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Autore: il truzzo    10/05/2017    0 recensioni
Nel 222 a.c. a Casteggio, poco distante da Voghera si combatteva una battaglia tra due mondi, quello romano e quello celto-insubre. Questo racconto vede la battaglia dal punto di vista di un guerriero di Iria, l'antica Voghera.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Il sole scaldava le membra ed una leggera brezza accarezzava la pelle. Nel mentre, tutto il mondo attorno ruotava vorticosamente.
Cador era ancora inebriato dalla libertà che il suo rix gli aveva donato il giorno prima. Il torque che portava  al collo, simbolo di questo suo nuovo status, lo aveva reso un uomo libero. Schiavo fin dalla nascita, era solo un orfano delle tante guerre tra le genti insubri. Il rix degli Iriati aveva deciso di ospitarlo nella sua casa, e nonostante fosse uno schiavo, lo aveva cresciuto affianco ai suoi figli. Una volta cresciuto, era diventato un uomo saggio ed un ottimo guerriero, sempre in prima linea durante gli scontri. Ma restava solo uno schiavo. Spesso Il rix ne ascoltava le parole e lo rispettava più dell’unico figlio maschio che gli dei gli avevano concesso. E questa era buona cosa: costui, un uomo rancoroso e dalle scarse qualità, era malvisto dalla tribù. Il fatto stesso che uno schiavo potesse aver parola negli affari della tribù lo aveva divorato dentro, tanto che alla fine aveva scelto di tradire gli iriati e di passare al fianco dei Romani assieme ai Macri. Suo padre si era sempre opposto a qualsiasi possibilità di venire a patti con il nemico romano. Non gli interessava la disparità di forza tra loro ed il nemico che veniva dal centro della penisola italica. Un Iriate non si piega al nemico. Combatte e muore per la sua terra, sulla sua terra.
Nonostante tutto la maggior parte delle tribù aveva cercato di trattare con Roma, ma questa non voleva un trattato di pace, solo la resa e la sottomissione.  Per questo i consoli mandarono le legioni verso le terre dei celto-insubri con lo scopo di schiacciarli definitivamente. A Clastidium i due nemici si affrontarono nel primo anno del consolato di Scipione e Marco Claudio Marcello.
La cavalleria e i legionari di Marco Claudio Marcello si schiantarono contro le forze celto-insubri sovrastandole numericamente e tatticamente. Le truppe andarono in rotta in poco tempo. Ormai Roma non temeva più quelle genti.
Cador se ne stava in piedi immobile, con il respiro appesantito dalla fatica e con il corpo tremante. L’adrenalina lo aveva reso insensibile alle ferite, ma il calore che lento iniziava a scendere lungo la gamba destra gli ricordava che il suo tempo stava per finire. Non era spaventato della cosa. Anzi, respirava a pieni polmoni quell’aria che, da libero, aveva un gusto completamente diverso. Anche il mondo attorno aveva assunto un aspetto diverso, quasi come se da un momento all’altro fosse stato scagliato in una terra straniera.
Cinque romani gli stavano attorno, a distanza, tranne uno che aveva in mano una lancia e lo punzecchiava. Era ferito. La pancia dilaniata dal colpo di spatha di un cavaliere. Eppure continuava a stare in piedi e a rispondere con ferocia ai colpi. Se fossero stati di più sarebbero stati i romani a scappare. Ma ormai non si poteva più cambiare il corso degli eventi. Gli restava solo la possibilità di morire su quel campo, da guerriero e uom  libero. Altri li aveva visti scappare. Ma lui non sarebbe scappato. Sarebbe restato lì a fronteggiare i nemici fintanto che il suo corpo glielo avrebbe permesso.
I nemici gli urlavano in faccia con una lingua che non conosceva, ma ne capiva il significato. Lo stavano deridendo. Lo avevano scambiato per una bestia con cui giocare un sadico gioco, come se fossero al circo.
Ma non avevano fatto i conti con lo spirito guerriero del suo popolo. Un romano vedendolo stanco sperò di coglierlo di sorpresa con un sagittario. Caricò il braccio sinistro con tutta la sua forza e scagliò lo scudo puntando la testa dell’iriate. Con uno scatto, quest’ultimo si abbassò inginocchiandosi portandosi con tutto il corpo sotto allo scudo nemico. Con un affondo caricato con le ultime forze, la spada attraversò il corpo del romano, sparendo nelle sue viscere e ricomparendo oltre la sua schiena.
Il corpo inerte del legionario, trascinato dalla sua stessa irruenza, cadde su Cador, schiacciandolo supino a terra. Ormai stremato, cercava di risollevarlo, ma ogni movimento era diventato insopportabile a causa del dolore.  Gli altri aguzzini gli si strinsero intorno, approfittando della morte del compagno per poter avere la meglio su un solo uomo, un solo guerriero. Quello più vicino fece scattare in avanti il suo gladio colpendolo alla gola, mentre gli altri affondarono le loro armi ovunque potevano. Il sangue ormai sgorgava fluente dalla gola e la vita lo stava abbandonando, ma nel sopraggiungere della morte né piangeva né chiedeva pietà.
Rideva felice perché anche se stava morendo lo stava facendo da uomo libero.
I romani si azzittirono davanti a quello spettacolo. Capirono di trovarsi di fronte a ciò che loro non potevano essere, un vero guerriero, e se ne andarono lasciando Cador nelle mani dei suoi Dei.
   
 
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