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Autore: _Pulse_    06/05/2017    0 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Buonasera!
Finalmente possiamo scoprire le conseguenze del piano di Merlino, le spiegazioni che danno ad Alex, le confessioni... E conoscere un po' meglio anche Darrell! Il quale si è ritrovato una bella "gatta" da pelare! (Spoiler xD). E anche Baqi, col suo arrivo in ospedale, darà molto su cui riflettere alla nostra piccola Abby!
Eh sì, c'è molta carne al fuoco :)
Spero sia una buona lettura e ringrazio chi ha letto/commentato/seguito fino a qui!
Peace&Love

_Pulse_


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22. Excalibur (and other stuff)


«Polizia locale, sono l’agente Fisher. Come posso aiutarla?».
«Buonasera agente, mi chiamo Angela Levinson. Credo che dei ladri si siano introdotti in casa della mia vicina, la signorina Greenwood. Le ripeto sempre di chiudere le persiane prima di uscire…».
«Mi scusi… La signorina Alexandra Greenwood, intende?».
«Proprio lei. La conosce?».
La noia del turno di notte era stata spazzata via così e Darrell all’inizio ne era stato grato, dato che temeva di impazzire, da solo in quel silenzioso ufficio. (Da quando Myra aveva rassegnato le dimissioni e si era trasferita erano rimasti in quattro agenti, il numero minimo per potersi alternare e avere dei giorni di riposo, e lui – che un tempo era il bonus, la spalla d’appoggio dell’agente Chandra – era rimasto come gli altri da solo senza un partner). Ancora però non sapeva che cosa lo aspettava.
Deviò le chiamate alla stazione di polizia più vicina, quella di Caerleon, e si recò immediatamente all’indirizzo che la signora Levinson gli aveva comunicato al telefono. Aveva dato una rapida occhiata a ciò che lo circondava, notando che in molte abitazioni si erano riaccese le luci, e poi con una mano sulla fondina della pistola si era avvicinato alla porta della villetta a due piani di Alexandra. Bussò e si annunciò, ma non ottenne alcuna risposta. Così posò una mano guantata sul pomello, ma gli bastò appoggiarsi con una spalla al legno perché la porta si aprisse su un salotto buio ed immerso nel silenzio, rotto soltanto dai tuoni e dalla pioggia all’esterno.
Con lentezza misurata estrasse la pistola dalla fondina per potersi fare luce con la piccola torcia posta sopra il carrello, quindi si avvicinò alle scale e nonostante fosse quasi certo che ormai chiunque fosse entrato lì se ne fosse anche già andato iniziò a salire i gradini a passo felpato. Una volta al piano superiore, una corrente fredda gli lambì i polpacci, attirando la sua attenzione verso la camera da letto. Rimase sbalordito dal disordine in cui la trovò, ma rimase anche concentrato e si accertò che nessuno si fosse nascosto dietro la porta, nell’armadio o sotto il letto.
Dopo aver controllato anche le altre stanze ed essersi assicurato di essere solo, ripose la pistola nella fondina e camminò in punta di piedi verso la finestra in frantumi, da cui entravano pioggia e vento. Un particolare lo colpì subito: c’erano pochissimi pezzi di vetro sul pavimento, segno che chiunque avesse rotto la finestra l’aveva fatto dall’interno. Si avvicinò dunque al davanzale e si sporse verso il giardino, su cui vide una serie di impronte che si intrecciavano tra loro sul terreno fangoso. A causa di quel temporale presto non ne sarebbe rimasto più nulla, doveva seguirle.
Bussò alla porta dalla signora che aveva chiamato in Centrale, alla quale chiese se avesse visto qualcuno nei paraggi dopo averlo chiamato. La signora Levinson scosse il capo e aprì la bocca per rispondere, ma un uomo in giaccone e pigiama la anticipò, emergendo dalla piccola folla che si era radunata davanti alla villetta per sapere che cosa fosse successo.
«Io ho visto due persone fare il giro della casa e correre verso il bosco», esclamò.
Darrell si scrisse rapidamente il nome del testimone e il suo indirizzo, poi raccomandò a tutti di rientrare in casa e di dormire sonni tranquilli. Quando il vicinato iniziò a disperdersi, l’agente corse alla volante per recuperare una grossa torcia e corse sul retro della casa. Lì osservò da più vicino le orme, anche se la pioggia aveva reso tutto un grande pasticcio di fango. Aveva appena iniziato a seguire ogni traccia di terreno smosso quando sentì un tonfo in grado di far tremare la terra proveniente dal folto del bosco. Senza pensarci su troppo lasciò cadere l’ombrello e corse in quella direzione, cercando di orientarsi tra gli alberi illuminando le orme che si facevano sempre più difficili da individuare sul manto di foglie e rami spezzati.
Capì di essere arrivato quando si trovò di fronte a due alberi completamente sradicati dal terreno e che gli sbarravano la strada. Non aveva mai visto una cosa del genere – lui che prima di trasferirsi in quel paesino di poche anime immerso nella campagna gallese aveva sempre vissuto in città – e per ovvie ragioni non seppe spiegarselo.
Con la torcia percorse tutta la lunghezza dei due tronchi, incrociati a formare una specie di X, fino a quando non notò tra di essi uno stretto burrone e delle tracce piuttosto evidenti di passaggio umano. Si avvicinò, facendo attenzione a non scivolarci dentro, e qualcosa brillò alla luce elettrica. Si aggrappò ad un ramo e si sporse verso l’oggetto, ripescandolo da una pozza d’acqua e fango. Corrugò la fronte, studiando con lo sguardo quel cerchio di metallo al cui centro era stato fissato un cristallo bianco. Solo un fulmine, schiantatosi poco distante, fu in grado di riportarlo alla realtà.
Il temporale continuava a peggiorare e lui, da solo, non aveva alcuna possibilità ormai di raggiungere il o i malviventi che si erano rifugiati a loro rischio e pericolo nel bosco. Così tornò sui suoi passi e con il suo strano ritrovamento tra le mani – non per forza collegato all’effrazione in casa di Alexandra – salì in auto e tornò alla Centrale per cambiarsi.

Darrell sospirò stancamente mentre infilava le chiavi nella toppa, costringendosi a non pensare più al turno movimentato di quella notte.
Entrò nell’appartamento e lo trovò immerso nel silenzio – una rarità da quando Freya era piombata nella sua vita, sconvolgendola. A causa sua aveva persino iniziato ad apprezzare la musica pop.
«Freya?», la chiamò ad alta voce, iniziando a perlustrare l’appartamento alla sua ricerca. «Freya, dove sei finita?».
Si tolse il giubbotto e lo lanciò sul divano, poi si passò una mano tra i capelli: prima l’effrazione a casa di Alexandra Greenwood e la doccia di pioggia che si era fatto avventurandosi nel bosco, poi il ragazzo pakistano che stava portando avanti “un’indagine privata” su Merlino e adesso Freya che usciva di casa dopo due settimane di totale reclusione.
Una volta in bagno il campanello d’allarme dentro la sua scatola cranica iniziò a suonare all’impazzata, lasciandolo stordito e allo stesso tempo pieno di adrenalina.
La finestra che dava sul bosco che circondava Avalon, la stessa finestra da cui aveva visto Freya per la prima volta, era aperta. Dubitava di averla dimenticata così quella mattina, come dubitava che una ragazza fragile come lei potesse arrischiarsi a scendere giù dal palazzo in quella maniera. Perché avrebbe dovuto, poi?
L’analogia con ciò che aveva visto a casa di Alexandra fu troppo evidente per essere ignorata e si affacciò subito per verificare che non ci fossero segni di scasso o eventuali orme sul davanzale esterno. Rimase a bocca aperta quando, sull’erba tagliata di recente e sul terreno ancora fangoso a causa della pioggia di quella notte, vide una scia di grosse impronte, piene di acqua piovana e poco definite, ma decisamente non umane. Per quanto fosse impossibile, gli ricordavano quelle di un felino dalle dimensioni extra-large.
L’agente Fisher diede le spalle alla finestra e si massaggiò il viso stanco.
Come aveva detto a quel paramedico dai capelli rossi, lui non credeva nel soprannaturale; eppure tutto quello che stava succedendo gli stava facendo venire dei ripensamenti e non poteva accettarlo, rischiava seriamente di perdere il lume della ragione.
Aveva bisogno di dormire e di riflettere sulla linea d’azione da intraprendere, specialmente con Freya, a cui si era particolarmente affezionato nel corso di quelle settimane di convivenza.
E fu proprio per questo che per più di mezz’ora si rotolò tra le lenzuola, preoccupato per lei. Alla fine scese dal letto, indossò dei jeans e una felpa e andò a cercarla.

***

«Baqi!».
Il ragazzo aprì gli occhi di scatto, sobbalzando sulla poltroncina. Quando capì che si era addormentato nella sala d’aspetto del quarto piano, stiracchiò un sorriso mentre si massaggiava il viso e si passava le dita tra i capelli neri.
«Ciao Abby», la salutò alla fine, alzandosi per stringerla in un delicato abbraccio. «Allora, come procede la vacanza?».
Tra loro non avevano mai chiamato la degenza in ospedale come avrebbe dovuto essere chiamata – troppo triste. Così avevano optato per quella variante, con tanto di abbronzatura lunare e cocktail da sballo iniettati direttamente in vena.
«Alla grande», mormorò la ragazzina, dandogli dei colpetti sulla schiena. «Ma tu che ci fai qui? Hala mi ha detto che eri rimasto a casa per lavoro».
«Infatti. Il caso però ha preso una piega inaspettata e mi ha portato proprio qui. È vero quando dicono che la vita di un reporter è piena di colpi di scena!».
Abigail ridacchiò, scuotendo mestamente il capo. Quindi disse: «Io stavo andando a fare colazione. Ti unisci a me?».
«Mi sono già fermato strada facendo, ma ti accompagno volentieri». Baqi si spostò dietro la sua carrozzina e sogghignò, chinandosi accanto al suo orecchio per sussurrare: «Potrei anche approfittarne per farti un paio di domande».
«Giuro che sono innocente!», affermò lei, portandosi una mano sul cuore.
Il ragazzo le passò affettuosamente una mano sulla testa. «Lo so, piccola. E come mio informatore, la tua identità rimarrà segreta».
Abby a quel punto capì che non stava più scherzando, ma non aggiunse altro fino a quando non furono in mensa. Una volta con la colazione davanti al naso, lo fissò con entrambe le sopracciglia inarcate.
«Quindi… su che cosa stai indagando, precisamente?».
Baqi si guardò intorno con fare circospetto, dopodiché infilò una mano nella sua inseparabile borsa a tracolla e tirò fuori un sottile PC portatile, quello che usava sia per lavoro che per svago.
«Devi giurarmi che quello che ti dirò rimarrà confidenziale».
«Parola di Giovane Marmotta», promise, mettendo da parte la tazza di latte caldo con i cereali.
«E va bene». Baqi sospirò e girò lo schermo del computer verso di lei, mostrandole la foto di un ragazzo dai capelli neri e gli occhi azzurri in procinto di salire su una volante della polizia. «Il suo nome è Emrys, o Merlino, ancora non ho capito bene. Lo conosci?».
Abby gettò un’occhiata al pakistano, poi tornò a fissare la fotografia: non c’erano dubbi, si trattava al cento percento del loro Merlino, ma perché stava per salire su un’auto della polizia? E, soprattutto, perché Baqi stava indagando su di lui?
«Abigail? Rispondimi», la esortò quest’ultimo, impaziente.
La ragazzina, messa alle strette, prese la decisione che le suggeriva il cuore.
Scrollò le spalle e con le labbra arricciate in una smorfia rispose: «No, non lo conosco».
Il pakistano non sembrò convinto e gettandole uno sguardo quasi derisorio premette la freccetta per passare ad un’altra foto, poco nitida a causa dello zoom ma con lo stesso protagonista: quella volta Merlino si trovava proprio in quello stesso ospedale.
«E non l’hai nemmeno mai visto?».
«Vedere e conoscere sono due cose ben diverse», precisò Abigail. «Tu mi hai chiesto se lo conoscevo, prima».
«E ora ti chiedo se l’hai mai visto da queste parti».
«Sì, è probabile che io l’abbia visto da qualche parte. Quindi?».
A quelle parole Baqi sorrise così tanto da sembrare la versione bollywoodiana di Joker.
«Devo sapere assolutamente se è ancora qui, o in alternativa devo trovare qualcuno che lo conosce. La proprietaria di quella caffetteria sa chi è, ne sono sicuro, ma non ha più voluto dirmi niente dopo che quell’agente di polizia mi ha chiesto chi fossi e perché facessi tutte quelle domande. Devo assolutamente rintracciarlo e parlare con lui. Non so se mi spiego, Abby, ma questa potrebbe essere la grande occasione della mia vita!».
«No, non ti sei per nulla spiegato», borbottò, preoccupata per Merlino e allo stesso tempo felice per l’emozione di Baqi, che aveva sempre considerato una specie di fratello maggiore.
Gli prese le mani tra le sue e le strinse più forte che poté, incrociando il suo sguardo eccitato. «Ti vuoi calmare? Perché questo ragazzo è così importante? Che cos’avrà mai fatto!?».
«Oh, non puoi nemmeno immaginare Abby…». Girò rapidamente lo schermo del computer verso di sé e smanettò un po’, fino a quando non le mostrò l’ennesima fotografia.
«Che cos’è?», chiese la ragazzina, avvicinando di più il viso allo schermo.
«Una foto scattata nel 1935. L’edificio sullo sfondo è un ospedale, all’epoca uno dei più grandi di tutto il Galles. È stato completamente distrutto nella Seconda Guerra Mondiale, a causa dei bombardamenti, e indovina un po’? Era proprio qui».
«Qui… nel senso che camminiamo sopra le sue ceneri?», balbettò Abby, con gli occhi sgranati.
Baqi annuì, nuovamente eccitato come un bambino. «Ho fatto le mie ricerche. Al tempo era l’unico edificio della zona, immerso nella campagna e nel silenzio, perciò nessuno pensava che sarebbe stato colpito. A quanto pare però è successo e ci sono voluti anni, prima che qualcuno decidesse di stabilirsi qui in pianta stabile. I primi furono i cari delle persone morte – dei dottori, delle infermiere, dei pazienti che non avevano avuto scampo. È nato così, questo piccolo paese. Poi con la ripresa economica gran parte della nuova generazione si è trasferita di nuovo nelle città e qui non è rimasto nessuno in grado di testimoniare ciò che è accaduto. Nessuno a parte una persona, se non sono impazzito del tutto».
Baqi cliccò più volte sullo zoom, fino a rendere la foto sgranata, ed indicò con la freccetta un viso che Abigail riconobbe con un tuffo al cuore. Del tutto assorbita da quel racconto, si era quasi dimenticata di Merlino.
In posa assieme a decine di altri dottori ed infermiere c’era proprio lui, con indosso il camice bianco e lo stesso sorriso innamorato che gli aveva visto rivolgere ad Alex tante e tante volte. Aveva le mani posate sopra le spalle di una giovane infermiera, in piedi di fronte a lui, e guardandola in viso Abby scorse qualcosa di familiare in lei, tanto che una strana sensazione le strinse lo stomaco, assieme alla nausea.
«Beh… la somiglianza è notevole», disse con poca voce, tossicchiando.
Baqi aprì la bocca per manifestare tutta la propria indignazione, ma Abigail non gliene diede il tempo, indicando col dito proprio la donna di fronte al gemello di Merlino: «Lei invece chi è? Lo sai?».
Il ragazzo allungò il collo per capire chi stesse indicando, poi sorrise guardandola negli occhi. «Somiglia alla signora Chapman da giovane, non è vero?».
«Sì, ma nonna non era ancora nata nel ’trentacinque».
«Infatti non è lei, ma sua madre. Quella è la tua bisnonna, Louise McTrusty. La fotografia apparteneva a lei».
Abby rimase a fissare lo schermo del laptop con gli occhi spalancati ancora per qualche istante, poi lo chiuse bruscamente, scatenando le ire di Baqi, e si allontanò spingendo velocemente le ruote della propria sedia a rotelle.
«Ehi, ma dove vai?!», urlò il ragazzo, scioccato.
Lei non gli rispose, non si voltò nemmeno. Ignorò persino Mark quando lo incrociò lungo il corridoio, troppo concentrata a sistemare i pezzi del puzzle che al momento possedeva e che le vorticavano furiosamente nella testa.
Louise. Merlino aveva nominato una certa Louise, qualche settimana prima. Che si riferisse proprio alla sua bisnonna?
Si chiuse in camera sua e con la sedia a rotelle si fermò accanto al letto per poter incrociare le braccia sul materasso, nasconderci dentro la testa e riposare ad occhi chiusi, aspettando che le passasse l’affanno e i battiti del suo cuore tornassero regolari. Ma non accadde tanto presto.

***

In quei giorni gli ospiti dell’agriturismo erano più del solito, perciò i signori Morris avevano deciso di aprire la sala ristorante anche per la colazione.
Seduta ad uno dei tanti tavoli rotondi, Hala si guardava intorno mentre aspettava che la signora Chapman tornasse dal bagno.
Si sentiva ancora terribilmente in colpa per non aver detto la verità a suo fratello, ma continuava a ripetersi che in fondo nemmeno lei sapeva quale fosse, la verità. Insomma, aveva visto il ragazzo della fotografia e – diamine – era davvero identico anche a quella scattata nel 1935, ma non aveva niente per dimostrare che fossero la stessa persona.
Se l’avesse detto a Baqi se lo sarebbe trovato tra i piedi quella mattina stessa, pronto a documentare ogni cosa. Almeno così avrebbe avuto un po’ di tempo per fare le sue indagini – discrete, razionali e senza alcuno scopo di lucro.
La nonna di Abigail aveva detto al ragazzo immortale che si sarebbero visti quella mattina e Hala l’aveva cercato con lo sguardo da quando era uscita dalla propria stanza, ma di lui ancora nessuna traccia. Che avesse sentito puzza di guai e se la fosse filata? Ecco, stava iniziando a pensare come Baqi.
Si era appena portata la tazza di tè alle labbra, decisa a non pensarci più, quando Rebecca, la receptionist nonché figlia del proprietario dell’agriturismo, riportò a galla l’argomento.
«Insomma papà, non è possibile che Merlino e Artù vengano a lavorare quando fa più comodo a loro! Adesso come faccio con gli ospiti della 103?».
Hala si sporse un po’ di più verso l’ingresso della sala ristorante e scorse Rebecca e il signor Morris l’uno di fronte all’altra nel salotto. La ragazza sembrava furiosa, col viso paonazzo e le mani che non facevano altro che gesticolare mentre parlava, mentre l’uomo, dall’espressione bonaria, la guardava negli occhi con tranquillità.  
Quando la figlia smise di agitarsi, le posò le mani sulle spalle e le accarezzò teneramente le braccia, sorridendo.
«Tesoro, devi davvero mettere una pietra sopra Artù: ho visto la sua attuale ragazza e fidati, tu non sei il suo tipo».
«Papà!».
«Ad ogni modo, non è vero che vengono quando fa più comodo a loro: questa mattina Merlino mi ha chiamato e mi ha chiesto di poter anticipare ad oggi il loro riposo. Ho risposto che non c’era problema, dato che oggi non abbiamo scolaresche in programma e gli ospiti della 103 non avevano ancora intasato il cesso con Dio solo sa cosa».
Il signor Morris le rivolse un altro sorriso, quella volta soddisfatto, e le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Ci penserò io più tardi, tesoro. Non ti preoccupare».  
Rebecca sbuffò e tornò dietro il bancone della reception. Il signor Morris invece ridacchiò e scuotendo il capo entrò nella sala ristorante, dove Hala chinò di nuovo il capo verso il proprio tè.
In quel momento la signora Chapman tornò a sedersi al suo fianco e sorrise all’uomo, il quale si fermò accanto al loro tavolo.
«Allora, come andiamo? Avete dormito bene questa notte?».
«Certamente Abraham, come sempre!», esclamò la signora Chapman, tutta contenta.
Hala avrebbe voluto dire che quello stupido gallo l’aveva svegliata proprio quando era riuscita a far tacere tutti i pensieri che le affollavano la mente e ad addormentarsi, ma rimase in silenzio, annuendo con un cenno del capo.
«Tra poco vado giù in paese a sbrigare delle commissioni», disse ancora il proprietario dell’agriturismo, «volete che vi accompagni all’ospedale?».
La nonna di Abigail sorrise, prendendogli una mano tra le sue. «Oh, sarebbe gentilissimo da parte tua».
L’uomo ricambiò affettuosamente, piegandosi per un baciamano, ma sua moglie glielo impedì, gridando dall’altra parte della sala: «Per l’amor del cielo, Abraham, lascia in pace la signora Chapman!».
Il signor Morris rise di cuore e gettò un’occhiata a Wanda, per poi sussurrare: «È tanto gelosa, dovete scusarla».
«Ah, lo ero anche io col mio caro marito! Diventavo davvero insopportabile».
Abraham annuì, prima di congedarsi. «A più tardi allora».
Hala ricambiò il saluto con un cenno della mano, poi tornò a spezzettare con la forchetta il proprio waffle.
«C’è qualcosa che non va, cara? Mi sembri pensierosa».
Hala guardò la signora Chapman con la coda dell’occhio, rivolgendole il primo piccolo sorriso della giornata.
Quando sua zia le aveva detto che una signora che conosceva aveva bisogno di una colf e le aveva dato il suo indirizzo, mai e poi mai Hala si sarebbe immaginata che quella stessa signora sarebbe diventata come una madre per lei. Non solo le aveva dato un lavoro, ma aveva accolto lei e suo fratello in casa sua, aveva dato loro del cibo con cui sfamarsi e quando Hala aveva bisogno di sfogarsi o di qualche consiglio lei c’era sempre.
«Vuole la verità?», rispose alla fine. «La verità è che continuo a pensare a quel Merlino».
La signora Chapman gettò un’occhiata verso il soffitto, come se stesse soppesando le sue parole; quindi abbozzò un sorriso. «Beh, devo ammettere che oltre ad avere un cuore d’oro è anche un bel giovanotto».
Hala finse di essersi presa una cotta per lui e con le mani sotto al mento chiese: «Mi parli un po’ di lui. Da quanto lo conosce?».
«Vediamo un po’… Da quando Abby è stata ricoverata in ospedale per la prima volta, sì». Si tolse gli occhiali dal viso e morse la punta di un’astina, cercando le parole adatte per descriverlo. «È un ragazzo sorridente, dolce, che si è sempre preso cura dei bambini ricoverati ad oncologia. Molto spesso legge loro delle favole ambientate a Camelot, con Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda. E ha lavorato per molto tempo alla caffetteria della signora Begum, quella non lontana dall’ospedale».
La ragazza rimase in attesa, ma la signora Chapman scrollò le spalle, dicendo: «È tutto, credo».
«Che cosa? Davvero non sa nient’altro della sua vita privata?».
«Che ti posso dire… è sempre stato un tipo riservato». Sorrise, posando una mano rugosa sulla sua. «Ma se vuoi il consiglio di una povera vecchia, non è bene sapere subito tutto di un uomo: si perde l’interesse».
Hala si sforzò di ricambiare il sorriso, mentre dentro di sé non faceva altro che imprecare, chiedendosi come diavolo facesse Baqi a non perdere mai la speranza.

***

«Quindi... questo bracciale è in grado di contenere il flusso magico», ricapitolò Alex, sfiorandone le incisioni floreali.
Merlino si gettò una rapida occhiata alle spalle, verso le porte vetrate che davano sulla cucina, per accertarsi che Artù non fosse nei paraggi; quindi le prese il polso tra le mani e lo accarezzò con dolcezza prima di baciarne l’interno pallido, da cui si poteva seguire il corso di alcune vene bluastre.
«Proprio così», confermò. «Mi dispiace di aver agito alle tue spalle, dico davvero».
Alex lo guardò severamente, con un sopracciglio inarcato, e se avesse avuto uno specchio a portata di mano avrebbe riso di sé, perché era identica ad Artù.
«Ti ho già detto che non ti devi scusare. Certo, avrei preferito che non mi dicessi che apparteneva ad una principessa bella e buona di cuore, ma...».
«Non me lo sono inventato».
L’infermiera non riuscì a nascondere la delusione, fu più forte di lei. Pensava che glielo avesse detto per rendere quell’oggetto ancora più speciale, per assicurarsi che non se lo togliesse mai... Non avrebbe mai pensato che Merlino lo riciclasse in quel modo, specialmente se la principessa di cui parlava aveva avuto un ruolo importante nella sua vita a Camelot.
«Apparteneva a Morgana, la sorellastra di Artù», aggiunse il mago dopo qualche secondo di silenzio, tenendo gli occhi bassi sui gradini in legno della veranda, dov’erano seduti. «Anche lei aveva il dono».
«Lo so, Artù me ne ha parlato».
Merlino annuì, deglutendo. «Lei… era la persona più gentile e generosa che conoscessi a Camelot, insieme a Ginevra. Pensa che una volta è persino scesa in battaglia al mio fianco, per proteggere il mio villaggio natale. È stata… fenomenale». Abbozzò un sorriso e si strofinò gli occhi improvvisamente umidi di lacrime.
Alex non poté mostrare indifferenza di fronte a quei ricordi e si avvicinò un po’ di più al suo fianco, stringendo più forte la sua mano.
Nonostante le facesse male pensare che Merlino avesse amato altre donne prima di lei, comprendeva di non poter competere col passato: oltre che stupido, era ingiusto nei suoi confronti.
«Quando ho scoperto che Morgana possedeva il mio stesso dono ho pensato di aver trovato la mia anima gemella, qualcuno con cui potevo essere liberamente me stesso… Ma il destino ci ha sempre remato contro. Non ho potuto aiutarla come avrei dovuto, o forse sono io che non l’ho mai voluto davvero. La magia l’ha cambiata, l’ha resa una persona rancorosa, assetata di potere e di vendetta. Ed è per questo che non volevo che tu ne entrassi in contatto. Anche adesso, faccio sempre questi sogni in cui tu…», si interruppe, coprendosi il volto con le mani.
«Io che cosa?», lo incitò a continuare, col cuore che le batteva forte nel petto.
«La mia paura più grande è che la magia ti trasformi in ciò che non sei, Alex. Ho paura che la storia di Morgana si ripeta».
L’infermiera gli passò una mano tra i capelli, avvicinandosi quel tanto che bastava per baciargli lo zigomo e sussurrare: «Non succederà».
«No, non lo permetterò», esclamò Merlino, guardandola negli occhi per la prima volta. «Per questo ti insegnerò a controllarla. Insieme riusciremo a cambiare il destino. Proveremo a salvare il mondo se lo vuoi, ma alle nostre condizioni».
«Conta su di me».
Lo stregone le sorrise e in uno slancio d’emozione le prese il viso tra le mani per baciarla, ma fu interrotto da Artù, il quale aprì di scatto le porte finestre e rimase con la bocca spalancata, le parole che voleva dire incastrate in gola.
«Le stavo controllando un occhio», inventò subito una scusa Merlino, avvicinandosi di nuovo al viso di Alex per fissare da vicino la sua iride destra. «Dev’esserle entrato un moscerino, vedete?».
Artù parve bersela, anche se col naso arricciato, e disse: «Freya si è svegliata e vuole parlare con te».
Merlino e Alex si alzarono contemporaneamente, pronti a rientrare in casa, ma l’infermiera venne bloccata da un’occhiata e dal braccio di Artù, il quale poi tornò a posare gli occhi sul mago.
«Da sola», aggiunse con una smorfia sul viso, quella volta di disappunto.
Merlino sospirò lievemente prima di passargli accanto e sparire in salotto.
L’infermiera, rimasta con Artù e Cathleen, la quale li aveva raggiunti subito dopo aver lasciato soli Freya e Merlino, tornò a sedersi sul gradino più alto, la schiena contro il pilastro di legno e una gamba stretta al petto.
«Che faccia scura che hai. È successo qualcosa?», le domandò Cathleen, sedendosi al fianco di Artù, beato tra le donne.
«Merlino mi ha raccontato di Morgana», confessò dopo un attimo di esitazione, rigirandosi il bracciale intorno al polso.
Artù scrollò le spalle, gli occhi rivolti verso il cielo annuvolato. «È sempre stata fuori dalla sua portata».
«No, invece», ribatté aspramente. «Merlino aveva ogni diritto di essere felice, lo ha tutt’ora. Solo lui si è accorto del dolore di Morgana, del suo sentirsi diversa, rinnegata… e ha provato fino all’ultimo ad aiutarla, ne sono sicura».
«Sì, è così. Ma Morgana si è spinta troppo oltre, era irrecuperabile. E Merlino ha fatto ciò che doveva».
Un brivido freddo la percorse da capo a piedi, sotto gli occhi fieri dell’antenato. Non avrebbe voluto fare quella domanda, sperava che Artù decidesse di tenerla all’oscuro di quella parte del loro passato, ma la verità era che aveva assolutamente bisogno di sapere che cosa Merlino non voleva che si ripetesse.
«Che cos’ha fatto?».
All’improvviso gli occhi di Artù si adombrarono e si fissarono su un punto oltre la sua spalla, la sua espressione si fece stanchissima, disperata e rassegnata. Stava rivivendo quel momento e Alex poteva vedere il riflesso di un Merlino che non conosceva nel suo sguardo.
«L’ha uccisa», mormorò alla fine, come se l’avesse realizzato per la prima volta. «Con Excalibur».
Alex sentì le poche cose che aveva ancora nello stomaco risalirle lungo l’esofago, ma riuscì a trattenersi traendo alcuni respiri profondi.
Merlino aveva paura che cambiasse in modo irrecuperabile, che si trasformasse nello stesso caso disperato che già una volta l’aveva portato ad uccidere la donna che forse, in segreto, non aveva mai smesso di amare. E i sogni a cui aveva accennato… Che gli avessero mostrato la propria morte, magari per mano sua?
«Alex? Ehi, Alex, ti senti bene? Sei pallida come un lenzuolo».
Cathleen, in ginocchio al suo fianco, le stava dando degli schiaffetti sulle guance per riportarla alla realtà.
«Sì, ho… ho solo bisogno di fare due passi», balbettò, sbattendo ripetutamente le palpebre.
Si incamminò verso la tomba di Steve, stringendosi la felpa addosso per proteggersi dal vento freddo residuo del temporale di quella notte. Quindi seguì il percorso del fiumiciattolo, pensando e ripensando a tutto ciò che ancora non sapeva di Merlino e di se stessa: fino a due mesi prima non sapeva nemmeno di avere come antenato il leggendario Artù Pendragon, né che possedesse il dono della magia; chissà che altro ancora le riservava il futuro.
Si imbatté in una piccola pianta che non ricordava di aver mai visto prima e, chinandosi per esaminarne le foglioline, si rese conto che l’arbusto si era sviluppato intorno al pugnale che le aveva regalato Artù, quello che aveva lasciato lì come prova della sfida lanciata ai custodi della magia.
Aveva promesso che avrebbe cambiato il destino di Merlino e Artù, ma ora le cose si erano un tantino complicate: come poteva pensare di cambiare il loro destino, se la prima persona contro cui doveva combattere e da cui doveva difendersi era se stessa?

***

Merlino scambiò un rapido sorriso con Cathleen sulla soglia della cucina e fece per superarla, quando lei lo prese per un braccio e lo guardò dritto negli occhi.
«Senza di lei in questo momento Artù sarebbe morto, perciò... vacci piano».
Lo stregone le diede la propria parola, senza rivelarle che temeva che Freya avesse avuto in mente un qualche secondo fine quando aveva deciso di salvare Artù invece di approfittare della situazione per scappare indisturbata con Excalibur.
Raggiunse la custode del lago, seduta sul divano con una tazza di tè caldo tra le mani, e si sedette sul tavolino basso.
«Ciao», lo salutò dolcemente, soffiando sulla bevanda fumante.
Merlino si sforzò di ricordare l’amore bruciante che provava per lei, per il quale avrebbe persino lasciato Camelot – avrebbe lasciato Artù – per iniziare una nuova vita al suo fianco. Per quanto si impegnasse, in quel momento vederla gli faceva soltanto provare rammarico e delusione: anche lei, esattamente come Morgana, aveva abbracciato delle idee che non erano sue ed era scesa in una battaglia a cui non avrebbe dovuto prendere parte.
«Non sarebbe dovuta finire così», sospirò.
«No davvero», rispose Freya, ignara di ciò a cui lui si riferisse. «Hai commesso così tanti errori, Merlino... Il più grande con le Disir».
«Il passato me lo sono lasciato alle spalle, ormai. Dimmi come hai fatto ad uscire da Avalon».
«Come ho fatto? Ah, questa è bella». Ridacchiò, mettendosi seduta a gambe incrociate. «Perché non lo chiedi all’ultima Pendragon? Tutto quello che so è che stavo risparmiando le energie quando sono stata travolta da un flusso magico potentissimo. Ho aperto gli occhi ed ero di nuovo io, affamata ed infreddolita e con indosso l’abito che avevi rubato a Morgana. Ti ricordi? È stato così stupido...».
«Stai dicendo che non le hai chiesto tu di ritornare?».
«Certo che no! Se avessi creduto che una cosa del genere fosse possibile avrei cercato di tornare libera secoli fa! E poi...», si sporse verso di lui per accarezzargli una mano e Merlino non si mosse, nonostante sapesse che scansarsi sarebbe stata la cosa giusta da fare. «L’ultima volta mi hai minacciata, dicendomi che se avessi provato a contattarla me l’avresti fatta pagare cara. Come avrei potuto sottovalutarti? Dopotutto sei ancora lo stregone più potente di tutti i tempi».
Le sue parole adulatrici non lo impressionavano, come moltissime cose dopo più di millequattrocento anni di vita, perciò non dovette nemmeno fingere di ignorarle.
Con la risolutezza e la precisione di un cecchino continuò con la propria sfilza di domande: «Per quanto riguarda Excalibur? Perché la stavi rubando ad Alex?».
«Non la stavo rubando! La stavo proteggendo!», sbottò e si allontanò rapidamente da lui, offesa dalle sue insinuazioni.
Merlino le rivolse un’occhiata perplessa. «Proteggendo da chi?».
«Da voi!», urlò. «Tu e Artù ormai siete solo un pallido riflesso di ciò che eravate a Camelot, e avete espresso abbastanza bene la vostra posizione riguardo alla salvezza di questo mondo. Excalibur l’ha scelta, ha lasciato che la sua mano la raccogliesse dal fondo del lago: questo vorrà pur dire qualcosa per te!».
Lo stregone deviò il suo sguardo, mordendosi le labbra.
«Alexandra è il futuro, è colei che spezzerà la tua maledizione e riporterà la magia sulla Terra, non importa a quale prezzo», aggiunse in tono suadente. «Lo sai anche tu, Merlino… Non mentire a te stesso».
Scioccato com’era, il mago non sentì nemmeno il campanello. Fu Cathleen, ad un certo punto, a correre verso l’ingresso e a guardare attraverso lo spioncino.
«È l’agente Fisher», esclamò a bassa voce il paramedico, lanciando un’occhiata preoccupata allo stregone.
Quella notte avevano davvero rischiato grosso. Non si erano incrociati per pura fortuna, sia mentre Cathleen e Artù rincorrevano Freya nel bosco sia mentre tornavano verso l’auto, con Excalibur e la custode di Avalon. Poi era arrivato Merlino in loro aiuto: era apparso alle loro spalle, impedendo loro di farsi scoprire da Darrell, e insieme, nascosti dietro la vegetazione, avevano aspettato che il poliziotto si allontanasse sulla propria volante.
Quindi lo stregone aveva preso Freya fra le braccia, dicendo che sarebbe stato più sicuro evitare di passare davanti ai vicini di casa di Alex con una ragazza svenuta tra le braccia, ed era tornato nel fitto del bosco, fino al punto in cui aveva lasciato la sua auto quando aveva capito che non era il caso di farsi vedere nei paraggi ancor prima che Alex fosse informata di ciò che era successo.
Una Freya nervosa lo riportò al presente, affrettandosi ad alzarsi con la coperta ancora avvolta intorno alle spalle. «Devo nascondermi. Darrell non può trovarmi qui, si insospettirebbe».
Merlino sgranò gli occhi. «Lo conosci?».
«Dove credi che sia stata, in queste due settimane?», gli chiese roteando gli occhi al cielo. «Dovevo per forza sperare nell’aiuto di qualcuno e lui è stato il primo che ho incontrato».
«Okay, fare il detective non è il mio mestiere», ammise Cathleen, rassegnata di fronte all’evidenza. All’insistenza del poliziotto, sussurrò ancora: «Cosa faccio, gli apro oppure no?».
La custode di Avalon, dopo un silenzioso cenno di Merlino, annuì e corse su per le scale con le sue scarpe strette al petto.
Una volta lontana, lo stregone raggiunse Cathleen e le fece segno di tornare da Artù ed Alex per avvisarli del loro ospite inatteso.
«Mi raccomando, qualsiasi cosa succeda non fatevi vedere», esclamò e dopo aver ricevuto l’ennesimo cenno d’assenso aprì la porta.
«Darrell, che sorpresa! Scusami per l’attesa, ma ero in bagno».
L’agente abbozzò un sorriso, scrollando le spalle. «Non c’è problema. Come va?».
Merlino si fece da parte per farlo entrare e richiuse la porta dietro di sé. «Bene, tu? Hai fatto il turno di notte?».
«Si nota così tanto?», gli domandò, ridendo lui stesso del proprio pessimo aspetto. «Posso?».
«Accomodati pure».
Darrell si lasciò cadere sulla poltrona più vicina a lui e sospirò, chiudendo gli occhi al soffitto. Merlino, in piedi a qualche metro di distanza, si infilò le mani nelle tasche, a disagio.
«Ho saputo dell’effrazione a casa di Alex», esordì. «Sei venuto qui per questo?».
L’agente Fisher riaprì di scatto gli occhi, per poi strofinarseli con due dita.  «Come? No, non esattamente. Il fatto è che mi sembra di impazzire e speravo che tu potessi rassicurarmi in questo senso, visto che…».
«Che ho a che fare con Artù tutti i giorni?», rise sedendosi sul divano, obliquamente a lui. «Avanti, sputa il rospo».
Darrell si sedette in maniera più composta, con i gomiti posati sulle ginocchia e le mani unite quasi a mo’ di preghiera.
«Okay», sospirò, quasi per farsi coraggio. «Ti ricordi quando quella ragazza dai capelli rossi…».
«Cathleen».
«…mi ha chiesto se avessi visto qualcosa di sospetto nei pressi del lago?».
«Sì, mi ricordo. E dunque?».
«Beh, ho mentito. So che come tutore della legge dovrei dare il buon esempio, ma… stavo proteggendo una persona».
Lo stregone iniziò ad unire i puntini, ma rimase in silenzio e fece finta di non aver capito, corrugando la fronte. Il poliziotto esitò per un paio di istanti prima di riprendere con la propria confessione:
«Due settimane fa, nei pressi del mio condominio ho visto una ragazza: era disorientata, infreddolita, affamata, e addosso aveva un vestito che sembrava essere uscito direttamente dal guardaroba delle principesse Disney. Senza pensarci su due volte le ho offerto la mia ospitalità. Ho provato a chiederle perché si trovasse lì e che cosa le fosse successo, ma mi ha detto che non ricordava nulla a parte il suo nome: Freya».
«Potrebbe essere stata rapita e aver rimosso i ricordi a causa del trauma. L’ho letto su una rivista», provò a ipotizzare Merlino, continuando con la propria facciata. «L’hai portata all’ospedale per un controllo?».
«Ci ho provato. Dio se ci ho provato! Ma ogni volta che provavo a farla uscire di casa iniziava ad urlare e a piangere e non ci sono riuscito. Non ha nemmeno voluto che le scattassi una foto per cercare un confronto nell’elenco delle persone scomparse. Sono riuscito però a raccogliere un campione del suo DNA – dei capelli dalla spazzola – e l’ho inviato ad un mio collega di Newport perché lo analizzasse per me. Mi doveva un favore».
«E?», lo spronò a continuare Merlino, sporgendosi un po’ di più verso di lui.
Darrell si colpì le ginocchia con le mani, sbuffando. «E niente: non è in nessun database».
«Okay, hai una bella gatta da pelare. Come posso aiutarti?».
«Aspetta, non hai sentito ancora la parte migliore!», esclamò l’agente, ridendo nervosamente. «Questa mattina torno dal turno, stanco morto e con un mezzo raffreddore, e indovina? Lei non c’era. L’ho cercata ovunque, ho persino controllato se fosse stata ricoverata in ospedale, ma è stato un enorme buco nell’acqua. È come se fosse scomparsa, Merlino».
Il mago si appoggiò allo schienale del divano, le braccia incrociate al petto. «Avrà finalmente deciso di uscire, di prendere un po’ d’aria fresca».
«Uscendo dalla finestra del bagno e lasciandosi dietro le impronte di un leone geneticamente modificato? E poi è successo quello che è successo a casa di Alexandra e non ho idea di che cosa sia quello strano aggeggio che ho trovato nel bosco… Ho la sensazione che sia tutto collegato, ma non so come».
Merlino si irrigidì e poi sollevò un angolo della bocca in un sorriso sornione. «Aspetta un momento, non credo di aver capito… Che impronte?».
Darrell, serissimo in volto, infilò una mano nella tasca del giubbotto che aveva ancora addosso e gli mostrò le foto che aveva scattato col proprio smartphone: non c’erano dubbi, erano proprio impronte degne di un Bastet.
«Ho detto a Cathleen di non credere nel soprannaturale, ma questo… è da pazzi. Dimmi che non lo sono, ti prego».
Merlino sollevò gli occhi in quelli dell’agente di polizia e cercò di pensare ad una scusa convincente, senza ovviamente trovarne nessuna all’altezza della situazione. Alla fine posò una mano sulla sua spalla e sorrise divertito, esclamando: «Le foto possono essere ingannevoli: la prospettiva, la luce… La tua gatta da pelare non può essere così grossa».
«Stai dicendo che mi sto inventando tutto?», esclamò Darrell, infastidito.
Merlino si alzò e lo invitò a fare lo stesso, dandogli qualche pacca rassicurante sulla schiena. «Sto semplicemente dicendo che forse ti stai lasciando condizionare da quello che ha detto Cath… e che hai bisogno di dormire un po’».
«Ma Freya –?!».
«Sono sicuro che tornerà prima che te ne renda conto», aggiunse, spingendolo verso l’ingresso. «Magari in questo momento è già a casa e si starà chiedendo dove sei finito».
Darrell puntò i piedi sull’uscio e si voltò per fissarlo col suo miglior sguardo inquisitorio. «Come mai tutto d’un tratto vuoi che me ne vada? C’è qualcos’altro che vorresti dirmi, Merlino? Perché se è così sputa il rospo».
«No, assolutamente! È che ho una marea di cose da fare e…». Sospirò, passandosi una mano sulla nuca, e alla fine ammise: «Artù sta avendo una delle sue giornate no e non posso davvero lasciarlo solo troppo a lungo, mi dispiace».
Il viso di Darrell si ammorbidì e agitando una mano come a voler scacciare via qualsiasi altro sospetto gli avesse attraversato la mente, disse: «Scusami tu, non avrei dovuto gettarti addosso tutte le mie paranoie: non gestisci una casa di cura, dopotutto».
«Però potrei prendere l’idea in considerazione, no?».
L’agente Fisher rise, dandogli una pacca sul braccio. «Sarei il tuo primo paziente. Ci vediamo in giro».
Merlino annuì e stava già per rientrare in casa, quando Darrell attirò di nuovo la sua attenzione.
«Ti dice niente il nome Emrys?».
Lo stregone scrollò le spalle, mostrandosi con un grosso punto interrogativo in faccia. «No, dovrebbe?».
«Non so. Questa mattina dalla signora Begum mi sono imbattuto in un tizio che cercava questo Emrys e che poi ha fatto il tuo nome», gli disse, continuando a camminare all’indietro verso l’auto. «Un certo Baqi».
«Non ho idea di chi sia».
«Lo immaginavo. Aveva il tesserino di un piccolo giornale e ha detto che sta conducendo un’indagine privata, ma non ha voluto rivelarmi altro per paura che gli rubassi lo scoop». Scosse il capo, trattenendo a stento una risata. «Penso davvero che qui faresti soldi a palate con quella casa di cura».
Merlino ricambiò il saluto sollevando una mano e finalmente si precipitò all’interno. Trovò Artù, Alex e Cathleen seduti in veranda, in silenzio.
«Allora, che cosa voleva Darrell?», gli chiese subito il paramedico.
«Non c’è tempo per le spiegazioni». Gettò una rapida occhiata ad Alex e sospirando aggiunse: «Devo andare via con Freya, ci impiegherò mezz’ora al massimo».
Il re di Camelot, vagamente preoccupato, si alzò perché i loro occhi fossero allo stesso livello. «Perché? Che cos’è successo?».
«Perché non mi avete avvisato che era ancora in grado di trasformarsi in Bastet?!», urlò in risposta Merlino, adirato.
«Grazie al cielo, pensavo di essermelo immaginato», sospirò di sollievo Cathleen, abbandonando il capo contro il pilastro di legno.
Merlino la ignorò, esattamente come fece con lo sguardo incredulo di Alex, e continuò: «Darrell ha trovato delle orme di felino dietro casa sua – le ha fotografate! – e devo risolvere la situazione prima che esploda tra le nostre mani».
Artù lo afferrò per un braccio prima che gli desse definitivamente le spalle. «Puoi scordartelo che ti lasci andare da solo con lei. È pericolosa!».
«Come Cath mi ha fatto notare, lei vi ha salvato la vita, nonostante quindici secoli fa proprio voi l’abbiate uccisa ingiustamente», rispose Merlino, rivolgendogli un sorriso macchiato dal rammarico. «Le dovete una seconda chance».
Artù, ferito e al contempo offeso dalle sue parole, lo lasciò andare bruscamente. Lo stregone non si voltò indietro e una volta al piano superiore trovò Freya in camera sua, seduta sul suo letto ed immersa nella lettura di un classico della letteratura inglese. Non appena si accorse di lui chiuse il libro e si alzò, inciampando in un lembo della coperta e cadendo dritta  tra le sue braccia.
Merlino sentì un brivido percorrergli la schiena sentendo il suo corpo contro il proprio, un brivido talmente forte da far riaffiorare un po’ di quell’amore quasi adolescenziale che pensava di aver dimenticato e superato.
Si schiarì la gola e l’aiutò a rimettersi in piedi, per poi esclamare perentorio: «Dobbiamo andare».
«Dove? Si tratta di Darrell? Che cosa ti ha detto?».
«Ti spiego strada facendo, non abbiamo molto tempo».
Merlino la prese per mano e ancora una volta provò una stretta allo stomaco – sensi di colpa? – che prontamente ignorò.

***

«Che cosa diavolo intendeva dire Merlino?».
Artù cercò di ignorare Cathleen, lo sguardo fisso sull’anello con lo stemma regale e legato ad una catenina d’argento che Alex si stava nervosamente rigirando tra le dita. Il paramedico però insistette e gli pizzicò il braccio.
«Intendeva dire quello che ha detto», sbottò. «Sono stato io ad uccidere Freya, quando era sotto forma di pantera. Non sapevo che Merlino fosse innamorato di lei, non sapevo che volevano lasciare Camelot per cercare di curare la maledizione e vivere insieme. All’epoca non sapevo niente di lui».
Cathleen sospirò, accarezzandogli la schiena. «Sono sicura che non voleva rinfacciarti nulla; era troppo concentrato sulla missione e non ha pensato a cosa diceva».
«No, sono contento che si sia sfogato. È da quando l’ho saputo che avevo un peso sullo stomaco».
Cathleen abbozzò un sorriso che scomparve non appena lesse l’ora sul proprio orologio da polso. «Sarà meglio che vada a casa a riposare un po’: sono di turno oggi pomeriggio».
«Va bene, ci sentiamo più tardi». Artù si sforzò di sorriderle prima di prenderle il volto tra le mani e posarle un bacio sulla fronte.
«Ciao», la salutò ancora una volta prima che sparisse oltre le porte vetrate, quindi abbassò di nuovo gli occhi su Alex e respirando profondamente si sedette al suo fianco.
La osservò per un po’, in silenzio, fino a rendersi conto che quando era concentrata o immersa nei propri ragionamenti aveva la sua stessa espressione seria e risoluta.
«A che cosa stai pensando?».
«Non sapevo che Merlino e Freya avessero avuto una storia», mormorò.
Artù si passò una mano tra i capelli per poi massaggiarsi il volto. «Come ho detto prima… nemmeno io lo sapevo. Ma da quello che mi ha mostrato Freya, non hanno avuto modo di stare molto tempo insieme. Merlino l’ha aiutata a scappare dall’uomo che l’aveva catturata e poi l’ha nascosta fino a quando… beh, lo sai».
«Dev’essere stato amore a prima vista, se ha fatto tutto questo per lei», disse ancora, sporgendosi per strappare qualche filo d’erba ed iniziare a giocarci.
«Può darsi», ammise Artù, stringendosi nelle spalle. «Ad ogni modo è successo moltissimo tempo fa, quasi un’eternità. E poi perché dovrebbe interessarti?».
«Infatti non mi interessa», ribatté Alex con determinazione, ma non riuscì a celare il rossore che le infiammò il volto.
Il re di Camelot, notandolo, storse il naso, combattuto: ancora una volta non sapeva se rassicurarla sull’amore di Merlino oppure tentare di convincerla del fatto che poteva puntare più in alto. Pensandoci bene però, ora che Freya era tornata nell’equazione, in carne ed ossa per giunta, non era certo al cento percento che Merlino non si sarebbe fatto trascinare dalla nostalgia. Quello che sapeva per certo era che se Alex avesse sofferto a causa sua, lui gli avrebbe fatto patire il doppio.
«Ehi, posso chiederti una cosa?».
Artù tornò a prestarle attenzione, stupito dal suo improvviso cambio d’espressione: sembrava preoccupata, quasi spaventata, e aveva iniziato a spezzettare i fili d’erba in minuscoli pezzetti.
«Anche tu hai paura che io diventi come Morgana?».
Il re fissò il giardino in tutta la sua ampiezza, alla ricerca delle parole giuste da rivolgerle, ma alla fine fu ancora Alex a parlare, affermando: «Non succederà. Alla fine sarò io a dominare la magia, non il contrario. Non vi deluderò, ve lo prometto».
Si avvicinò a lei di qualche altro centimetro, fino a che le loro spalle e le loro gambe non si toccarono, e poi le accarezzò i capelli sulla nuca, sorridendo dolcemente: «No, non ci deluderai; ne sono certo».
Alex lasciò che anche sulle sue labbra fiorisse un sorriso e per la prima volta incrociò il suo sguardo. «Grazie».
Artù le avvolse un braccio intorno alle spalle e rise, appoggiando la testa alla sua tempia. «Se qualcuno mi avesse detto che sarei risorto dopo millequattrocento anni e che avrei dovuto aiutare l’ultima mia discendente a controllare i suoi poteri magici… l’avrei fatto rinchiudere nelle segrete».
«Non ne dubito», rispose l’infermiera, prima di alzarsi in piedi.
Artù la imitò, con un brivido che gli correva sottopelle. «Dove vai?».
«A casa. Ho fatto il turno di notte, sono esausta. Anche se mi sa che dormirò sul divano, dato che Freya ha fatto proprio un bel disastro in camera mia».
Non sapeva esattamente perché, ma Artù aveva il sospetto che non gli stesse dicendo la verità. Ciononostante ignorò quel presentimento per vedere come sarebbe andata a finire e le sorrise esclamando: «Ma certo, vai a riposarti».
«Mi presteresti la bici di Merlino?».
Il re indicò il vecchio fienile con un cenno del capo e Alex gli stampò un bacio sulla guancia prima di iniziare a scendere i gradini della veranda. Una volta con i piedi sull’erba però si fermò, come se avesse all’improvviso cambiato idea, e scosse il capo.
«Dici che sarebbe un problema se dormissi un po’ qui?», gli domandò quindi, con una smorfia di stanchezza sul viso.
Artù non ci vide proprio nulla di male e scrollò le spalle, offrendole la propria stanza.
«Quella di Merlino andrà benissimo», rifiutò però l’infermiera, gettandosi i capelli dietro la spalla destra.
Lui aggrottò le sopracciglia, accigliato. «Che cos’ha la mia camera che non va?».
«Mi mette a disagio», rispose in tono evasivo e senza aggiungere altro corse all’interno, lasciandolo solo con i propri sospetti.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Era da troppo tempo che quei due gliela facevano sotto il naso ed era giunto il momento di porre la parola fine a quella storia una volta per tutte.
Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina alla televisione e pensò ad un piano per smascherarli, ma finì per rimanere affascinato dalla replica di una puntata di NCIS.

***

Nonostante quello fosse il suo primo viaggio in auto, Freya sembrava calmissima. Con la schiena addossata al finestrino e un ginocchio stretto al petto lo fissava con curiosità, giocando con una ciocca di capelli neri che ad un tratto si portò persino alla bocca.
«Potresti tirare giù il piede dal sedile? La pelle è molto delicata», esclamò Merlino, rompendo quel silenzio imbarazzante.
La custode di Avalon eseguì senza proferir parola, solo accennando un sorriso. Il mago strinse più forte le mani intorno al volante e ad un certo punto, stanco del suo comportamento, sterzò bruscamente in una via chiusa e frenò per poterla guardare dritta negli occhi.
«Che cosa vuoi da me, Freya?».
Il sorriso sul suo volto si allargò, ma sparì non appena gli accarezzò una guancia e si sporse timidamente verso di lui. Ad un soffio dalle sue labbra infatti Merlino si scostò, dicendo tra i denti: «Io non ti amo più, Freya».
«Lo dici perché hai preso un impegno con la Pendragon o perché lo pensi?», gli chiese con un fil di voce, senza allontanarsi di un millimetro dal suo volto: Merlino riusciva ancora a sentire il suo respiro sulla pelle.
«Saresti dovuta rimanere con me quando te l’ho chiesto, adesso è troppo tardi. Siamo due persone diverse».
«Non hai risposto alla domanda».
Lo stregone tornò a fissare gli occhi nei suoi scuri e l’ennesimo brivido dovuto ai ricordi lo attraversò, facendogli serrare i pugni sulle gambe.
«Io amo Alex, la amo più della mia stessa vita. Lei è il mio presente e il mio futuro. Tu, invece, sei il mio passato; un passato da dimenticare».
Freya alzò le mani in segno di resa e si sedette composta sul sedile del passeggero, lo sguardo rivolto verso il parabrezza. «Se ne sei convinto tu…», mormorò, prima di esclamare: «Darrell sarà già arrivato a casa, di questo passo».
Merlino sospirò, sollevato che finalmente avesse abbandonato l’argomento, e mise di nuovo in moto la Pininfarina.

Darrell aveva appena parcheggiato l’auto di fronte al suo condominio, quando Freya e Merlino raggiunsero il lato del bosco visibile dalla finestra del suo bagno.
«Eccole, sono quelle», sussurrò la custode di Avalon, indicando le orme sull’erba a qualche metro da loro.
Il mago abbassò lo sguardo sul tatuaggio druido sul suo braccio e dopo essersi umettato le labbra mormorò: «Speravo che la maledizione fosse scomparsa nel momento della tua morte».
«Infatti è così», lo sorprese Freya, abbozzando un sorriso. «Ora posso decidere io quando trasformarmi. E non ho nemmeno sete di sangue! Figo, non trovi?».
Merlino rimase a bocca aperta, per quella scoperta ma anche perché si rese conto che la custode si stava ambientando al Ventunesimo secolo senza alcuno sforzo apparente.
«Dovremmo concentrarci, ora», fu la sua risposta, tossicchiando e con la fronte aggrottata. «Pronta?».
Freya gli abbassò il braccio che aveva alzato in direzione delle orme e disse, con tono da non voler ammettere repliche: «Faccio io». Respirò profondamente e ad occhi chiusi iniziò a recitare un incantesimo nella lingua dell’Antica Religione, così a bassa voce che Merlino dovette sforzarsi per sentirlo.
Era vero che non usava la magia da secoli ed era arrugginito, ma sentì la potenza di ogni frase scivolargli sotto la pelle e bruciargli il sangue nelle vene, e quando Freya riaprì gli occhi dalle iridi dorate fu come se Merlino avesse appena ricevuto un pugno contro lo sterno, in grado di rubargli il fiato. Cadde seduto dietro un cespuglio, la schiena contro il tronco di un albero. Freya lo imitò poco dopo, quando la magia abbandonò il suo corpo per trasformare le grosse impronte del Bastet in quelle di un innocuo gattino, e abbandonò persino il capo su una spalla, sfinita.
Da quella posizione Merlino scorse Darrell fare il giro del palazzo e fermarsi ad occhi sgranati di fronte a quelle impronte. Le confrontò con le fotografie scattate col proprio cellulare, piegandosi sulle ginocchia, poi si passò una mano tra i ricci biondi, dandosi sottovoce del pazzo.
Udendolo anche Freya ebbe la forza di riaprire gli occhi e ricambiare il sorriso di Merlino, il quale subito se ne pentì e deviò il suo sguardo.
Aspettarono in silenzio che l’agente Fisher sparisse dietro l’angolo, poi svuotarono i polmoni.
«La magia che Alexandra mi ha trasferito si sta esaurendo…», disse ad un tratto la custode di Avalon. «Come Artù, come qualsiasi cosa che vive grazie ad essa… prima o poi morirò se non ti deciderai a condividere l'immenso potere che si è accumulato in te nel corso dei secoli».
«Mi stai chiedendo di sacrificarmi, ho capito bene?».
«Non c’è altro modo per spezzare la maledizione che tu stesso hai lanciato, Merlino. Non hai solo giurato di non usare più la magia, hai giurato che avresti fatto tutto ciò che era in tuo potere per impedire ad altri di soffrire a causa di essa. Da quel momento ti sei trasformato in una calamita gigante, privando la terra, l'aria e l'acqua della magia necessaria al loro equilibrio».
Lo stregone, inorridito da ciò che aveva fatto, si alzò faticosamente in piedi grazie al sostegno dell’albero alle sue spalle. Se davvero aveva lanciato una maledizione di quella portata... il suo destino era ancora più segnato di quanto credeva.
«E Artù?», gli venne spontaneo chiedere. «Che c'entra Artù in tutto questo? Perché l'hai salvato?».
Freya aggrottò la fronte, guardandolo confusa.
«Oh, fammi il piacere», la rimproverò, leggermente nauseato. «Avevi Excalibur, potevi fuggire indisturbata e invece sei tornata indietro per salvare Artù e sprecare energie. Devi avere un secondo fine, un tornaconto».
La custode di Avalon continuò a fissarlo, sbigottita, fino a quando un sorriso non fece capolino tra le sue labbra. «Devo dire che se questo è davvero ciò che pensi di me… sono molto delusa, sì», esclamò. «Certo, se lo avessi lasciato morire tu mi avresti odiato e saresti rimasto ancor più dell’idea di non voler compiere il tuo destino, ma il vero motivo per cui ho rinunciato alla fuga, a Excalibur, è la tua felicità».
«Prego?», ripeté con un nodo stretto in gola.
«So quanto tieni a lui e non avrei mai potuto convivere col rimorso di non averci almeno provato».
Il silenzio cadde tra di loro, per istanti che sembrarono eterni. Fu ancora Freya a spezzarlo, tenendo però gli occhi bassi.
«Mi aiuti ad alzarmi?».
Merlino esitò, ma alla fine afferrò la mano che aveva steso verso di lui e una volta in piedi le avvolse un braccio intorno alla vita per aiutarla a sostenersi sulle gambe.
«L’ultima Pendragon prima o poi verrà a cercarmi, lo sai vero?», gli domandò ad ormai pochi passi dal portone del condominio.
Il mago chinò il capo, afflitto. «Sì, lo so».
«E non hai nessuna intenzione di impedirglielo?».
«Come potrei?».
La lasciò andare ed indietreggiò di qualche passo. Quindi la guardò negli occhi, incapace di nascondere l’ansia e la frustrazione.
«Se è vero che conto ancora qualcosa per te, allora ti chiedo solo di… di tenerla fuori da tutto questo. Alex merita di essere felice, merita una vita normale».
Freya sorrise nuovamente, in quel modo sornione e derisorio. «Non penso che tu abbia realizzato quanto lei sia speciale. Alexandra non è destinata alla normalità, bensì alla grandezza».
«Anche Morgana la pensava così. Ti devo per caso ricordare com’è andata a finire?».
«Morgana era accecata dall’invidia, dal rancore, dal dolore. Ma Excalibur l’ha liberata, ha assorbito quella negatività e le ha donato la pace».
Merlino la fissò come stordito, mentre le immagini di ciò che Alex era stata in grado di fare sotto l’influenza della spada magica si accavallavano nella sua mente. Lui stesso aveva notato che molti degli incantesimi che aveva involontariamente lanciato erano molto simili a quelli che avevano portato Morgana a realizzare di possedere il dono, ma mai prima d’ora si era spinto a fare quel collegamento.
«Il destino di tutti noi è già scritto», aggiunse quasi dolcemente Freya, prima di recitare le parole che così tante volte il Grande Drago Kilgharrah gli aveva detto: «Nessun uomo, non importa quanto grande egli sia…».
«Può conoscere il proprio destino, sì», concluse per lei lo stregone. «Questa volta però sarà diverso».
La custode si avvicinò di un passo per posargli nuovamente una mano sul viso. «Ti conosco, Merlino. Ti lascerai guidare dal cuore anche questa volta e rovinerai tutto».
«È qui che ti sbagli», ribatté, sorridendole mentre le allontanava la mano dalla propria guancia. «Questa volta non seguirò il mio cuore, ma quello di Alex. Il suo cuore ha abbastanza luce e speranza per entrambi e sceglierà ciò che è meglio per questo mondo».
Freya non trovò le parole per rispondere e si limitò ad annuire, stringendosi nelle spalle. Merlino la guardò sparire dietro il portone e poi tirò fuori il cellulare per scrivere un messaggio ad Alex:

Dove sei? Ti raggiungerei anche in capo al mondo.

Poche, semplici e disperate parole. Aveva bisogno di vederla, di stringerla tra le braccia, di affondare il viso tra i suoi capelli, di respirare sulla sua pelle candida.
Era già in auto, quando ricevette la sua risposta:

Nel tuo letto. Ti aspetto.

Merlino non capì se scherzasse o facesse sul serio, ma non se lo fece ripetere due volte e premette il piede sull’acceleratore.


Entrò in casa e la prima cosa che vide fu Artù, addormentato sulla poltrona in salotto e con il telecomando ancora stretto in mano. Lo stregone provò la forte tentazione di passargli alle spalle e sgattaiolare di sopra, ma alla fine non riuscì ad ignorare il senso del dovere e con delicatezza gli tolse il telecomando di mano prima di coprirlo con una coperta.
Artù girò il viso proprio verso il suo, i loro nasi a pochissimi centimetri di distanza, e Merlino trattenne il respiro per paura di svegliarlo. Quindi si allontanò con cautela e solo quando fu con un piede sul primo gradino della scalinata tornò a respirare regolarmente.
Trovò Alex esattamente dove gli aveva scritto di trovarsi: sdraiata sul suo letto, sotto al piumone candido. Si spogliò in fretta, sparpagliando i propri vestiti sul pavimento, e si stese al suo fianco, avvolgendole le braccia intorno alla vita ed accarezzandole la nuca con la punta del naso.
«Sei freddissimo», sussurrò Alex, scossa da un brivido, ma non si spostò, anzi: si girò, in modo da poterlo guardare negli occhi, e si addossò ancora di più contro il suo petto, intrecciando anche le loro gambe.
«Devo confessarti una cosa», disse invece Merlino, dopo qualche istante trascorso ad ammirare i suoi occhi verdi e ad accarezzarle i capelli color del miele. «Per un momento ho sentito di nuovo qualcosa per Freya. E mentre la accompagnavo da Darrell ho quasi lasciato che mi baciasse».
Lo stregone abbassò le palpebre per sfuggire al suo sguardo immobile e il suo silenzio fu peggio di mille coltellate. Ad un tratto non riuscì più a resistere e si coprì metà del volto con una mano, disperato.
«Ho mandato tutto all’aria, non è vero?».
L’infermiera gli spostò delicatamente la mano dal viso e si sollevò sul gomito per posargli un bacio sulla fronte.
«Artù mi ha raccontato come vi siete conosciuti e che cos’è successo prima che morisse», sussurrò, passandogli una mano tra i capelli bianchi e neri. «E non posso dire che tutto questo non mi renda gelosa – sono stata quasi sul punto di seguirvi – ma non è colpa tua. Non posso nemmeno immaginare come ti sia sentito nel vederla ritornare dalla morte, identica a come quando eravate sul punto di lasciare Camelot. Insomma, tra voi non è mai finita davvero: non vi siete separati perché l’avete deciso voi. È come se il fidanzato di Cathleen questo pomeriggio bussasse alla sua porta: credi che lei non si troverebbe in difficoltà, se dovesse scegliere tra il suo primo amore e Artù?
«Mentre eri via con lei ho pensato ad ogni possibile scenario, sai… Avevo paura che capissi di avere più cose in comune con lei che con me, che decidessi di lasciarmi per fuggire con lei come avresti voluto fare mille anni fa…».
Merlino scosse il capo, accarezzandole il volto con entrambe le mani, ma non poté parlare a causa dell’indice di Alex posato sulle sue labbra.
«Poi ho letto il tuo messaggio e sono tornata in me», riprese, sorridendogli e sfiorandogli il naso con il proprio. «Non avrei mai dovuto dubitare della tua fedeltà, del tuo amore. D’altronde hai chiesto a me di sposarti, a nessun altra. E con me non hai bisogno di fuggire, perché insieme possiamo affrontare qualsiasi cosa».
Merlino sorrise commosso, gli occhi lucidi di lacrime, e l’attirò a sé per baciarla. «Ti amo da impazzire».
«Anche io, Dumbo», ricambiò Alex, prima di cadergli addosso definitivamente e di coprirsi la bocca per trattenere le risate.

***

«Non ti preoccupare, Artù si è addormentato sulla poltrona come un vecchietto», la rassicurò Merlino, tra un bacio e l’altro sul collo.
«Potevi dirmelo subito…».
Alex si sedette a cavalcioni su di lui, lasciando che il piumone le scoprisse la schiena, e si slacciò il reggiseno nero per gettarselo alle spalle.
Artù se lo vide arrivare quasi in faccia, per questo si spostò bruscamente di lato, dietro la parete. Con gli occhi ancora sgranati per lo shock, ci mise un po’ prima di decidersi ad allontanarsi con passo felpato.
Una volta in salotto, si sedette di nuovo sulla poltrona dove aveva finto di dormire e dove aveva appallottolato la coperta quando aveva sentito Merlino salire le scale, e dopo qualche attimo di esitazione scrisse un messaggio a Cathleen.

Sei ancora sveglia?

La rossa ci mise un po’ a rispondere, tanto che era quasi sul punto di rimandare a più tardi lo sfogo, ma alla fine la vibrazione della risposta ricevuta lo fece sobbalzare sulla poltrona.

Sì, ero sotto la doccia. Che c’è?

Si tratta di Alex e Merlino.

Cathleen non replicò, aspettò semplicemente che trovasse le parole adatte per descrivere ciò che aveva visto. Ma ogni suo sforzo sfumò quando si lasciò andare a ciò che sentiva: un misto di gelosia, invidia e nervosismo.

Sono in camera da letto!!!

Nel senso che Alex sta dando una mano a Merlino a riordinare?

No, in QUEL senso!

Oh... l’hai scoperto, alla fine.

Il re di Camelot rimase letteralmente a bocca aperta e guardò il display del cellulare come se Cathleen in quel modo potesse vedere la sua espressione sconvolta. Poi selezionò la voce “chiama” e se lo portò all’orecchio. Quando lei rispose, urlò subito a mezza voce: «Tu lo sapevi? Lo sapevi e non mi hai detto niente? Come hai potuto, Cathleen!».
«Per l’amor del cielo, Artù… Se nessuno te l’ha detto è perché sapevamo che avresti dato di matto».
«Avrei dato di matto? Oh, voi non avete visto ancora nulla!».
«Posso sapere cos’è che ti infastidisce tanto? Non stanno infrangendo nessuna legge!».
«Forse no, ma ai miei tempi un membro della famiglia Pendragon…».
«Mi dispiace ricordartelo ma uno, non siamo più ai tuoi tempi; due, le famiglie con nomi importanti fanno schifo».
Artù rimase in silenzio, colpito duramente dalle sue parole. Anche Cathleen dovette accorgersi di essere andata troppo oltre perché provò a scusarsi, ma l’ex re di Camelot la interruppe sul nascere, dicendo atono: «Io facevo parte di una famiglia con un nome importante e per quanto fosse poco presente, disastrata e piena di drammi, era l’unica che avevo e l’amavo; e tu non hai alcun diritto di dire che faceva schifo».
«Artù, davvero, io…».
Ma Artù terminò la conversazione e successivamente spense il cellulare, per evitare che lo richiamasse. Si massaggiò il viso e poi uscì in veranda, dove si sedette cercando di riportare alla mente alcuni dei bei momenti trascorsi con suo padre o con Morgana, quando ancora non sapeva che era la sua sorellastra. Nonostante il passato gli tornasse alla mente solo in frammenti, riuscì a sorridere prima di venir travolto dalla nostalgia e dal vuoto che provava a causa della loro mancanza.

***

Quando quella mattina il signor Morris le aveva lasciate davanti all’ospedale, Hala aveva sperato con tutte le sue forze di incrociare ancora il dottor Ellis, uno dei pensieri che l’avevano portata ad una notte insonne.
Purtroppo non l’aveva visto, ma in compenso aveva fatto una scoperta che dopotutto, conoscendolo meglio di se stessa, non avrebbe dovuto sorprenderla poi così tanto: Baqi aveva preso il primo treno ed era lì, intento a fermare ogni infermiera lungo la sua strada per porre qualche domanda su Merlino.
Quando la signora Chapman aveva smesso di stritolarlo a sé e di pettinargli i capelli con le mani, Hala si era avvicinata per tirargli un pugno sul petto e guardarlo con espressione truce.
«Che ci fai qui?», gli aveva chiesto a denti serrati.
Ma lui, nonostante gli avesse fatto male, non aveva perso il proprio sorriso eccitato, esclamando: «Non crederai mai a ciò che ho scoperto!».
Così l’aveva aggiornata, spiegandole che il fatto che il Principe William avesse donato di tasca sua una cifra a cinque zeri lo aveva insospettito e lo aveva portato a trovare su Twitter delle fotografie che ritraevano senza alcun’ombra di dubbio il suo ragazzo immortale.
Aveva fatto anche delle ricerche su quel paesino in mezzo al nulla e aveva scoperto che l’ospedale in cui lui lavorava con la bisnonna di Abigail si trovava proprio dove avevano costruito il nuovo ospedale, quello dove la stessa Abigail era ricoverata.
«Ci sono troppe coincidenze, non trovi?», le aveva chiesto e aveva atteso trepidante una sua conferma, ma Hala aveva semplicemente scosso il capo, decisa a mantenere il segreto sul proprio incontro con Merlino.
Ovviamente Baqi non l’aveva lasciata stare fino a quando non aveva avuto almeno una parte di verità, quella in cui si era presa una folle cotta per un dottore con cui aveva scambiato solo poche parole.
Sarebbe stata dura mentire a Baqi, soprattutto se avessero trascorso insieme il giorno intero, ma doveva resistere, tenere duro fino a quando non si fosse assicurata che la persona con cui avevano a che fare non fosse nulla di tutto ciò che Baqi era convinto che fosse.
Avrebbe sofferto a causa dell’ennesima delusione, a causa dell’ennesimo sogno in frantumi, ma si sarebbe rialzato, prima o poi. Lo faceva sempre.

«Ecco qui il pranzo per la nostra Abby!».
«Agatha! Non c’era bisogno che me lo portassi in stanza… Sarei venuta in mensa tra poco», esclamò Abigail, guardando il vassoio che l’infermiera le lasciò sotto il naso.
Agatha si strinse nelle spalle, sollevando forzatamente un angolo della bocca. «Sai com’è… ordini della dottoressa».
«Oh, fantastico…», mormorò, passandosi le dita sulla fronte.
L’infermiera non aggiunse altro ed uscì, lasciando nella stanza un’atmosfera tutt’altro che leggera.
«Mi sono perso qualcosa?», domandò ad un tratto Baqi, rompendo il silenzio.
«Se non sono i pazienti a chiedere di essere serviti in camera, vuol dire che ci sono brutte notizie in arrivo», spiegò mestamente Abby, stringendo le mani intorno al vassoio. Poi aggiunse: «Hanno gli esiti dei miei esami».
Sua nonna posò una mano su un suo pugno serrato e sorrise dolcemente. «Non puoi saperlo con certezza, tesoro…».
«Vivo qui dentro da due anni, ormai ho capito come funziona. È solo questione di tempo, prima che mi facciano il discorso».
A quelle parole la signora Chapman si ritrasse e con gli occhi lucidi di lacrime si alzò e si diresse verso la porta.
«Dove vai, nonna?», domandò la ragazzina, stancamente.
«A prendere un po’ d’aria. Torno subito, tesoro».
Uscì dalla stanza senza voltarsi indietro e Hala, dopo qualche secondo, diede un calcio al gemello, attaccato al suo smartphone, perché la raggiungesse. Non voleva che la signora Chapman rimanesse da sola, certo, ma in realtà voleva anche rimanere qualche secondo da sola con Abby per capire che cosa sapesse su Merlino. Poteva aver mentito a Baqi, ma con lei quell’opzione era fuori discussione: l’aveva visto uscire dalla sua stanza, doveva per forza sapere chi fosse.
Si avvicinò al suo letto con la sedia e le posò una mano sulla gamba, sorridendole. «Ehi… lo sai che tua nonna ci rimane male se pensi al peggio».
«Sì, lo so, mi dispiace». Allontanò da sé il vassoio con una smorfia sul viso. «È che a volte sono così stanca di lottare anche per gli altri… Per questo motivo ho anche litigato con Mark, ieri».
«Ma poi avete fatto pace».
Abby accennò un sorriso. «Sì, tutto merito di Merlino e Artù».
Ad Hala brillarono gli occhi, sentendo i loro nomi. Ora aveva l’appiglio per aprire l’argomento.
«Merlino e Artù? Chi sarebbero?».
Ma la ragazzina passò subito sulla difensiva, accorgendosi dell’errore che aveva fatto nel nominarli. «Due ragazzi che passano di qui ogni tanto, per farci compagnia».
«Credo di aver conosciuto Merlino, ieri».
«Può darsi. A questo proposito, Hala…».
«Sì?».
Abigail sollevò gli occhi nei suoi e li fissò intensamente per tutto il resto del loro dialogo, mettendola spesso in soggezione. Le bugie e le recite in fondo non erano e non sarebbero mai state il suo pane quotidiano.
Abbozzò anche un sorriso, esordendo: «Baqi mi ha detto della sua indagine, a colazione. Assurdo, non trovi?».
«Sì, assolutamente! Gli ho detto più e più volte di lasciar perdere, ma lo conosci… quando si mette in testa qualcosa è inarrestabile».
«Ma questa volta è diverso… Insomma, l’immortalità? È semplicemente impossibile».
Hala si strinse nelle spalle e si sporse un po’ di più verso Abby, con i gomiti posati sulle ginocchia. «Mettiamo che incontri Merlino e gli chieda spiegazioni riguardo alla foto e al diario di Louise. Che cosa potrebbe mai succedergli di male? Farebbe una così brutta figura che gli servirà da lezione per la prossima volta. Dico bene?».
Abby però esitò, immersa nei propri pensieri, e Hala si convinse che sapeva davvero più di ciò che voleva dire. Ma ancora si rifiutava di credere che il ragazzo che aveva incrociato il pomeriggio precedente fosse immortale e avesse avuto una relazione con la madre della signora Chapman. Doveva esserci un’altra spiegazione, una con un briciolo di logica.
«Abby?», richiamò la sua attenzione, a disagio a causa del suo prolungato silenzio.
La ragazzina la guardò, prima con espressione vacua, poi mettendola sempre più a fuoco, fino a quando non ritornò completamente alla realtà. «Hai detto che avete trovato anche il diario della bisnonna?».
«Sì, la foto era tra le sue pagine. Ma…».
«Credi che Baqi me lo farebbe leggere, se glielo chiedessi?».
Hala boccheggiò per qualche istante, come un pesce fuor d’acqua. Alla fine sospirò ed annuì. «Perché no?».
«Perfetto, vado subito», esclamò e fece per togliersi le coperte di dosso, ma la ragazza la fermò e con sguardo ammonitore disse: «Tu non vai da nessuna parte, se prima non metti qualcosa sotto i denti».
Abby deglutì rumorosamente guardando il vassoio, quindi sospirò e si fece forza. Hala rimase al suo fianco per tutto il tempo, ma con la testa altrove.
Quella storia iniziava ad appassionarla, mentre il suo bisogno di risposte si faceva sempre più insistente. Ma questo non voleva dire che le piacesse. O forse non le piaceva la possibilità – improbabile, ma pur sempre da tenere in considerazione – che ciò in cui erano andati a cacciarsi fosse qualcosa di molto più grande di loro e che non ne sarebbero usciti bene.

***

Merlino scese al piano di sotto trotterellando, con indosso i pantaloni di una vecchia tuta e una maglietta viola che aveva trovato sul pavimento e gli andava un po’ stretta.
Sorrideva a trentadue denti, sollevato che Alex, nonostante la gelosia, non avesse reagito d’impulso come avrebbe fatto il suo antenato – come aveva fatto, in realtà.
Ripensare al tradimento di Gwen era sempre doloroso, ma ora che ci faceva caso non era mai riuscito a dire ad Artù quello che pensava fosse veramente successo. Si promise di raccontarglielo, un giorno o l’altro.
Si aggrappò al corrimano e all’ultimo scalino fece una mezza giravolta verso la porta della cucina, ma si bloccò non appena scorse Artù seduto in veranda, con la testa posata contro una delle due colonne portanti di legno.
Nascosto dietro l’angolo, con la schiena al muro, Merlino pensò rapidamente ad una scusa da rifilargli nel caso gli avesse chiesto quando fosse tornato e dove fosse stato fino a quel momento. Non gliene vennero in mente molte, come al solito, perciò si affidò ancora una volta all’improvvisazione.
Si concesse un respiro profondo e poi entrò in cucina come se nulla fosse, diretto verso il frigorifero. Artù lo vide con la coda dell’occhio e dopo qualche istante di esitazione si alzò ed aprì una delle porte finestre per appoggiarsi allo stipite con una spalla e salutarlo con un cenno del capo.
Merlino non lo incitò a fare conversazione, piuttosto cercò di evitarlo, mostrandosi concentrato nel prepararsi due tramezzini.
«C’è bisogno per caso che ti chieda espressamente com’è andata con Freya?», gli domandò alla fine il sovrano, infastidito.
«Come volete che sia andata? Non mi ha fatto piacere riportarla da Darrell, sapendo che lo prenderà in giro e sfrutterà la sua ospitalità fino a che le farà comodo».
Artù inarcò un sopracciglio, scettico. «Ma le hai detto che dobbiamo riportarla ad Avalon, giusto?».
Lo stregone si fermò con il coltello a pochi centimetri dal pomodoro che voleva affettare.
Gli Sidhe erano stati chiari, a riguardo: «Devi riconsegnarla a noi, stregone, o questo mondo ne perirà». Eppure lui non aveva nemmeno considerato l’idea di rispedirla da dov’era venuta. Come avrebbe potuto? Se gli Sidhe avessero decretato che fosse Artù quello che doveva ritornare nelle profondità di Avalon lo avrebbe fatto? No, mille volte no. Per questo motivo e per la propria libertà, Freya si sarebbe opposta con tutte le sue forze, lottando con le unghie e con i denti se necessario.
«Merlino... Freya è morta. Quella che è uscita dal lago è solo il suo fantasma, in cerca di qualcosa che ormai non c'è più».
«Potrei dire lo stesso di voi, o ancor di più di me», esclamò, picchiando con forza il coltello nel tagliere, tanto forte che si incastrò nel legno. Quindi si voltò, il viso accartocciato in una smorfia sofferente, e non si accorse dell’occhiata che Artù gettò poco sotto il suo mento.
«È vero che il tempo cambia le persone e io, ormai, sono solo un pallido riflesso di ciò che ero a Camelot», riportò le parole veritiere di Freya. «E non ho più le forze, non ho più voglia di giustificarmi o di fare ciò che è meglio per gli altri: se la nostra vita sta davvero per finire, allora non voglio sprecarne un solo giorno».
Artù lo fissò intensamente, fino a quando non si appoggiò al tavolo, con le braccia incrociate al petto. «Qualche settimana fa sarei stato d’accordo con te al cento percento», disse. «Adesso però ci sono altre persone in ballo, persone che non possiamo deludere. Se ami Alex come dici di amarla... non puoi abbandonarla al suo, di destino».
«Non è mia intenzione. Infatti io… io le ho detto che salveremo il mondo, se lo vorrà», rispose debolmente, innervosito dal suo sguardo profondo.
Artù annuì e si avvicinò a lui fino al punto da poter vedere riflessi nei suoi occhi chiari i propri blu come il mare.
«Sarà meglio», sussurrò, puntandogli l’indice sul petto.
Solo in quel momento, abbassando lo sguardo, Merlino realizzò perché quella maglietta gli stava così stretta: non era sua. Arrossì da capo a piedi e provò un brivido di terrore quando incrociò nuovamente gli occhi del solo ed unico re. Niente, nemmeno la magia, avrebbe potuto salvarlo dalla sua furia.
«Giuro che se la fai soffrire...», iniziò a dire, con i denti serrati.
«Io e Alex ci sposiamo!», squittì e si rese conto della pazzia che aveva fatto nel momento in cui pronunciò quelle parole. Perché, perché gliel’aveva detto?
Ma Artù non reagì come si aspettava: dopo un attimo di stordimento, infatti, sul suo viso si aprì un sorriso dolcissimo e fiero, come non ne vedeva da tempo.
«Congratulazioni, ve lo meritate», disse, dandogli una pacca sulla spalla.
Lo stregone lo guardò incredulo, mentre gli dava le spalle per tornare in veranda. Alla fine non riuscì a trattenersi e sbottò: «Tutto qui? E io che pensavo...».
Artù si voltò di scatto con un cucchiaio tra le mani e lentamente se lo portò vicino al viso, sibilando: «Ti cavo gli occhi, se la fai soffrire».
Merlino deglutì, atterrito. Poi un pensiero gli balenò alla mente e sogghignò, facendo aggrottare la fronte del biondo.
«Sapete, come futuro marito di Alex, forse siete voi a non dover fare del male a me... In fondo lo sappiamo che è solo questione di tempo prima che vi prenda a calci nel –».
Non ebbe il tempo materiale per concludere la frase, troppo impegnato a correre su per le scale con Artù alle calcagna. Riuscì a sfuggirgli per un pelo, rifugiandosi in camera sua e chiudendosi a chiave la porta alle spalle.
«Apri subito questa maledetta porta, Merlino!», gridò Artù, tempestandola di pugni.
Merlino trattenne a stento una risata, gli occhi rivolti verso il cielo. Li abbassò quando scorse Alex emergere dalle coperte con i capelli scompigliati sulla testa.
«È la mia maglietta quella che hai addosso?», gli chiese, accigliata.
Lo stregone annuì con un semplice cenno del capo e lei scrollò le spalle, aggiungendo: «Dov’è il mio tramezzino? E perché diavolo Artù vuole sfondare la porta?!».
«Non saprei… Gli ho solo detto che ci sposiamo!».
Rimasero a guardarsi in silenzio per un po’, fino a quando non scoppiarono a ridere all’unisono, compreso Artù dall’altra parte della porta.

***

Darrell guardò Freya dall’altra parte del divano: si stava attorcigliando una ciocca di capelli intorno al dito e a volte se la portava alla bocca, inconsciamente, mentre guardava la TV.
Non gli aveva detto molto da quando era tornata e quando le aveva chiesto perché fosse uscita senza lasciargli nemmeno un biglietto, Freya aveva risposto che non pensava che sarebbe stata fuori così a lungo: aveva finalmente trovato il coraggio di uscire e sperava che vedendo le case, i negozi, il lago, qualcosa scattasse nella sua mente, permettendole di ricordare. A quanto pareva non era successo.
Eppure Darrell non era convinto, era sicuro che ci fosse dell’altro, qualcosa che non gli stava dicendo. E poi quelle impronte sul retro del condominio… Era certo che non fossero così piccole, la prima volta che le aveva viste, ma non potevano nemmeno essersi rimpicciolite magicamente! Si sentiva sull’orlo della pazzia e come se non bastasse non era ancora riuscito a chiudere occhio. Forse ci voleva un piccolo aiuto.
Si alzò e subito sentì gli occhi di Freya posarsi su di lui.
«Non guardi come va a finire?», gli chiese indicando la televisione.
«Lo so già come va a finire», rispose con un lieve sorriso sul volto. «Sono stanco, vado a riposare».
L’agente si avviò verso la propria camera, ma si fermò di nuovo quando Freya esclamò: «Sei sicuro che non ci sia dell’altro? Se sei ancora arrabbiato perché non ti ho avvisato mi dispiace, davvero».
«Ehi, non importa».
La ragazza spense la TV e si mise seduta a gambe incrociate, posando una mano accanto a sé per invitarlo a sedersi nuovamente. Darrell sospirò e la raggiunse, confessando: «La verità è che vorrei aiutarti».
«Ma tu mi stai già aiutando… Mi stai ospitando a casa tua, mi stai dando da mangiare e abiti con cui vestirmi…».
«Vorrei aiutarti a recuperare la memoria e a riportarti dalla tua famiglia. Saranno così preoccupati per te…».
Freya abbozzò un sorriso e posò una mano sulle sue, unite su un ginocchio. Lo sguardo del poliziotto cadde ancora una volta sul tatuaggio che aveva all’interno dell’avambraccio, tre semplici spirali nere intrecciate.
«Ti ringrazio, Darrell. Non riuscirò mai a sdebitarmi».
«Lascia che ti accompagni in ospedale per un controllo», le disse ancora, avvicinandosi e sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Starò con te tutto il tempo, te lo prometto».
La ragazza esitò, ma alla fine sorrise ed annuì. «Domani».
«Fantastico!». In uno slancio di entusiasmo le prese il volto tra le mani per baciarla sulla fronte e poi, imbarazzato, si allontanò in fretta.
«Ora è davvero il caso che vada a dormire un po’. A dopo».
La salutò con un cenno della mano e si chiuse in camera, dandosi dello stupido. Quindi si sdraiò sul letto, ma anziché prendere una pastiglia, chiudere gli occhi e lasciare che il torpore lo avvolgesse, accese il PC portatile e fece qualche ricerca sul significato del simbolo che Freya aveva tatuato sul braccio.

***

Alex era pronta per iniziare il turno di notte. Non si sentiva così rilassata e serena da moltissimo tempo ed era tutto merito di Merlino: il suo amore era la luce che scacciava l’oscurità, era il vento che allontanava le nuvole temporalesche. Se solo avesse avuto la forza necessaria per dirgli di Excalibur il momento stesso in cui l’aveva trovata sul fondo di Avalon…
Nello spogliatoio del Pronto Soccorso, Alex si stava cambiando quando sentì la porta aprirsi e richiudersi violentemente.
Cathleen si sedette sulla panchina proprio dietro di lei e Alex si coprì il petto con la maglia, guardandola incerta sul da farsi.
«Va tutto bene?», le chiese alla fine, con un sopracciglio inarcato.
Il paramedico si portò le mani sulla testa, sospirando: «Ho fatto un casino con Artù».
Alex finì di vestirsi e si sedette al suo fianco per massaggiarle la schiena a mo’ di conforto. Senza nemmeno darle il tempo di chiederle se voleva parlarne, il paramedico si appoggiò semplicemente alla sua spalla ed iniziò a sfogarsi: «Stare con Artù è come fare bungee jumping: quando ti tuffi non puoi che provare eccitazione e libertà, poi la paura che la corda si spezzi ti travolge ed inizi a pensare a te stesso spiaccicato al suolo, e infine provi il sollievo per avercela fatta e il desiderio incontrollabile di farlo ancora».
«Parli per esperienza personale?», chiese Alex.
«Sì, l’ho fatto un paio di volte, ma non è questo il punto. Credo che mi stia innamorando di lui».
Alex rimase un po’ spiazzata da quella confessione, ma dopo qualche attimo di silenzio sorrise e riprese ad accarezzarle la schiena.
«E questo ti fa paura? Hai paura che non vada a finire bene, che ti ritroverai spiaccicata da qualche parte?».
Cathleen annuì. «Vedi, era più facile quando andavo a letto con persone per cui non provavo niente: nessuno era interessato ad altro, era solo sesso. Con Artù… Lui sa cose di me che nessun altro conosce. L’ho persino portato alla tomba di Zach».
«Non dev’essere stato facile… Ma l’hai fatto. Che cos’è cambiato da allora?».
Il paramedico si sollevò per guardarla negli occhi e spiegò: «Quando mi ha chiamato per dirmi che aveva beccato te e Merlino a letto insieme, gli ho chiesto perché gli desse così fastidio; lui ha citato la sua famiglia e io… io gli ho fatto capire che non mi piacciono le famiglie con nomi importanti, che si credono superiori e padrone del mondo intero. Lui ovviamente si è offeso e non so come scusarmi».
Alex la osservò per qualche secondo col naso arricciato, e alla fine sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso. «Si tratta della tua famiglia, ho indovinato?».
«Come…?», balbettò Cathleen, per poi scoppiare in una risatina.
«Ascolta», mormorò Alex, posandole le mani sulle spalle. «Artù non è stupido, avrà sicuramente capito che se hai fatto quel commento non l’hai fatto per offenderlo. Perciò prenditi il tempo che ti serve, ma prima o poi dovrai spiegarglielo, esattamente come gli hai raccontato di Zach. Probabilmente sarà il tuffo più spaventoso che farai, ma starai meglio dopo che ti sarai lanciata».
Cathleen le sorrise e dopo averla ringraziata le stampò un bacio sulle labbra, lasciandola sbigottita.
«Ora sarà meglio andare. Ci aspetta una lunga notte!».
Alex la guardò uscire dagli spogliatoi, poi si alzò e sorridendo chiuse il proprio armadietto.

***

Era stata forse la cena più imbarazzante della sua vita, con Artù che non faceva altro che porgergli domande a proposito del suo futuro matrimonio con Alex.
Non era stato meglio quando gli aveva chiesto quando le aveva fatto la proposta, dato che la verità – preferita all’ennesima bugia – aveva messo in luce che lui ed Alex avevano tenuto nascosta la loro relazione per quasi due settimane e che alla fine, perché arrivassero entrambi ad un “sì”, era stata Alex a rivolgergli la domanda fatidica.
Artù non l’aveva presa benissimo, ma Merlino a quel punto si era già rifugiato nel bunker, ad esaminare Excalibur più da vicino.
Irradiava veramente una quantità di magia impressionante – la percepiva come una scossa sottopelle solo avvicinandosi, – un dettaglio che aveva avvalorato ancora di più la teoria che si era fatto intorno alle parole di Freya. Era sicuro che un semplice incantesimo di rivelazione avrebbe messo in luce l’aura negativa intorno alla spada. Si sarebbero spiegati così gli sbalzi d’umore di Alex, la sua aggressività e la forza distruttiva dei suoi poteri. Ma non era nelle condizioni per poter sprecare in quel modo la propria magia, specialmente se aveva intenzione di usarla quella sera stessa per un altro motivo.
Aspettò pazientemente che Artù andasse a letto, poi uscì silenziosamente di casa e a piedi, con Excalibur infilata in una spessa custodia di pelle, si diresse verso il fitto del bosco che circondava Avalon.
Respirava a pieni polmoni l’aria fredda e ricordava le notti trascorse tra quegli stessi alberi secoli prima, con i cavalieri di Camelot oppure da solo con Artù. Nella vegetazione, con la luna che filtrava a tratti tra le fronde, gli sembrava che di essere tornato indietro nel tempo.
Camminava in silenzio, puntando la torcia elettrica sul fogliame e sul terriccio ancora umidi di pioggia per evitare di inciampare nelle radici degli alberi, e fu allora che si accorse di essere seguito, ma fece finta di nulla.
Raggiunse una piccola radura quasi al terminar del bosco e si fermò di fronte ad una piramide di sassi ammucchiati gli uni sugli altri e ormai ricoperti di muschio. Si lasciò cadere in ginocchio e si sfilò Excalibur dalla schiena per stringerla tra le mani, a capo chino.
«Perdonami se non ti ho portato dei fiori, Morgana», sussurrò. «Perdonami se non sono venuto a trovarti, negli ultimi vent’anni. Perché oggi? Beh… Freya ha detto che Excalibur ha assorbito tutto il tuo dolore, tutto il tuo rancore; che ti ha donato la pace. Io non so se sia vero, ma anche se fosse così, questo non mi libererebbe dagli incubi. Non smetterò mai di pensare che avremmo potuto trovare una soluzione diversa, insieme. E voglio assicurarti che non farò lo stesso errore due volte: Alex… lei ti piacerebbe, ne sono sicuro. Ha molto di Artù, mi spaventa quanto si somiglino a volte, ma mi ricorda anche te: la tua gentilezza, la tua forza di lottare per ciò che crede giusto». Abbozzò un sorriso, passandosi una mano sulla guancia per spazzare via il segno di una lacrima. «La proteggerò come avrei dovuto proteggere te, te lo prometto».
Merlino rimase in silenzio, con la luna ad illuminargli il viso, fino a quando non si voltò di tre quarti verso il bosco ed esclamò: «Ora potete uscire, Artù».
Il sovrano si fece avanti quasi vergognosamente e lo raggiunse. In piedi di fronte alla tomba di Morgana, disse: «È qui che…?».
«Dopo avervi lasciato alle acque di Avalon, sono tornato sui miei passi. Non c’era questa radura… l’ho creata io: ero talmente disperato ed arrabbiato che ho sradicando tutti gli alberi intorno a noi. Con essi ho costruito una pira e ho bruciato il suo corpo».
Artù gli posò una mano sulla spalla, porgendogli l’altra perché si alzasse.
«Che hai intenzione di fare con Excalibur?», gli chiese dopo qualche istante di silenzio.
Merlino abbassò gli occhi sulla spada e rispose: «Fino a quando non troveremo il modo di purificarla e Alex non sarà in grado di controllare la magia, c’è solo un posto dove possiamo lasciarla».
Insieme tornarono nei meandri del bosco e in silenzio Artù seguì Merlino fino all’entrata di quella che sembrava proprio una caverna. Dopo aver azionato una serie di meccanismi che se eseguiti in modo errato avrebbero fatto scattare delle trappole, Merlino aprì le pesanti porte ed entrò per primo.
Artù rimase a bocca aperta di fronte alla miriade di cristalli luccicanti che donavano un’atmosfera più che magica a quella caverna altrimenti spoglia ed umida. Il loro bagliore azzurrognolo permetteva di vedere chiaramente, tanto che Merlino spense la torcia elettrica e la ripose nello zaino.
Il re seguì ogni passo del mago, senza azzardarsi a sfiorare nulla, e più e più volte si morse la lingua per non rompere il silenzio surreale che regnava in quella grotta.
«A che cosa state pensando?», sussurrò ad un tratto lo stesso Merlino, senza voltarsi a guardarlo.
«Mi chiedevo… La prima volta che mi hai parlato della caduta di Camelot hai accennato al fatto che non ti servivano più i cristalli per vedere il futuro. Sono questi, i cristalli a cui ti riferivi?».
«Certamente. Ricordate la notte prima della battaglia di Camlann? Voi dormivate, quando vi ho parlato in sogno per avvisarvi dell’imboscata di Morgana».
«Allora eri veramente tu!».
Lo stregone si fermò e si voltò, sorridendo sghembo. «E chi altri? Venite, da questa parte».
Camminarono ancora per un po’, tra gli stretti cunicoli della caverna, fino a quando non raggiunsero una fonte d’acqua scura. I cristalli si riflettevano su di essa come se si trattasse di uno specchio e Merlino porse la spada ad Artù perché la estraesse dal fodero.
«Forse il fatto che mi abbiate seguito risulterà a mio vantaggio», commentò il mago.
Prima che Artù potesse chiedere ulteriori spiegazioni in merito, lo stregone disse ancora: «La vedete quella roccia laggiù? Dovete incastrarvi la spada».
«Che cosa? Non ce la farò mai!», urlò e la sua voce echeggiò cupamente nella caverna. «Insomma, tirarla fuori è un conto…».
Merlino scoppiò a ridere e Artù iniziò a sentire una stretta allo stomaco, che ben presto si trasformò in consapevolezza: era stato Merlino a condurlo alla spada nella roccia, era stato lui a convincerlo ad estrarla in un momento in cui aveva perso ogni speranza. Senza il suo aiuto, senza un pizzico di magia, non ce l’avrebbe mai fatta.
«Il vostro popolo non aveva mai smesso di credere in voi», esclamò il mago, quasi con dolcezza. «Ciò che vi serviva era una bella iniezione di autostima e quella è stata l’unica idea che mi è venuta in mente. Ha funzionato, no?».
Artù borbottò qualcosa in risposta, dopodiché si girò a guardare la roccia che emergeva sulla riva della falda. «Che cosa devo fare?».
«Dovete infilzarla nella roccia, con tutte le vostre forze. Al resto penserò io».
«Tu? Non se ne parla, Merlino! Non userai la magia per…».
«Shhh», sussurrò, socchiudendo gli occhi. Quando li riaprì, brillavano di determinazione. «Fidatevi, è il posto più sicuro. Se anche Alex sentisse il richiamo della spada, non potrà estrarla fino a quando non sarà pronta».
Artù sospirò con arrendevolezza ed impugnò Excalibur. Quindi si avvicinò alla roccia e sollevò la spada fino ad avere l’elsa sopra la testa.
«Dimmi quando sei pronto», disse, guardando con la coda dell’occhio lo stregone mentre respirava profondamente ed allungava entrambe le mani verso la roccia.
«Va bene, al mio tre. Uno… due… tre!».
Artù abbassò la spada con violenza e quando pensò che si sarebbe dislocato entrambe le spalle per il contraccolpo, la spada scivolò all’interno della roccia sferragliando e spruzzando scintille da una fessura dorata. Quando la lasciò andare, non poteva credere ai propri occhi: ci erano riusciti.
Si voltò entusiasta verso Merlino e gridò: «Ce l’abbiamo fatta!».
Lo stregone abbozzò un semplice sorriso prima di perdere i sensi ed accasciarsi al suolo con un rigagnolo di sangue che gli usciva dal naso. Artù si gettò al suo fianco e provò a svegliarlo insultandolo e dandogli degli schiaffetti sul viso, ma non servì a nulla. Allora prese il cellulare per chiamare Alex, ma in quella grotta ovviamente non c’era campo.
«Dannazione, Merlino! Lo sapevo che non dovevo ascoltarti!».
Se lo caricò in spalla e faticosamente uscì dalla grotta dei cristalli, nell’aria fredda della notte. Riprovò a chiamare Alex, ma l’infermiera non rispose.
Mordendosi nervosamente l’interno della guancia, il sovrano si guardò intorno nell’oscurità e non molto lontano vide le luci di una serie di abitazioni. Doveva chiedere aiuto a qualcuno, non importava chi. O forse sì.
Scorse una ragazza uscire dall’androne di un condominio, col cappotto sopra al pigiama e in mano un sacco della spazzatura. Attirò la sua attenzione nei pressi del grosso bidone e rischiò quasi di lasciare la presa su Merlino quando la riconobbe.
«Pendragon?», chiese Freya, stringendo le palpebre per osservarlo meglio nell’oscurità.
Il re sospirò e si fece avanti fino a che un lampione non lo illuminò, mostrando anche il corpo inerme di Merlino tra le sue braccia. Vedendolo, la custode lasciò cadere il sacco e lo raggiunse correndo.
«Per quale motivo ha usato la magia?», gli domandò posandogli una mano sulla fronte.
Artù non le chiese come facesse a saperlo e lei non pretese una risposta alla propria domanda; gli ordinò solo di seguirla all’interno del palazzo e lui, pur sapendo che poteva rivelarsi una pessima idea, la seguì.

***

Alex aveva iniziato il turno nel migliore dei modi, assistendo il chirurgo in sala operatoria per un’appendicite acuta fulminante.
Si era appena tolta i guanti imbrattati di sangue, quando era stata raggiunta da niente meno che da Ellis Senior, il padre di Keith.
«Che cosa ci fa lei qui a quest’ora?», esclamò sorpresa, chinandosi per lavarsi le braccia nei grandi lavandini.
«L'altro giorno sono venuto a trovare mio figlio e sul tabellone ho guardato quand'eri di turno. Devo parlarti, Alexandra».
Alex finì di asciugarsi e poi salutò l’uomo che era stato ad un passo da diventare suo suocero. Un sogno infranto da cui lui non si era ancora del tutto ripreso: aveva sempre provato una forte simpatia per lei, diceva  che avrebbe voluto avere una figlia come lei e che invece aveva avuto solo maschi, ben tre.
«Per quanto mi faccia piacere questa visita a sorpresa, avrebbe dovuto chiamarmi: l'avrei incontrata di giorno», esclamò Alex mentre si incamminavano insieme verso la sala relax del Pronto Soccorso.
«Ah, lo sai come sono i vecchi: brontoloni ed insonni», rispose lui, sistemandosi sul naso gli occhiali dalla montatura d’acciaio.
«Ho assistito all’operazione», aggiunse. «Non ricordavo avessi un così bel tocco. Il modo in cui hai applicato quei punti… Non rimarrà nemmeno la cicatrice, a quella ragazza».
Alex ridacchiò ed aprì la porta, invitandolo ad entrare per primo. La sala relax era deserta – per fortuna – e qualcuno aveva appena preparato il caffè: evidentemente era la sua serata.
«Lo sa che non ha mai ottenuto molto da me con i complimenti», disse Alex, versando un po’ di caffè in due tazze. Quindi le portò al tavolo a cui il dottor Ellis si era già seduto e lo guardò in viso, trovando gli stessi occhi grigio-azzurri di Keith, ridenti ed affettuosi, ad attenderla.
«Lo so, ragazzina. E tu sai che detesto quando mi dai del lei».
L’infermiera si morse il sorriso ed alzò le mani in segno di resa. «Okay, perdonami… David. Ora mi dirai di che si tratta?».
Il membro del Consiglio d’Amministrazione bevve un sorso di caffè e dopo aver lasciato la propria tazza sul tavolo infilò una mano nella tasca interna della giacca, ma la lasciò lì per un altro po’.
«Sai, Keith alla fine mi ha detto tutto quello che è successo tra voi. Gli è sempre piaciuto rendersi la vita un inferno».
Alex rimase in silenzio, senza sapere come replicare: quello che aveva fatto Keith, in fondo, l’aveva fatta stare male per settimane; non tanto perché l’aveva tradita – anche per quello, ovviamente – ma soprattutto perché lei non se n’era mai accorta.
«E ha anche confessato l’ultima sua “trovata geniale”: convincermi a mettere una buona parola per il tuo trasferimento al Pronto Soccorso. Voglio scusarmi nuovamente per ciò che ha fatto e assicurarti che io non ho proposto il tuo nome perché me l’ha consigliato lui, ma semplicemente perché sei una risorsa preziosa per quest’ospedale. Avrei scelto te in ogni caso, lo giuro».
«Non lo metto in dubbio, David. E ti ringrazio per questo».
«D’altra parte…», l’uomo sospirò e finalmente tirò fuori ciò che aveva pescato dalla tasca interna della giacca: una busta, con il sigillo dell’ospedale in un angolo. «So quanto tu tenga al reparto oncologico. Adesso che abbiamo ricevuto i fondi necessari… A proposito, posso sapere come diavolo hai fatto?».
«Credi davvero che sia merito mio?». Alex ridacchiò e posò una mano sul polso dell’uomo: «No, il Principe William deve essersi semplicemente reso conto che negare ciò che spetta di diritto ai nostri bambini era sbagliato».
Il dottor Ellis sogghignò, con un bagliore di malizia negli occhi. «Non cambierai mai, vero Alexandra? Non riconoscerai mai i tuoi meriti».
«Probabile», rispose scrollando le spalle.
«Allora spero di poterlo fare io al tuo posto per molto tempo ancora».
Posò la busta sul tavolo e la spinse verso di lei, picchiettando le dita su di essa prima di alzarsi. Alex lo imitò e si lasciò stringere in un abbraccio, poi lo guardò uscire dalla stanza relax.
L’infermiera finì il proprio caffè prima di prendere la busta ed aprirla con mani tremanti, impazienti ma anche spaventata dalla possibilità di aver pensato ad un’illusione.
Lesse velocemente, col cuore che le batteva forte, e poi si strinse la lettera al petto, guardando il soffitto con espressione entusiasta.

***

Abby si voltò ed abbozzò un sorriso, guardando sua nonna addormentata sulla poltroncina accanto al suo letto, con la testa sulla spalla e le labbra dischiuse.
Solo allora infilò una mano sotto al cuscino ed accarezzò la copertina in pelle del diario di Louise McTrusty, la sua bisnonna.
Alla fine era riuscita a convincere Baqi a prestarglielo per una lettura veloce, ma da quando l’aveva ricevuto non aveva ancora avuto modo di aprirlo. Il motivo era sul suo comodino, in una grande busta color paglierino: gli esiti degli esami di controllo.
La dottoressa era passata nel tardo pomeriggio e aveva fatto il discorso che Abby tanto temeva e al contempo era impaziente di sentire. Le aveva ripetuto le solite cose che si usavano dire in casi come quelli: “Stiamo facendo tutto ciò che è nelle nostre possibilità”, “Non ci arrendiamo”, “Le proveremo tutte”.
Quando sua nonna era scoppiata in lacrime, Abby aveva chiesto di scambiare due parole da sola con la dottoressa. I gemelli avevano portato fuori la signora Chapman e la ragazzina aveva fatto sedere la dottoressa al suo fianco, sul letto. Lei all’inizio aveva rifiutato, poi si era lasciata convincere e quando aveva sentito le mani fredde di Abby sulle proprie la sua espressione era cambiata: gli occhi si erano fatti umidi, le labbra avevano iniziato a tremare per la commozione e le sue spalle si erano curvate sotto un peso quasi insostenibile. Ora la ragazzina non era più parte del lavoro, ma un essere umano in carne ed ossa, con pensieri ed emozioni; non era più una paziente qualunque, ma una figlia che non avrebbe mai sopportato di perdere.
«Shhh, va tutto bene», le aveva sussurrato Abby, sporgendosi un po’ per accarezzarle una ciocca di capelli neri a caschetto. «Avete davvero provato di tutto con me».
«No, possiamo ancora tentare un trattamento».
La ragazzina le aveva passato un fazzoletto perché si soffiasse il naso. «Si riferisce al trapianto, vero?».
La dottoressa aveva annuito. «Se trovassimo un donatore compatibile...».
«Ci sarebbe comunque la lista d’attesa. Quanto tempo ho?».
La dottoressa l’aveva guardata per qualche secondo, prima di scoppiare di nuovo in singhiozzi. Allora aveva capito che non ne aveva abbastanza.
Quando la dottoressa era uscita – dopo essersi asciugata il viso e aver sistemato il trucco – era stato un via vai continuo: la voce si era già sparsa su tutto il piano e non solo. Erano passati infermieri, dottori, paramedici, pazienti, e ovviamente i suoi amici. Ma nessuno aveva detto nulla a Mark, nemmeno Danilo aveva osato tanto. Così era andata lei da lui.
L’aveva raggiunto nella sala della chemioterapia e l’aveva trovato con una brutta cera: il viso pallido ed imperlato di sudore, la bandana rossa abbandonata sulle gambe e un secchio per il vomito a portata di mano.
Non appena l’aveva vista avvicinarsi sulla propria sedia a rotelle le aveva lanciato un’occhiata di rimprovero, ma era troppo debole per esprimere a parole la sua irritazione e contrarietà.
Abby l’aveva preso per mano e con tono di voce pacato, senza mai distogliere lo sguardo dal suo, gli aveva raccontato tutto quanto: della terapia di consolidamento che non stava dando i risultati sperati, della comparsa dei sintomi di una recidiva e del fatto che l’unica opzione che le rimaneva a quel punto era il trapianto di midollo.
Mark l’aveva ascoltata senza mai interromperla, lasciando che le lacrime gli scorressero sul viso indisturbate, e poi aveva lasciato che Abby lo abbracciasse, con il capo abbandonato sul suo esile petto.
Erano rimasti lì, avvinghiati l’uno all’altro e alla vita fino a quando un’infermiera non era passata ad avvertire il ragazzino che la seduta era terminata.

Non pioveva, quella notte, ma nel cielo non c’era nemmeno traccia di stelle.
Vicina alle vetrate della sala d’aspetto, il suo sguardo era stato catturato dalla coppia che era appena uscita dalle porte scorrevoli del Pronto Soccorso: entrambi sorridenti, l’uomo teneva una mano sul ventre gonfio della donna, con gli occhi luminosi e trasudanti d’amore e sollievo, probabilmente per un esame andato a buon fine.
Abigail sorrise amaramente, certa che lei, nonostante ce l’avesse nel sangue – l’ennesimo paradosso – non avrebbe mai conosciuto la gioia di diventare mamma. Forse per questo aveva cercato di prendersi cura dei bambini più piccoli sin dal primo giorno di ricovero.
Tra le mani teneva il diario della sua bisnonna, ma non aveva molta voglia di leggere: ogni volta che ci provava, vedeva e rivedeva i terrificanti paroloni che aveva scorto sugli esiti dei suoi esami. Si limitò quindi a guardare gli alberi del parco, le ambulanze coi lampeggianti accesi che andavano e venivano, i dottori e le infermiere che uscivano per una pausa sigaretta e chiacchieravano tranquillamente tra loro, ridendo e scherzando, ignari di ciò che le stava succedendo. O forse lo sapevano e facevano finta di niente perché confrontarsi con la realtà faceva troppo male.
Ad un tratto sentì il ding dell’ascensore arrivato a destinazione e con la coda dell’occhio vide Alex avvicinarsi in silenzio, con le mani nelle tasche dei pantaloni celesti.
«Cath è riuscita a dirmelo solo adesso», esordì dopo qualche istante.
Anche il suo sguardo era fisso fuori dalle vetrate, non si mosse nemmeno quando le posò gentilmente una mano sulla spalla.
Non le chiese come stava, non le disse che in qualche modo tutto sarebbe andato per il meglio. Continuò a stringere con forza e delicatezza la sua spalla e mormorò: «Lo sai... Mi è stato concesso il trasferimento: torno in oncologia. Volevo che fossi la prima a saperlo, tutto qui. Se vuoi restare sola...».
Abigail scosse il capo, gli occhi ormai annacquati. Non aveva ancora pianto da quando aveva ricevuto la notizia; aveva guardato le lacrime degli altri, ma lei non era riuscita a versarle. Lì, con Alex, capì che era il momento giusto per lasciarsi andare.
Si alzò dalla sedia a rotelle e si aggrappò alle sue spalle infilando le braccia sotto le sue, il viso nascosto nell’incavo del suo collo. I singhiozzi le fecero male come coltellate, ma non smise. E Alex rimase in silenzio, accarezzandole ora i capelli corti ora la schiena, fino a quando non tornò a respirare più o meno regolarmente.
«Sono felice di riaverti accanto», sussurrò, tirando su col naso.
Alex sorrise, posandole un bacio sulla tempia. «Non mi sono mai allontanata».
Quando Abby rientrò nella propria stanza trovò sua nonna come l’aveva lasciata. Le stese addosso una coperta e si coricò, addormentandosi se non con il sorriso sulle labbra almeno serenamente, riconoscente di avere vicine così tante persone speciali. E avrebbe lottato per loro, fino all’ultimo respiro.
Il diario di Louise avrebbe aspettato il sorgere del sole.
   
 
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