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Autore: Crazy Roll    09/05/2017    3 recensioni
La storia è ambientata poco dopo la battaglia tra Meruem e il presidente Netero.
Quest'ultimo è già morto e il re delle Formichimere sembra destinato alla stessa sorte. Così, prima di abbandonarsi al torpore mortale che ormai lo invade, Meruem riflette sui motivi della propria sconfitta, sul turbamento che affliggeva il suo animo da quando conosce Komugi e dalla tenacia del presidente Netero, che non si era mai arreso alla sconfitta.
La narrazione si conclude con l'arrivo di Youpi che, assieme a Pouf, si era precipitato a cercare il re.
È la prima storia e la prima fan fiction che pubblico in assoluto: mi ha incuriosito la figura di Meruem perché non riesco a considerarlo cattivo, per quanto possa mostrarsi spietato. A mio parere è solo venuto al mondo senza saper vivere, provvisto di un corpo perfetto ma incapace di ambientarsi. Aveva trascorso la prima parte della sua esistenza obbedendo al progetto di conquista del mondo per cui era nato, ma aveva iniziato a nutrire dubbi sulla sua identità dopo l'incontro con la debole, ma fiera, Komugi, notando che era un re che abitava in un palazzo rubato con dei servitori marionetta. Ho provato a immaginare i suoi pensieri.
Buona lettura!
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Meruem
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Fa caldo. Un caldo insopportabile che secca la bocca e disorienta il pensiero rendendolo sconnesso e indebolendo il nesso logico tra le immagini che si susseguono nella mia mente, senza posa ma ormai senza ordine. 
Sto morendo, sono ridotto ad un tronco carbonizzato in cui la vita è fievole come la luce di una candela nel pieno di un soleggiato meriggio estivo. Non sento più il dolore, che d’altronde non ha mai afflitto il mio corpo perfetto, risultato dello sforzo di tutta la mia specie.
Già, ho detto così al vecchio. Quanto tempo fa? Un minuto fa? Sì, deve essere così. Un minuto fa ero pieno di potenza e di fulgore e stavo per concludere una partita che consideravo già vinta. L’avversario, ormai piegato, che stava davanti a me, aveva la gamba troncata e il braccio reciso e sanguinante. La forza fisica che lo circondava andava spegnendosi e lo abbandonava, svelandone l’età e la saggezza.
Però, mi turbava quello sguardo enigmatico e intelligente che mi sfidava, nonostante per lui fosse finita. Ora capisco che lui mi aveva condotto in scacco prima che me ne potessi accorgere e che non ero stato capace di sconfiggerlo. Giace qua, chissà dove in questo inferno di fuoco e lapilli e tenebra schiarita da un rossore ancora più sinistro.
Nonostante fosse evidente lo squilibrio di forze che distanziava lui da me, il chiarore della sua forza risplendeva in quegli occhi. Non era arrendevole, né incline ad atti sfolgoranti di bontà, come penso che sarei stato io, se mi fosse stata concessa l’opportunità di rivestire il ruolo per cui sono venuto al mondo. Prima di tutto direi che era sicuro, monolitico, solido. Una roccia temprata e indurita dalle stesse intemperie che l’avrebbero potuta frantumare. Per quanto avesse l’aspetto di un saggio, non percepivo in lui amore incondizionato o affetto né devozione ad un bene superiore. Era intessuto e consapevole della varietà del mondo, della sua torbida contingenza e del fatto che in noi coabitano opposti inestricabili. Accettava il proprio destino senza rassegnarvisi e senza annacquare uno spirito malizioso e combattivo in una volgare affettazione. Non era innocente, tutt’altro, le battaglie che in passato doveva avere combattuto ne avevano intaccato lo spirito: egli non le voleva dimenticare, né si rivestiva  delle proprie vittorie e  degli spargimenti di sangue, di cui si era macchiato, come un trofeo. Un uomo che era pronto al sacrificio quanto al sotterfugio più disgustoso. Un uomo che conosceva la vita ed era tutt’uno con essa.
Io non avevo speranza di vincere perché, invece, non conosco nulla. Noi Formichimere siamo nate a metà. E questo ha siglato la nostra sconfitta. Sono nato in un trionfo di forza, lacerando il ventre di chi mi aveva messo al mondo, senza una parola di gratitudine per tutto ciò che aveva prodotto la mia esistenza. D’altronde, non era possibile. Ero un meccanismo psicofisico perfetto, compiuto e progettato per dominare senza una persona che lo reggesse e lo orientasse. Non avrei potuto rispondere nulla se qualcuno mi avesse chiesto chi fossi e solo ora, a quel senso di disorientamento tremendo, riesco ad avanzare una pallida panacea: Meruem, il mio nome, che beffardamente ho appreso prima di morire.
La mia forza fisica è quella di un’arma potente con istinti raffinati e definiti, ma nulla che assomigliasse alla conoscenza di me stesso o di ciò che mi circondava. Ho ucciso per gioco una bambina, tra i sorrisi e l’approvazione delle mie Guardie Reali. Poi le ho mangiato il cervello. Una natura dispotica insita in me rendeva queste azioni naturali e legittime, e non penso di essere cambiato molto. Pensavo di essere pronto solo perché ero mostruosamente forte, di una forza insensata e ottusa, rivolta alla distruzione. Il vecchio non era così: brutto, laido, piccolo uomo ma  se non altro capace di dire addio ad una vita compiuta, matura, costruita. La stessa coraggiosa rassegnazione è quella che mi ha fatto apprezzare Komugi, tanto debole, un nulla, un organismo rotto e mal funzionante, ma tanto capace di vivere. Esempio di una dignità che non sfocia nell’orgoglio e di un’umiltà che non si intorbida di viltà. Penso che quella ragazza abbia fatto crescere noi, infanti in un corpo di semidei. Io ho imparato che cosa voglia dire rifulgere di forza nella più completa e manifesta debolezza e Neferpitou, che mi è stata sempre fedele, ha compreso il calore della pietà. La sua fedeltà è sempre stata indiscussa, per quanto all’inizio fosse espressa con una fastidiosa solerzia e con quegli occhi sbarrati, allucinati e insensibili. Ricettori che altra funzione non avevano se non quella di mostrarle prede da cacciare per me e nemici da cui proteggermi.
Ma ho visto un intreccio di sentimenti contrastanti, quando le ho porto il corpo di Komugi, ferito e quasi senza vita: sembrava scontenta che qualcuno mi fosse più caro di quanto lo era lei e al contempo era chiaro che il più caro al mondo per lei fossi io. Ho visto sciogliersi quello sguardo terrificante, espressione di un’aura capace di fare impazzire al solo contatto, in una dedizione preoccupata e insicura, timorosa di non riuscire nel proprio compito. E io ho provato, per la prima volta, riconoscenza verso quelle creature dimidiate come me, incomplete e fallate, dotate di una potenza ingovernata e sconosciute a sé stesse che sono le mie Guardie Reali.
Mentre comincio ad avere freddo, nonostante veda il paesaggio che mi circonda farsi più incandescente, rivolgo un ultimo pensiero a Komugi e Neferpitou china sopra di lei, pronta ad usare Doctor Blythe e a curarla.
E realizzo che noi Formichimere siamo infelici per costituzione, animali autocoscienti, devastati da sentimenti umani che non ci appartengono, ma ci sovrastano. Non era proprio possibile che riuscissimo a dominare il mondo. Lo avremmo solo raso al suolo, con brutalità e insipienza. È stato giusto così. Solo scacco matto e sconfitta potevano essere il nostro destino.
Adesso mi accoccolo nel buio crescente e accogliente, che oscura anche i pensieri, e li dissolve nella pace, rotto solo dal crepitio delle fiamme che mangiano le rocce e da un rumore ciottoloso, come di zoccoli che camminano concitatamente…

   
 
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