo attraversarono ignorando i fiori rari e le fontane zampillanti, mandarono gambe all’aria qualche eunuco e si trovarono in una sala completamente rivestita di specchi anche sul soffitto, che nel riflettere le loro giubbe rosse sembrò letteralmente andare a fuoco. Passarono poi in una stanza di marmo bianco con delicati intarsi di pietre dure su tutte le pareti, e da lì, attraverso un corridoio, a una delle torri, dove Grosvenor scoprì una scala a chiocciola che andava verso il basso.
Gli inseguitori erano stati distanziati, tuttavia i quattro militari le percorsero con tutta la velocità che le gambe consentivano loro, arrivando alla fine col fiatone e la testa che girava.
Qui è più buio che nel mio culo di notte,” proclamò la voce di Thayes.
Modera i termini, giovanotto!” lo rampognò Jenkins, “Sei in presenza di un ufficiale!”
Scusate, sergente.”
In effetti era buio pesto. Muovendosi a tentoni, Grosvenor avanzò su un pavimento di pietra. L’eco dei suoi passi dava l’idea di un posto piccolo e col soffitto basso. Nell’aria c’era odore di chiuso e olio per armi.
Procedette fino a che le sue mani non toccarono del legno: c’era una porta con grossi cardini, rinforzata da borchie di ferro.
Palpando lì intorno trovò anche una mensola, sulla quale reperì un acciarino e un mozzicone di candela.
Buon Dio!” esclamò quando finalmente ci fu un po’ di luce.
La porta aveva un finestrino, e da quello si poteva contemplare una distesa di armi da fuoco di ogni genere.
Entrarono. Non era robaccia locale, erano tutti fucili e pistole europei e americani, pezzi di pregio, rifiniti e personalizzati secondo i gusti del maharaja. Calcioli d’avorio o di legni rari, incisioni, decorazioni di smalto…
Non si fa mancare niente, questo,” constatò Jenkins, studiando una carabina Winchester ultimo modello ancora nuova di fabbrica.
Grosvenor fece un gesto degno del Re Sole. “Prego, signori: approfittatene. E non preoccupatevi, non è un furto, è una requisizione. Rilasceremo regolare ricevuta a nome dell’Esercito Britannico.”
Con l’espressione di bambini che sono riusciti a intrufolarsi dentro una pasticceria, i due soldati cominciarono a guardarsi intorno, ma subito il sergente intervenne dicendo: “Piano, razza di cialtroni! Noi siamo militari britannici, non vi permetterò di andarvene in giro con questa paccottiglia da mangiacurry!” Indicò con spregio le armi istoriate e damascate.
Ma sergente...” protestò flebile Thayes, che aveva adocchiato un vistoso fucile placcato in oro e col calcio decorato da intarsi di scene venatorie in madreperla.
Molla subito quel ciarpame! Cercate dei fucili come si deve, piuttosto, che sparino dove mirate e non attirino tutte le gazze ladre della regione. Sempre che ci siano, in questo ammasso di roba da effeminati!”
Completato il rifornimento, il tenente stilò come promesso una dettagliata ricevuta e la firmò con artistici svolazzi, non dimenticando di includere il proprio grado e titolo nobiliare. Nella nota era specificato che in cambio delle armi asportate venivano consegnate quattro Colt Navy 1851 in ottime condizioni e provviste di adeguato munizionamento. Pose il foglio in bella vista su un tavolino.
Ora possiamo andare, sergente,” concluse infine.

Fecero il percorso a ritroso, ma quando arrivarono su, il posto non era più deserto come l’avevano lasciato.
Dev’essere stata una di quelle oche,” brontolò fra i denti Jenkins, scrutando dai gradini le guardie del maharaja che andavano su e giù.
Che oche, sergente?”
Quelle del giardino, signore. Quando siamo passati hanno strillato talmente forte che devono averle sentite anche a Calcutta.”
Scendiamo di un piano,” ordinò Grosvenor, “qui è troppo frequentato e a me dà fastidio la folla, soprattutto se è composta da gente intenzionata a farmi secco.”
Ricominciarono ad aggirarsi, peraltro senza nemmeno il conforto della luce atmosferica, visto che si trovavano sotto il livello dell’acqua. Barrett era sceso a recuperare il mozzicone di candela dell’armeria e novello Diogene precedeva il gruppo reggendo l’incerta fiammella.
Signore, che posto è questo?” chiese il sergente dopo un po’ che camminavano. Il piano era deserto. Avevano attraversato una zona di servizio ed erano arrivati alla parte di rappresentanza, ma sembrava che l’edificio fosse abbandonato. Non c’erano mobili nelle stanze, né tappeti o altri segni di presenza umana.
Da quello che mi ha detto Chāyā, questo dovrebbe essere un palazzo per quando il maharaja va a caccia di anatre.”
Categorico, Jenkins rispose: “Le tipiche esagerazioni da mangiacurry, se volete la mia opinione, signore. Per le anatre basta una botte.”
Dopo un po’ che si aggiravano, Barrett riuscì a individuare una scala che saliva. Erano di nuovo nella zona adibita al servizio, e dall’alto proveniva una debole luce.
Su c’era un camerone simile a quello che li aveva accolti al loro arrivo. Anche da lì si dipartiva un molo, cui era attraccata una barchetta rossa carica di fiori. A prua sedeva un vecchio con un caffettano e un berretto in testa. Aveva il viso scavato dagli anni e l’espressione mite. Con grande cura stava sistemando un vaso pieno di giacinti rosa e viola.
I quattro militari si scambiarono un’occhiata.
Quella era pur sempre una barca, anche se piuttosto male in arnese, e guarda caso c’era proprio un lago da attraversare, possibilmente in fretta.
Seguitemi, uomini,” disse Grosvenor, e si diresse risoluto verso il piccolo natante. “Buon giorno, signore,” salutò. “Parlate la mia lingua, per caso?”
Il vecchietto, che peraltro non aveva dimostrato una gran sorpresa nel vedersi comparire davanti quattro sahib in assetto di guerra, fece un sorriso sdentato e si strinse nelle spalle.
Temo che sia un no,” concluse il tenente.
Con stupore di tutti, si fece avanti Barrett, che pronunciò una frase in perfetto bengalese. L’uomo sorrise di nuovo, ma stavolta annuì con energia.
I due si misero a parlare come vecchi amici che non si rivedevano da tempo. Gli altri tre ovviamente non capivano assolutamente nulla, ma dai gesti intuivano che la conversazione verteva via via sui fiori, sul tempo atmosferico, sui massimi sistemi e sulla caccia alle anatre.
La questione si stava facendo lunga.
Mio buon Barrett,” si intromise Grosvenor a un certo punto, “potremmo concludere la trattativa prima che arrivino qui tutti gli sgherri di Suraj Singh?”
Sì, scusate, signore,” rispose il soldato. Scambiò ancora un paio di frasi con il vecchietto poi disse: “Ha detto che per una rupia a testa porterà i sahib, ovvero noi, di là.”
Affare fatto. Si dà il caso che abbia prelevato un po’ di argent de poche fondamentale per un gentiluomo – dalla scrivania del maharaja, e questa mi sembra un’ottima occasione per cominciare a usarlo.”
Altro scambio di battute fra Barrett e il fioraio, poi il soldato disse: “Ha detto che ci porterà uno per volta.”
La barca, in effetti, aveva sul fondo quattro dita buone d’acqua. “Ci sarà da ridere quando dovrà traghettare me,” disse Thayes.
Vedi di non farla affondare, altrimenti te la fai a nuoto,” lo minacciò il sergente.
Il primo ad approfittare dell’indigeno Caronte fu Barrett, che con il suo scarso peso non rappresentò un problema per il barcaiolo.
Successivamente fu traghettato Thayes, che passò tutto il tempo a remare come un forsennato mentre il vecchietto sgottava con altrettanta foga. Grazie alla poderosa propulsione, il tragitto durò fortunatamente solo pochi minuti.
Il terzo a passare fu Jenkins, impettito come il Washington di Emanuel Leutze.
Grosvenor rimase a guardarlo mentre si allontanava. Oziosamente considerò che il rosso della barchetta faceva pendant con la giubba dell’Esercito Britannico, e che quella vivace pennellata scarlatta spiccava molto sulla prevalenza di verdi e azzurri del lago. Sarebbe stato il soggetto ideale per un quadro.
Poi cominciò a sentire dei rumori alle sue spalle. Un tramestio vago, dapprima, che in breve si fece sempre più forte, fino a raggiungere l’inconfondibile cacofonia del furibondo contingente militare che ha finalmente individuato l’odiato nemico.
Imprecando con sentimento, il tenente considerò tutte le opzioni che gli si offrivano: scappare di nuovo nel palazzo e far perdere le sue tracce, posto che ci riuscisse, finendo chissà dove. Buttarsi a nuoto e mettere alla prova la mira degli uomini del maharaja con un magnifico bersaglio rosso fiammante. Arrendersi e finire di nuovo dalla vecchia Kali in qualità di grazioso omaggio. Trovare il modo di sbarrare la porta e sperare in un rapido ritorno della barchetta.
Di tutte le alternative, la meno suicida gli parve l’ultima. Andò a vedere: peccato che non ci fosse la porta.

Gli uomini del maharaja arrivarono assieme a un nutrito gruppo di thug con il rumal già in mano e pronto al lancio.
Rimasero tutti estremamente delusi: non c’era più nessuno, gli inglesi erano riusciti a scappare e si stavano allontanando sulla terraferma, si vedevano le odiate uniformi rosse apparire e scomparire nella vegetazione.
A mollo come una rana, aggrappato con una mano alle pietre scivolose mentre con l’altra reggeva la pistola, Grosvenor pregava tutte le divinità di sua conoscenza fuorché Kali che a nessuno venisse in mente di arrivare alla fine del molo e dare un’occhiata in basso.
Su, andate via, pensava intensamente, augurandosi che nel mesmerismo ci fosse qualche barlume di fondamento scientifico, che ci state a fare qui? Non vedete che i sahib sono scappati?
Continuava a sentire dei passi che andavano su e giù, accompagnati da concitati scambi in bengalese.
Se esco da questa situazione ci faccio il bagno, nel gin tonic, giurò a se stesso, così mi ripulisco da quest’acqua schifosa.
Un ratto di dimensioni titaniche uscì da un buco fra le pietre, lo annusò, gli camminò tranquillamente sulla testa con le zampette fredde e si ributtò in acqua dopo averlo oltrepassato.
Grosvenor pensò intensamente a quanti galloni di gin e quanti di tonica sarebbero stati necessari per riempire la vasca. Impegnò la mente sul problema di trovare anche un adeguato rifornimento di scorze di limone.
Un secondo ratto, più piccolo, seguì il primo, ma invece di saltare nel lago gli corse sul braccio fino al polso e rimase a studiare per qualche secondo l’imboccatura della manica, ponderando se infilarcisi dentro o no.
Pussa via, bestiaccia! pensò il tenente, ma di nuovo ebbe una dimostrazione dell’infondatezza delle teorie di Mesmer.
Strinse i denti obbligandosi all’immobilità mentre il sorcio gli girava qua e là sotto la giubba.
Finalmente, dopo un tempo penosamente lungo, gli uomini del maharaja parvero arrendersi all’evidenza. Grosvenor percepì lo scalpiccio di numerosi passi che si allontanavano. Le voci pian piano si affievolirono e calò il silenzio.
Una volta libero delle importune presenze, l’ufficiale si issò sul molo e per prima cosa assestò una manata al molesto roditore.
La seconda cosa che fece fu rallegrarsi di aver affidato le preziose carte a Jenkins. Per l’argent de poche non era stato altrettanto previdente, ma per fortuna se n’era salvata la maggior parte.
Successivamente guardò verso la costa nella speranza di scorgervi qualcosa di rosso. Inizialmente non vide nulla, e fu preso dall’orrore al pensiero di doversela fare tutta a nuoto, poi notò con sollievo che la barchetta si era staccata dalla sponda e si stava muovendo dolcemente nella sua direzione.
Al posto dell’anziano fioraio c’era Barrett, che remava come un battelliere del Volga. Probabilmente il sergente non aveva ritenuto l’indigeno degno di trasportare un ufficiale dell’Impero Britannico e l’aveva ipso facto esautorato sostituendolo con un più adeguato militare.
Una volta a bordo, Grosvenor si sedette per non rischiare altri bagni fuori programma e fissò il soldato: un ragazzotto neanche diciottenne, con le lentiggini sul naso e un’aria stranamente per bene.
Come mai parli il bengalese?” gli domandò.
Sono nato qui, signore. I miei hanno una piantagione di tè su in Darjeeling.”
Il tenente fece mente locale. “Una piantagione? Di loro proprietà?”
Sì, signore.”
Quanto è grande?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle. “Non saprei, signore. Da quello che so è una delle più grandi della zona.”
E allora tu che ci fai nei fucilieri, Barrett?
Il soldato arrossì. “Volevano mandarmi a studiare in Europa, signore, così me ne sono andato di casa.”
Nel senso che sei scappato?”
Sì, signore,” si decise a rispondere il ragazzo chinando il capo. Dopo qualche secondo di silenzio, fissò l’ufficiale di sottecchi e cautamente chiese: “Non è che mi volete rimandare a casa, vero, signore?”
Finalmente trovo un interprete che non è un mangiacurry, come direbbe Jenkins, e lo rimando a casa? Non ci penso nemmeno.”
Il ragazzo sorrise. “Grazie, signore.”












* Sciabola indiana.
** Coltello di grandi dimensioni, pesante e affilato, usato dai Gurkha nepalesi.


   
 
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