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Autore: A b y s s    08/05/2017    1 recensioni
|Contest indetto da Nhikaoru|
Le dita esili e frementi strinsero il vetro con una lasciva veemenza, abbandonandosi contro la superficie intiepidita. Le ossa - così visibili sotto la pelle tirata e bianca delle falangi - tintinnavano contro le pareti del bicchiere, coprendo il liquido ambrato al suo interno con tre cerchie di carne umana.
Quelle stesse dita sollevarono il contenitore dalla superficie di legno - incisa da segni di avventori passati - e lo condussero ad un paio di labbra screpolate, sottili, ferite da denti nervosi. La bocca accolse il vetro e la sua gola ricevette il liquore, bruciando di insofferenza mal repressa, esplodendo in un colpo di tosse rauca.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prompt: Il sublime
Lunghezza: Monocapitolo (drabble, flash-fic, one-shot)
Scadenza: 08/05/2017

Note sul tema: Sublime [su-blì-me]
Il livello più alto, il sentimento più elevato, il bello e il grande al sommo grado.






 


Le dita esili e frementi strinsero il vetro con una lasciva veemenza, abbandonandosi contro la superficie intiepidita. Le ossa - così visibili sotto la pelle tirata e bianca delle falangi - tintinnavano contro le pareti del bicchiere, coprendo il liquido ambrato al suo interno con tre cerchie di carne umana.
Quelle stesse dita sollevarono il contenitore dalla superficie di legno - incisa da segni di avventori passati - e lo condussero ad un paio di labbra screpolate, sottili, ferite da denti nervosi. La bocca accolse il vetro e la sua gola ricevette il liquore, bruciando di insofferenza mal repressa, esplodendo in un colpo di tosse rauca.
Le mani abbandonarono il bicchiere e si posero davanti ai due labbri, per non rovesciare quella tosse ovunque. Gli occhi verdi si strinsero per il fastidio e le palpebre sbatterono tredici volte filate, poco prima di riaprirsi - due splendidi smeraldi in un buio di aberrante opacità.
Di nuovo le mani - con la loro pelle callosa e sottile, quasi trasparenti - si alzarono, ad infilarsi tra i ciuffi biondo paglia, si strofinarono sugli occhi stanchi.
Arthur cacciò un lungo e profondo sospiro, e allontanò da sé i nove bicchieri di veleno che si era rovesciato in gola, sentendosi solo dolorante - non morto.
Lasciò sul tavolo il congruo pagamento per l'oste (che lo aveva guardato per tutta la serata con aria estremamente contrariata), e si alzò in piedi.
Percorse una distanza di due metri e spalancò la porta. L'aria notturna - sorprendentemente fredda - lo colse di sorpresa, e lo spinse a serrarsi ancora di più nel suo cappotto verde scuro. Corrugò la fronte, portando le sopracciglia ad arcuarsi in una buffa smorfia. "Freddo" riuscì a pensare, nonostante sentisse il cervello atrofizzato dall'enorme quantità di alcol assunto. Il vento da Nord di sicuro aiutava poco.
Il mare, poco avanti a lui, cantava con voce soave una melodia, musica e parole a lui sconosciute - forse dimenticate. Rimase ad ascoltare, le palpebre abbassate, sotto la luce di pochi lampioni, le braccia incrociate al petto. La quiete prima della tempesta.
Guardò in alto, rivolse le sue fredde sfere verdi nella volta celeste, blu ed immensa.
Arthur non aveva mai saputo esplorare davvero il cielo. Mai si era soffermato - nelle notti d'agosto - sulle stelle e sul manto nero che le affogava, cercando un rimasuglio di una coda argentea, che sfrecciava oltre i confini dell'umana immaginazione.
Troppo illogico, troppo strano, si diceva, apparendo convinto di questa sua spiegazione. Solo dopo rammentava, con fare un poco sorpreso, di essere colui che parlava con le fate e con adorabili coniglietti dalle ali verde menta.
Ciò che non avrebbe mai ammesso, però, sarebbe stata la paura - il terrore - che provava nei confronti del cielo. Non era come il mare, una liquida terra con confini e punti sicuri, ripari per le insidie che in realtà nascondeva. Il cielo era troppo immenso per poter essere controllato, privo di limiti.
Così spaventoso.
Così affascinante.
Quella notte Inghilterra, però, guardò per la prima volta - in maniera diretta - quel colosso che tanto lo atterriva. Una volta Grecia gli aveva detto che, secondo le sue tradizioni, il cielo era in realtà un essere antico ed immortale. Urano, si chiamava, sorretto dalle possenti braccia di un titano, Atlante.
"Impossibile" aveva pensato quel giorno. Ma ora, quasi quasi gli parve di vedere un volto in quel cielo sconvolto dalle luci dei fuochi artificiali, due occhi severi e calmi - scomparvero in un frammento di secondo.
Lampi rossi, gialli, che si fondevano nel blu eterno e compatto, smuovendone la massa scura, giocando con le stelle cadenti, mentre queste scivolavano via, con le loro code d'oro e d'argento nell'aria - un intreccio di scintille luminose e sfavillanti.
Arthur non riuscì a pensare nulla, le luci che si riflettevano nelle sue iridi, prendendo il posto del nero nelle sue pupille. Come si poteva pensare, in un frangente di simile bellezza?
Perché tutto quello era splendido, come un quadro dipinto in un raptus di follia estrema - così bello e incredibilmente insensato - e lasciato lì, sotto le luci di mondi lontani.
Il blu si striò di un bianco argentino, di punti giallo oro, alzandosi in splendide onde voluminose, più belle di quelle del mare, impreziosendo Londra con quello scenario.
Era come una rappresentazione a teatro, questo pensava Inghilterra, una finzione così bella da sembrare viva, veritiera.
Il mare continuava a cantare, ma al suo canto da contralto ora si era aggiunta la controvoce del cielo, cristallina e dalle alte ed armoniose tonalità. Uno splendido duetto, che si perdeva nell'orizzonte, l'uno riflesso nell'altro, immersi nella luce e nell'ombra, quel contrasto degno di un dipinto di Veneziano Vargas.
Per la prima volta - come non accadeva da secoli - Arthur Kirkland riuscì a respirare senza avvertire i polmoni bruciare ed esplodere contro la cassa toracica, un momento di fresca libertà.
Fu estasi, un'estasi buona, senza la malsana oppressione dell'oppio e delle droghe estranee: un cervello distrutto e un cuore stanco bastavano per distorcere la realtà.
A volte Arthur pensava con rimpianto ad una morte umana, veloce, ma non fu quello il caso: rimase a guardare in alto, il sorriso sulle labbra, le mani tese a quello spettacolo effervescente che solo lui, tra tanti, poteva vedere.
E quando chiuse gli occhi, ritrovando la freschezza del buio - nella vecchia camera scrostata - aveva ancora il sorriso sulle labbra e le luci delle stelle impresse nelle palpebre.
Troppo perfetto per svanire.
   
 
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