Anime & Manga > The Seven Deadly Sins / Nanatsu No Taizai
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Autore: Arya Tata Montrose    07/05/2017    1 recensioni
D’un tratto, scorse qualcosa al di sopra della folla che, man mano che si avvicinava, riuscì ad identificare come un ragazzo particolarmente alto, con i capelli color dell’acqua e un abbigliamento che definire bizzarro sarebbe stato un complimento: pantaloni di pelle rossa borchiati, abbinati ad una giacca identica che gli copriva solamente metà del busto. Elaine si chiese chi mai potesse essere tanto coraggioso da andare in giro vestito a quella maniera e lo seguì con gli occhi, curiosa di scoprire che cosa sarebbe successo se avesse tentato un qualsiasi approccio con qualcuno.
[...]
«Ciao~»
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[Banlaine][Modern!AU][3.000+ words]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ban, King, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Regranted Wings





La musica rimbombava in toni assordanti e possenti, dando ad Elaine la sensazione che perfino le spesse pareti in cemento del capannone riadattato a locale tremassero.
Si portò il bicchiere alle labbra, riempiendosi le narici del suo frizzante odore di fragola, mentre con gli occhi socchiusi cercava la figura del fratello tra la folla di corpi danzanti. Si sentiva soffocare, là dentro, immersa nella semioscurità in cui versava la sala e nelle luci di mille diversi colori che le ferivano gli occhi coi loro movimenti prestabiliti. Sul suo volto, che fino a quel momento non aveva dato traccia di alcuna emozione se non un profondo tedio e, a volte, la sua disapprovazione per una particolare scelta della musica, apparve un leggero sorriso.
All’entrata del locale, il buttafuori aveva preteso ogni genere di documento per permetterle d’entrare e, nonostante la cosa l’avesse oltremodo scocciata, aveva ammirato la dedizione e la passione con cui si era assicurato che non fosse una ragazzina ad una festa dove giravano fiumi di alcol. Alta un metro e cinquanta, capelli biondi e l’innocenza negli occhi, Elaine pareva davvero una ragazzina di non più di quattordici anni; i modi e la mente, però, tradivano quest’immagine, portando i suoi amici a chiamarla “fata” in onore al suo cognome: Flary. Immaginò che lo stesso fosse avvenuto a suo fratello Harlequinn, alto dieci centimetri più di lei e con lo stesso viso da bambino.
Bevve un altro sorso di quel delizioso drink, ottenuto con la stessa fatica che le era occorsa per entrare e per occupare quell’agognato, scomodo sgabello su cui era seduta da due ore abbondanti in attesa del fratello, unico motivo per cui quella sera si trovava lì, in un locale che nemmeno le piaceva, invece che sul suo comodo letto in compagnia di un ottimo libro.
D’un tratto, scorse qualcosa al di sopra della folla che, man mano che si avvicinava, riuscì ad identificare come un ragazzo particolarmente alto, con i capelli color dell’acqua e un abbigliamento che definire bizzarro sarebbe stato un complimento: pantaloni di pelle rossa borchiati, abbinati ad una giacca identica che gli copriva solamente metà del busto. Elaine si chiese chi mai potesse essere tanto coraggioso da andare in giro vestito a quella maniera e lo seguì con gli occhi, curiosa di scoprire che cosa sarebbe successo se avesse tentato un qualsiasi approccio con qualcuno. Lo guardò farsi sempre più vicino e, quando lo ebbe a qualche passo di distanza, focalizzò la sua attenzione al resto delle sedute al bancone del bar, desiderosa di mettere alla prova le sue abilità deduttive e tentando di indovinare a chi si sarebbe avvicinato lo strano ragazzo.
«Ciao~»
Alle sue orecchie giunse il saluto, urlato per superare in decibel la musica, dello strano ragazzo che fino a poco prima aveva seguito con lo sguardo di sottecchi, in parte nascosta dal suo bicchiere di liquido denso e rosso fragola. La voce era vibrante, non per via dell'urlo quanto per la stessa intonazione data dal ragazzo. Ad Elaine strappò un risolino, inaudibile a causa del rumore; proprio strano.
Elaine rispose al saluto con un gesto della mano e con un sorriso che non fu certa se il ragazzo fosse stato in grado di vedere, con quel continuo, quasi molesto gioco di luci. Lui però rispose al cenno e andò a posizionarsi proprio tra lei e la pista da ballo, coprendole conseguentemente gli occhi dai faretti colorati.
«Tu devi essere la sorella di King, no?» Di nuovo, la voce del ragazzo vibrò nelle sue orecchie, dato che lui, per evitarsi di urlare, aveva avvicinato il volto al suo. Elaine ringraziò il colore intenso dei faretti, che mascherò il suo altrimenti evidente imbarazzo.
«Elaine,» annuì.
«Ban», si presentò a sua volta il ragazzo. Le fece solo un cenno con la testa per indicarle di seguirlo e lei si lasciò trascinare senza remora alcuna: chiunque chiamasse suo fratello King doveva essere quantomeno un soldato e, quella sera in particolare, un suo compagno di squadra nei famigerati Seven Deadly Sins, un particolare progetto del Governo che riabilitava carcerati particolari, ognuno identificato con uno dei peccati capitali. Suo fratello era l’orso, il peccato di Accidia, lo strano ragazzo che ora la guidava nel dedalo di corpi danzanti doveva essere l’Avarizia, la volpe Ban.
Salirono la scala a chiocciola fino al soppalco che fungeva da zona privata con salette a vetri, dove gli avventori potevano sedersi ad un tavolo e parlare senza essere sovrastati dalla musica tonante. Harlequinn le aveva detto di averne affittato uno per loro e Ban si infilò proprio in uno di questi, subito seguito da Elaine.
Quando l’eccesso venne sostituito dalla relativa pacatezza della saletta, in cui la musica giungeva ovattata, le luci erano sui toni del giallo ed i sensi di Elaine poterono trovare ristoro, la ragazza si accorse di essere sola con il suo accompagnatore.
Superato l’attimo di stupore per quella repentina realizzazione – come aveva fatto a non accorgersene immediatamente? – Elaine si trovò a considerare che Ban non fosse una così terribile compagnia: parlava. Molto. L’aveva sentito cominciare dalla sua Ale preferita per poi perdersi in un volo pindarico senza né capo né coda e finire a parlare della volta che aveva rubato l’imitazione di un Fabergé, che seppur di valore molto minore dell’originale gli aveva fruttato un ottimo bottino.
Elaine sapeva bene che ognuno dei Sins fosse in qualche modo un criminale ma, secondo quanto – poco – raccontato dal fratello, la maggior parte delle volte erano persone innocenti, capri espiatori che si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. D’altra parte, strane voci circolavano sul conto del leader – come di tutti gli altri, ma sul suo in particolare – Meliodas, e sul come fosse diventato il peccato d’Ira.
Il suo sguardo doveva essere risultato particolarmente perso nelle sue elucubrazioni, perché Ban si profuse in un sommario elenco dei colleghi mancanti, come a giustificare la loro solitudine nel privée: Merlin, la Gola, sarebbe sicuramente arrivata una volta che Escanor, la Superbia, fosse riuscito a farla uscire dal limbo dei suoi esperimenti. Con un risolino, spiegò che Meliodas aveva lo stesso problema suo e di suo fratello nel dimostrare la propria età; Diane, l’Invidia, invece non sarebbe entrata senza gli amici e così Elizabeth, la fidanzata del Capitano, come lo chiamava Ban.
 
«Capisco»
«Eh? Tutto qui?» Ban era leggermente sorpreso. Nessuna domanda? King non poteva averle raccontato praticamente nulla: quella era la prima volta che la ragazza avrebbe rivisto il fratello dopo anni, da quando era stato prima imprigionato dal Governo e poi reclutato nei Sins dal Capitano. In qualche sporadica lettera, per di più approvata parola per parola dal loro legale, non poteva averle fornito particolari dettagli.
Lo sguardo interrogativo di Elaine lo sorprese ancora di più.
«Sì, pensavo solo che dovete aver girato tutto il mondo mentre io me ne rimanevo rintanata a casa ad annoiarmi e studiare», spiegò. Poi una lieve risata le colorò le labbra: «Soprattutto annoiarmi, rileggendo sempre gli stessi libri, per quanti fossero.»
Ban allora si illuminò: «Allora sicuramente ho un libro che non hai mai letto. E nemmeno visto», dichiarò, tutto orgoglioso.
Elaine rispose al sorriso. «Di che si tratta?» indagò, curiosa. I suoi grandi occhi azzurri tradivano l’eccitazione della scoperta, dell’attesa di qualcosa che si prometteva completamente nuovo e stravagante – ne era piuttosto certa, vista la natura del ragazzo che gliela stava proponendo.
«L’ho scritto io», si limitò a dirle facendole anche un occhiolino che Elaine non seppe come interpretare. Dovette però spostare la sua attenzione sull’ingresso della saletta, dove uno ad uno s’infilavano dalla soglia i membri della squadra d’élite.
Appena scorse il fratello, prima che nessuno di loro potesse dire alcunché, Elaine reagì d’istinto, andandosi a gettare tra le sue braccia, un immenso mare di nostalgia si agitava dentro di loro, placato dall’abbraccio caldo in cui Harlequinn la strinse subito.
«Mi sei mancata, Elaine». Fu lui il primo a dare sfogo a quel maremoto inumidendo di lacrime le spalle nude della sorella.
«Anche tu. Non farmi mai più uno scherzo simile!»
 
Quando si staccarono, ognuno dei Sins poté presentarsi ed Elaine finalmente contare due presenze in meno rispetto a quelle pronosticate da Ban. Dal giro di nomi mancavano Merlin ed Escanor. Si dispiacque di non poterli conoscere ma subito la ragazza alta e castana che – ci avrebbe giurato – piaceva a suo fratello, Diane, si profuse in disparati racconti cui subito si unirono anche gli altri, rendendola partecipe di tutte quelle situazioni che, secretate o meno che fossero non importava, avevano vissuto da quando Meliodas – un ragazzino biondo tutto pepe molto preso da Elizabeth – li aveva reclutati in quella bizzarra squadra. Gowther, la Lussuria, aveva delle grane con il loro responsabile e non sarebbe potuto essere presente.
Ban e il Capitano, tra un racconto e l’altro, avevano ordinato da bere per tutti, senza chiedere a nessuno che cosa volesse in particolare – solo ad Elaine era stata riservata l’accortezza del drink rosso fragola che sorseggiava distratta prima di incontrare la Volpe. Un bicchiere dopo l’altro, l’atmosfera s’era intrisa dei fumi dell’alcol tanto che quasi non si erano accorti dell’arrivo dei due Sins mancanti.
Elaine li scrutò, osservandone i dettagli in maniera quasi maniacale, come aveva fatto per tutti gli altri presenti, memorizzandone dettagli, cercando di comprendere che persone fossero, i rapporti intessuti col fratello, il loro passato. Scavava a fondo nelle loro figure, nelle espressioni, negli atteggiamenti che assumevano, curiosa, indagatrice, alla ricerca di indizi sul mondo da cui era stata tagliata fuori anni prima, rinchiusa tra le mura della propria casa, gabbia dorata in cui i genitori le avevano tarpato le esili ali, sconvolti dalla perdita del figlio maggiore. Li osservava, macchinando, elucubrando i più disparati pensieri, teorie, ipotesi che andavano a coprire l’incessante rumore che nel suo inconscio aveva creato l’immagine del misterioso libro di Ban.
 
Rise, ascoltando storie che scadevano nell’irreale, nella fantasia scaturita dalla confusione dei ricordi data dalla frenesia delle scene di cui si erano resi protagonisti. Ma Elaine non dubitava, mai. Non delle eroiche imprese raccontate da Meliodas, non degli scorci di vita presentati da Elizabeth, non della forza di Diane o delle affermazioni compunte di Merlin; non dei timidi commenti mossi da Escanor, non delle acide battute del fratello. Ogni parola che si riversava nelle sue orecchie era per lei come oro colato, l’indiscutibile verità dei fatti. Avrebbe dubitato se avesse letto dei rapporti ufficiali, stesi con la fredda sapienza di un qualsiasi funzionario esterno ai fatti, di un qualunque spettatore al sicuro sulla sua poltrona che osserva il tutto dal suo comodo e sicuro drone; ma non quando sentiva loro narrare e ridere e riportare alla mente dettagli del tutto irrilevanti eppure così unici, veri, importanti a tal punto da dare all’intera vicenda la dimensione del reale, da distaccarla dalla semplice vicenda raccontata da un impiegato con un po’ troppa fantasia.
Elaine rimaneva estasiata, del tutto dimentica della musica che al piano inferiore martoriava le orecchie e lì giungeva come umile sottofondo, faceva domande e ne udiva le risposte divertita, rideva. Si sentiva finalmente libera dalla sua reclusione, partecipe di un mondo che per lungo tempo le era stato precluso. Si sentiva viva, finalmente sé stessa.
 
Il tempo sembrava scivolarle addosso, una percezione inutile, lontana dalla sua mente che macinava idee, pensieri, immagini e immagazzinava racconti; eppure così meravigliosamente vuota e leggera.
 
*
 
Alla soglia del locale, Elaine e King si erano stretti un lungo, sentito abbraccio. Si stavano salutando, non l’avrebbe riaccompagnata a casa.
«Non posso tornare a casa», le aveva spiegato. «Io sono morto».
Elaine annuì, improvvisamente ricalata nell’abituale, tediata austerità di cui si vestiva – per essere la figlia perfetta, sostituta di quello perso a causa della sua imperfezione, delle sue pessime scelte. Sapeva bene quanto fossero riservate le loro conversazioni via lettera, autorizzate dopo un lungo, interminabile percorso fatto di minacce, udienze, lenti meccanismi della burocrazia. Aveva dovuto firmare un accordo di riservatezza che le impediva anche solo di accennare al fratello o ai Sins dopo che alla loro porta si era presentato un agente con un’urna e un ben poco sentito dispiacere per l’orribile notizia.
E i loro genitori l’avevano rinchiusa nella loro splendida villa, immensa prigione che la stritolava e la soffocava ogni giorno che passava, terrorizzati all’idea che anche Elaine potesse finire divorata da un’amicizia sbagliata – che mai lo era stata – come era successo al fratello Harlequinn.
 
«Non ti preoccupare, me lo aspettavo.» Il tono algido gli scavò una gola nel cuore. Quando la sua allegra, solare sorella era diventata tanto fredda, rigida come la dama preconfezionata da un’etichetta che stonava sul suo bel viso da fata?
«Mi dispiace non poterti accompagnare.»
«Tornerò a casa così come sono arrivata qui: sana e salva. Me la so cavare.»
«Volevo solo passare ancora un po’ di tempo con te.»
«Oh». Negli occhi di Elaine tornò a risplendere quella scintilla che li rendeva così belli, vivi, lontani dalla bambola che loro avevano creato – e che lui aveva aiutato a creare. Gli si strinse il cuore.
«Posso venire io con te?»
Solo allora i fratelli richiamarono alla mente l’immagine del mondo circostante, che scorreva ancora frenetico ignorandoli: Ban era accanto a loro, sovrastandoli con la sua spaventosa altezza.
Elaine e Harlequinn si fermarono ad osservarlo nella sua espressione disinteressata tanto da essere difficile da decifrare.
King sapeva bene quanto quel ragazzo potesse essere letale, insensibile persino alla più cruenta delle morti, spesso operata per mano sua. Sapeva che, in fondo, Ban era buono ma era troppo imprevedibile perché King si fidasse di lui al di fuori del campo e nessuna delle Sette Regole poteva arginare la sua preoccupazione.
Elaine spostò lo sguardo sul fratello: sapeva che non avrebbe parlato, nonostante il suo volto esprimesse il suo rifiuto; avrebbe lasciato che fosse lei a scegliere ed Elaine lo apprezzò. Era cambiato ed era tutto merito dei Sins.
Sorrise. «Molto volentieri.»
 
Il viso di Ban si fece immediatamente limpido, chiaro, leggibile: mostrava tutta la sua gioia nell’udire la risposta affermativa, assieme alla sua di sorpresa. Non si aspettava tale esito da parte di una ragazza che aveva praticamente appena conosciuto.
«Davvero?» Sembrava incredulo ed i due fratelli seppero che era un’emozione sincera. Elaine ridacchiò: come aspettarsi il giubilo di un bambino da un ragazzo che pareva e sapeva essere un criminale efferato?
 
«Sì»
 
*
 
La strada scorreva sotto i loro piedi al ritmo lento e dalla cadenza rilassata di Elaine. Ban si costringeva a stare al passo della ragazza, grande la metà di lui eppure di almeno cinque anni più grande. Faticava a crederlo, eppure il suo sguardo gliene dava un’ incontestabile, continua certezza. Ai lati della via di campagna gli alberi stavano quieti, rifugio degli abitanti del bosco che circondava la proprietà dei Flary.
Sul volto di Elaine, appena si erano incamminati, la rigidezza che le imponeva l’etichetta si era sciolta come cera al fuoco e Ban non poté che esserne felice. Ora la sua espressione era sì neutrale, ma i suoi occhi esprimevano contentezza e rilucevano della fioca illuminazione che davano i rari lampioni a lato strada e la luna, grande e piena che faceva bella mostra di sé nel cielo punteggiato di astri.
 
Il silenzio era interrotto solo dallo scalpiccio dei loro passi sulla strada e dal cicaleggio allegro degli animali notturni attorno a loro, dando ad entrambi una sensazione di famigliarità, di casa, quieta e serena.
Fu Elaine ad interrompere l’idillio, spinta dal segreto impulso di voler sentire ancora la sua voce, ripulita del fastidioso sottofondo del locale. «Allora, di che cosa parla il libro che hai scritto?»
Ban sembrò impiegare un attimo a registrare la domanda. «Uhm? Per fortuna qualcuno mi ascolta quando parlo!» commentò, soddisfatto. «È una raccolta di tutte le Ale del Paese, con tanto di approfondimento a cura del sottoscritto ed etichette» spiegò, orgoglioso della sua opera, sotto lo sguardo leggermente sorpreso di Elaine.
Era una reazione ovvia, comune a tutti quelli che scoprivano per la prima volta di cosa andasse tanto orgoglioso; quello che non si aspettava, però, era che negli occhi di Elaine si delineasse una scintilla curiosa.
«E le hai provate tutte?» chiese.
Ban rise: «Mi sono preso una sbronza per ognuna.»
Anche Elaine rise: «Racconta»
 
«Posso farti una domanda?»
Il silenzio era calato da qualche minuto, per permettere ad entrambi di recuperare un po’ di fiato – speso in racconti e risate – perso lungo la strada. Oramai mancavano meno di due chilometri alla villa e dalla loro posizione, oltre i tronchi degli alberi, un luccichio baluginava ora alla sola luce della luna.
Lo sguardo di Elaine si era fatto più cupo, spento.
«Mh?» Elaine si arrestò, osservandolo con sguardo interrogativo.
«Perché non te ne vai e basta?»
La ragazza ammutolì, perfettamente conscia di ciò a cui Ban si stava riferendo. Perché non scappava da quella prigione d’oro una volta per tutte? Perché si ostinava a ritornarci dopo aver assaggiato la libertà?
 
«Io…» iniziò, insicura. Non aveva una risposta certa, si era sempre limitata a respirare quel tanto che bastava a resistere.
Ban sollevò un sopracciglio, l’espressione che trasmetteva la sua attesa, la sua impazienza di udire la risposta – che per lui era così ovvia, scontata. «Ci hai mai pensato, almeno?» chiese ancora, davanti alla sua incertezza.
 
Il viso di Elaine si tese: ogni tanto fuggiva, terrorizzata dall’idea di soccombere nella stessa casa in cui era confinata, ma mai usciva dai confini che il lago oltre la loro proprietà tracciava, specchio della sua libertà tanto sospirata, raggiunta nel suo riflesso piatto nell’acqua, nella tranquillità di una lettura in compagnia degli uccelli sul ramo di un albero. Quella sera era stata un’eccezione, la prima, e l’idea di tornare in gabbia, mesta e obbediente bambola, le rimestava le membra. Ogni passo che faceva verso la sua prigione sembrava appesantire l’aria, resa respirabile solo dalla presenza di Ban.
Di tanto in tanto, appollaiata come un gufo sugli alberi, aveva pensato di spiccare il volo assieme alle poche cose di cui realmente le importava – l’anello di nonno Gloxinia, le lettere di suo fratello, qualche abito e i suoi risparmi – e sparire nella notte. Ma poi prendeva sostanza il rimorso, il senso di colpa che il solo immaginare di privare i suoi genitori di un altro figlio – per quanto poco tempo passassero effettivamente con lei – la costringeva a tornare per terra, nell’edificio che chiamare casa le risultava oramai impossibile.
 
«Sì» esalò solo. Nei suoi occhi, lacrime che si rifiutava di far scorrere, tristi specchi del suo dissidio.
Le posò una mano sulla spalla esile, Ban, e strinse leggermente. «Capisco» disse, un angolo della bocca sollevato, la serenità da infonderle negli occhi e la soddisfazione per la risposta che vibrava nella voce. Bastò per rincuorarla. «Va bene», aggiunse.
In silenzio, ripresero la lenta marcia verso la villa, con l’aria un po’ più greve di quando erano partiti.
 
Sulla soglia del passaggio che usava Elaine dovettero salutarsi.
«Posso scrivere anche a te?» chiese sottovoce.
Ban sembrò meravigliarsi della richiesta: «Sarebbe fantastico se ricevessi anch'io qualche lettera!». Il tono era quello gioviale che l’aveva contraddistinto per tutta la serata.
Elaine sorrise, ma prima che potesse salutarlo, Ban si mise a frugare nelle tasche della sua giacca. Ne estrasse un piccolo volume dalla copertina consumata e dal titolo impresso a fuoco sul cuoio: Tutti i gusti delle Ale.
Glielo porse.
«Magari, la prossima volta che ci vedremo, mi dirai che ne pensi», sorrise.
«Certamente»
 
Stettero in silenzio per qualche secondo, interrotti solo dal fruscio del vento sulle fronde. Se fosse dipeso da Ban, avrebbero potuto rimanere così, bloccati a guardarsi negli occhi per tutta l’eternità, ma lo strano senso del dovere – verso chi, poi? – di Elaine ebbe la meglio.
«Allora…» iniziò, ancora incerta. Nemmeno lei voleva che quell’incanto si spezzasse. «Buona notte, Ban.»
«’Notte, Elaine»
 
*
 
Quando la luce rosata dell’alba filtrò oltre le tende, Elaine ancora non dormiva. Il sonno non l’aveva minimamente sfiorata, quella notte, nonostante le palpebre pesanti e la mente annebbiata. Era sufficientemente lucida da sapere di non star dormendo, ma durante quell’alba stupenda sognò di essere una fata e di poter volare via, alla ricerca di quel bandito che le aveva instillato il coraggio per staccarsi dalla terra e viaggiare.









Noticine dell'autrice
Massalve!
Eccomi qui con la mia prima storia su questa sezione! In realtà, ho davvero poco da dire, se non che questa storia mi ha preso ben più di un mese, tra impegni e cali d'ispirazione ma... sì, posso dire di esserne soddisfatta e spero che piaccia anche a voi! 

Per oggi, passo e chiudo.
Tata
   
 
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