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Autore: pandamito    11/05/2017    0 recensioni
Mentre da una parte nel mondo Andrea e Giuliano incontrarono Licia per caso, in un’altra parte sempre molto super random qualcuno mi chiese mi raccontare una storia. Sinceramente non ne avevo proprio voglia, però sapete com’è, non avevo niente di meglio da fare mentre il torrent finiva di scaricarsi e poi ho realizzato: quello era il mio momento. Il Destino, il Fato, un cavallo, qualcosa di mistico e onnipresente che governava le forze dell’universo mi stava dando l’opportunità che avevo sempre aspettato per risplendere ancor di più, per infangare ancora il nome di qualche persona e bearmi delle loro sventure.
E così una testolina riccia e nera trotterellava tranquilla per strada, intento nel tornare a casa da-
No, aspettate, non è così che inizia la storia.
Torniamo indietro. Rewind.

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Basically: gente molto random e scapestrata abita in un condominio dove succede di tutto e di più e fanno cose.
Ovvero chiamata "la storia che nessuno aveva bisogno che io scrivessi".
Genere: Commedia, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash, Crack Pairing
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome
Capitoli:
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«Professoressa Trintignant! Professoressa Trintignant! Theodore sta dormendo!» trillò una voce.
Il suono diede enormemente fastidio a Theodore quando raggiunse le sue orecchie, tanto che strizzò gli occhi, ma si accorse da questo gesto che li aveva chiusi e che un attimo prima stava dormendo, visto che non ricordava cosa stesse facendo. Certo, alcuni di voi potranno dire che spesso non ricordano le cose o che sognano a occhi aperti, ma quello non era il caso di Theodore.
Aprì gli occhi quasi dolorosamente e realizzò di avere la testa poggiata su qualcosa di duro che sembrava essere un banco. Alzò il busto e si guardò intorno: era infatti, apparentemente, in una tipica aula liceale, in cui era già di norma costretto a passare la maggior parte del suo tempo. Attorno a lui i banchi erano occupati da altri studenti che avevano un qualcosa di familiare.
Di fronte a lui c’era la cattedra su cui era appoggiata quella che doveva essere la professoressa: a occhio e croce piuttosto giovane, lunghi capelli biondi legati in alto, gli occhi grandi e verdi sembravano persi nei suoi ricordi, stile anni settanta. Era una bella donna, peccato che Theodore Orwell non provasse il benché minimo interesse a riguardo. Quella sembrò ignorare totalmente la voce che Theodore aveva udito prima e poté intuire che essa apparteneva a una ragazza al primo banco che era voltata verso di lui e digrignava i denti, come se infastidita dal fatto che non fosse stato richiamato; aveva i lunghi capelli castani, un po’ crespi, con la frangia, e gli occhi scuri che lo fissavano. Theo corrugò la fronte perché quella ragazza era palesemente Tempest Brennan, la tizia dell’appartamento numero otto al terzo piano.
Che diavolo ci faceva Tempest in classe con lui?
Si voltò verso gli altri suoi “compagni” e quasi gli venne un colpo: al banco di fianco a lui c’era sua sorella Peggy, che però sembrava ringiovanita di qualche anno. Ma era decisamente lei e Theodore avrebbe potuto riconoscerla in qualsiasi caso per lo smartphone in mano con tanto di cover glitterata.
«Perché diavolo sei in classe mia?» domandò, un po’ perplesso e quasi disgustato.
Sua sorella si fermò per un attimo da qualsiasi cosa stesse facendo col cellulare e si voltò verso di lui, sfoggiando un’espressione schifata di rimando e Theodore non poté che essere ancora più sicuro che fosse lei.
«Sto aspettando di prendere un diploma per andarmene» ripose e il minore degli Orwell non poté che concordare mentalmente.
Il suo sguardo poi si posò qualche banco più in là, dove una testolina bionda spiccava tra tutti, appartenente un ragazzo intento a prendere appunti senza tregua. Dietro di lui un ragazzo dai capelli corvini legati indietro in una crocchia e gli occhi azzurri, che stava sorridendo maliziosamente, divertendosi nel dare dei piccoli calci alla sedia del biondo davanti per dargli fastidio. Theodore sussultò e sgranò gli occhi perché non c’era alcun dubbio: quel ragazzino moro era suo fratello Anthony, tale e quale alle foto nei suoi anni da liceale. Era intuibile quindi chi fosse il biondo dall’aria familiare che occupava il banco di fronte e, alla visione di quei due che facevano gli innamorati anche lì, Theodore quasi sentì i conati di vomito salirgli in gola.
Alexandre con aria scocciata si voltò di scatto all’ennesimo calcio. «Smettila, è una lezione importante!»
Spoiler: non lo era.
La professoressa Trintignant stava parlando delle sue avventure giovanili sin da quando Theodore si era svegliato e il giovane si chiedeva da quanto stesse continuando.
Tony roteò gli occhi e il suo sorriso divenne ancor più grande. «Dimmi che non stai seriamente prendendo appunti su quella volta in cui fece paracadutismo sulle alpi francesi perché potrei prenderti in giro per il resto della mia vita» lo avvertì.
Alexandre tornò al suo posto, schiena dritta sulla sedia e sguardo basso sul suo quaderno. «Sta’ zitto» sussurrò, ma le sue gote arrossirono. Con la mano sinistra afferrò quella a penzoloni di Tony che stava dietro di lui e rimase così, mentre con la destra teneva la penna. Tony non disse nulla, appoggiò il gomito destro sul banco e il mento sulla mano, mentre con la sinistra stringeva quella del biondo. Prediligendo la sinistra, Tony aveva ancor meno voglia di interessarsi al proprio quaderno, ma andava bene così, sebbene l’espressione incantata sul suo volto fosse estremamente sdolcinata e da voltastomaco.
Fu a quel punto che una voce si immischiò nel discorso, riportando Theo alla realtà. «Io credo che la lezione di Alphie sia molto interessante.»
Theo si voltò immediatamente dietro di lui, da dove era arrivata la voce, e al banco alle sue spalle vide suo fratello Philip, che, per contraddizione, invece di prendere appunti stava scarabocchiando cose indefinite sul suo quaderno.
Peggy si sporse dal suo posto per avvicinarsi al penultimo dei fratelli, mostrandogli il suo cellulare con la pagina aperta su instagram. «Ok, quale filtro ti sembra migliore?»
Theo invece si concentrò su ciò che aveva detto il fratello un attimo prima. Alphie. Non gli era nuovo, quel nome, e presto ricordò che era il diminutivo con cui Philip era solito chiamare Alphonsine, la gattara zitella del numero quindici al quinto piano. In effetti, ora che le dava nuovamente un’occhiata, il suo aspetto corrispondeva ad alcune foto di lei da giovane che la donna mostrava a chiunque passasse. Inoltre, se fosse stata davvero lei, si sarebbe spiegato il perché dei lunghi sproloqui sulla sua giovinezza, che effettivamente erano una caratteristica peculiare della vecchia signorina Alphonsine Trintignant. Si accorse anche di un dettaglio che confermava la sua identità che prima non aveva – stranamente – notato: la cattedra era piena di gatti e cani e sulla sedia vi era una capretta.
La campanella suonò e gli altri fuggirono via. Theodore non sapeva che fare. Gli sembrava tutto così strano, le persone del suo condominio nella sua classe e con età inesatte. Cosa diavolo stava succedendo? Era sempre stato un tipo molto logico e che si atteneva solo ai fatti dimostrabili e quella situazione lo infastidiva non poco; doveva trovare una soluzione per ristabilire l’equilibrio della sua sanità mentale o sarebbe certamente impazzito.
Guardò il quaderno aperto sul banco e si rese conto di non riuscire a leggere ciò che vi era scritto. Lo chiuse e lo ripose dello zaino appeso dietro la sedia, quando sentì qualcuno avvicinarsi. Alzò lo sguardo e vide una ragazzina dai lunghi capelli castani e gli occhi del medesimo colore che teneva per mano un ragazzo ricciolino sempre scuro di capelli e occhi. Entrambi gli sorridevano e a Theodore faceva male il solo guardarli perché... come diavolo facevano a fare dei sorrisi così grandi, non avevano male agli zigomi?
Cercò di trovare dei nomi da associare a quei volti così freschi e giovanili e intuì fossero Jaden Reed e il suo ragazzo storico, Roy Jones, che occupavano l’appartamento dal numero indecifrabile al quinto piano. Teoricamente doveva essere il numero sedici, ma per qualche motivo per cui nessuno sapeva dare una spiegazione sensata, i due avevano cancellato il numero per dipingerci invece un diciassette. Anche per questo spesso la loro posta andava persa. Erano anche gli occupanti del numero tredici, l’appartamento sottostante, nonché adiacente a quello degli Orwell. Sì, esatto, proprio i proprietari del famoso e presunto lanciafiamme di qualche capitolo fa.
Jaden aprì bocca per prima: «Ehi, Theo, stasera organizziamo un cineforum, vuoi-»
«No» tagliò corto l’interrogato, lanciando loro un’occhiata truce.
«Ma stavamo pensando di vedere Shining» tentò Roy.
«Quel film è sopravvalutato» affermò Theodore, non cambiando espressione. Roy si rattristò, mentre Jaden la prese sul ridere. Il corvino divenne ancora più annoiato. «Potreste andare a respirare da un’altra parte?»
Roy lanciò un’occhiata alla fidanzata, alzando il sopracciglio, e lei scrollò le spalle, stringendogli ancora la mano e uscendo assieme dalla classe.
Theo si voltò per vedere se nello zaino avesse qualche medicinale contro la nausea, ma scoprì che del suo zaino non vi era più traccia. Scomparso. Corrugò le sopracciglia, ma lasciò perdere, scocciato, e uscì anche lui dall’aula.
Peccato che neanche riuscì a svoltare verso gli armadietti che: «Ehi!»
Theodore ignorò completamente quella voce e si mise a fischiettare, ma all’improvviso un enorme braccio gli sbarrò la strada, costringendolo a impuntare. L’imponente Heather Jasper, col suo look da Sharpay Evans assunta per il numero oversize di PlayBoy e la sua pomposa chioma bionda tirata in alto probabilmente realizzata dall’acconciatore di Hairspray, lo guardava ammiccante, tenendo nell’altra mano dei volantini.
Theodore Orwell aveva già capito che sarebbe andata male ancor prima che Heather aprisse bocca.
«Sai, sto cercando nuove persone per il drama cl-»
«No» la interruppe immediatamente lui, cercando di superarla e proseguire per la propria strada.
La bionda gli si parò di fronte ancor una volta, bloccandolo, e continuò il discorso, ignorando completamente il suo precedente intervento: «-ub e sono sicura che sotto quella corazza da pulcino arrabbiato, non sei che un leone pronto a mostrarsi, devi solo cercare qualcuno che ti aiuti a spiccare il volo.»
«Penso che quello di cui stai parlando sia un grifone» precisò Theo, un po’ spaventato da tutti quei paragoni.
Ora, ancora oggi non siamo riusciti a spiegare le dinamiche di quel che successe in seguito, ma Heather cacciò in qualche modo una criniera di leone dalle sue tette.
Theo sbarrò gli occhi, perché «Come faceva quella cosa a stare lì dentro?» chiese, sconvolto.
Heather lo ignorò e infilò di forza la criniera in testa al minore degli Orwell, per poi sfoggiare un enorme sorriso. «Ecco, sei perfetto. Già ti segno per lo spettacolo» così dicendo, mise una semplice X su uno dei fogli che portava e poi se ne andò.
Il  corvino sbatté le palpebre ripetutamente. Non riusciva a riprendersi da ciò che era appena successo.
«Ehi, amigo» fece una voce alle sue spalle.
Oh, no.
Theo si voltò riluttante e dovette alzare un bel po’ la testa per riuscire a guardare il volto di Rafael Perez. Non che avesse bisogno di guardarlo in faccia per capire che era lui, visto che andava in giro a petto nudo, come sempre, indossando un paio di bermuda e delle infradito. In spalla aveva un asciugamano appeso.
Al suo fianco invece c’era il suo fedele cane gigante, che però… aveva… qualcosa di… strano. Theo, scandalizzato, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Mentre il corpo era quello di un bovaro, la testa era… umana. Aveva capelli rossi, il volto abbastanza squadrato, la barba curata e due occhi azzurri che lo guardavano in modo truce. Era Ernest Stages dell’appartamento numero undici.
Si fissarono.
«Mi hanno costretto a indossare questi cosi» disse Rafael, indicando i suoi bermuda e scuotendo la testa, come se fosse la cosa peggiore del mondo. «Ma l’ho fatto solo perché sennò coinvolgevano la polizia e, diciamocelo, a volte ci sono cose che meritano di essere protette più della propria libertà di vestiario. Ma protesterò, eh! Sia chiaro! Ognuno deve avere il diritto di poter girare nudo.» Theodore non lo stava minimamente ascoltando e le poche parole che giungevano al suo orecchio gli sembravano assurde. Continuava a fissare l’ibrido, che lo fissava di rimando. «Ah, comunque bella criniera.»
«Cosa vuoi? Una gara a chi fissa più a lungo?» questa volta fu proprio il cane a parlare.
Theo rimane nella stessa posizione precedente, nessun muscolo si mosse, solo le sue pupille si dilatarono.
«Rafael… senti… c’è qualcosa che non va nel tuo cane, per caso?» domandò, cercando di mantenere un tono di voce normale.
Rafael abbassò il capo verso il suo cane. «Oh, sta solo avendo una crisi di mezza età. Ora ha anche deciso di farsi chiamare Ernest-o e non Ernesto.»
«È Ernest! Solo Ernest, ti ho detto!» sbraitò l’ibrido, per poi ringhiare.
Il “padrone” ispanico ridacchiò. «Certo, certo, ma alla fine siamo arrivati a un compromesso, Ernest-o.»
«Non è vero, hai fatto tutto tu!» continuò a borbottare il cane.
«Oh, eccoti finalmente!» esclamò una voce in arrivo.
I presenti si voltarono per vedere Becky Sanchez arrivare come una furia col suo passo svelto. L’altra ispanica teneva i capelli castani legati in una coda di cavallo che facevano sembrare il suo viso ancora più tondo. In braccio teneva un bambino dai corti riccioli scuri e, appena raggiunse il gruppo, lo lanciò letteralmente nelle braccia di Rafael, che lo prese al volo.
«Ti ho cercato ovunque!» esclamò la ragazza – che sembrava piuttosto arrabbiata – verso Rafael. «Lo sai che appena esco di qui devo scappare immediatamente a lavoro! Avevi detto che ti prendevi cura tu di Cris, non puoi svignartela così! E ora sono anche in ritardo!»
«Non me la stavo svignando» si giustificò Rafael, sincero, «sai che adoro tuo figlio.»
Il volto di Becky divenne paonazzo, ma per la rabbia, e le sue mani si serrarono a pugno. «Non è mio figlio!» sbraitò come se ormai fosse vecchia storia. Ma non diede neanche il tempo all’altro di replicare, che già se n’era andata via correndo e iniziando a imprecare qualcosa di incomprensibile in spagnolo.
Il moro sospirò, per poi voltarsi verso Theo. «Senti, reggimelo un secondo» disse, praticamente mettendo il bambino tra le braccia dell’altro senza neanche dargli tempo di rispondere. «Devo andare un attimo ad aiutare il mio coinquilino. Ha detto che se non mangiamo tutte le pizze avanzate entro stasera sarà costretto a buttarle e io ed Ernest-o di certo non lo vogliamo» disse, scompigliando i capelli del proprio ibrido.
Quello ringhiò e scosse il capo, infastidito dal tocco. «A me delle vostre pizze non può fregar di meno» replicò il can- ehm… Ernest…o?
Rafael rise di gusto, dando una pacca sul sedere dell’ibrido. «Peccato che sia quella la tua unica cena» lo informò il cubano, allontanandosi ed Ernest-o, sebbene controvoglia, lo seguì.
Theodore Orwell in tutto ciò aveva un fottutissimo neonato addormentato in braccio e non aveva la minima idea di cosa fare. Tutto ciò che sapeva sui bambini l’aveva letto in qualche libro di sviluppo, ma niente di più, niente di pratico, senza contare che quei libri li aveva letti solo perché costretto! Cioè, semi-costretto. Come ogni libro, ci sono parti che vuoi leggere con tutto te stesso, ma devi prima leggere per forza altre parti meno interessanti per poter capire e arrivare dove vuoi. Diciamo solo che Theo fu costretto a leggere lo sviluppo dei bambini per qualcosa che aveva a che fare con cavallucci marini e alieni, ma è meglio non andare nei dettagli.
In sintesi, poco ci frega dell’esperienza di Theo e poco fregava a lui: doveva sbarazzarsi di quel moccioso in un modo o in un altro.
Iniziò a incamminarsi per il corridoio, che era improvvisamente deserto, sebbene non avesse sentito alcuna campanella suonare; la cosa più bizzarra era che più andava avanti, passo dopo passo, più si accorgeva di non trovare porte alle pareti. Era come percorrere sempre lo stesso punto per minuti e minuti senza andare da nessuna parte, un grande e lungo rettilineo monotono. L’unica porta che vedeva era quella dell’uscita di emergenza davanti a lui. Si concentrò su di essa, migliorando la presa sul piccolo Cris per non farlo cadere, e prese a camminare in modo più decisivo.
Finalmente riuscì a raggiungere la porta e ad aprirla.
Dava su una parte del cortile e, sulla destra, vicino a uno dei muri esterni, Theodore riconobbe suo fratello Robin, assieme ad altri: Jaden e Roy e quello che probabilmente doveva essere Ira Marque, il quale sembrava più losco del solito e stava barattando qualcosa con i due in cambio dei loro soldi. Dallo spinello che Robin stava fumando, Theo potè immaginare di cosa si trattasse.
Sbuffò tra sé e sé, cercando di non digrignare i denti e di agire il più velocemente e pacificamente possibile. Ma sempre un po’ con la faccia da stronzo, o altrimenti non sarebbe stato più lui.
Avanzò verso il gruppo e Ira, vedendolo per primo, fece un cenno nella sua direzione per avvertire gli altri. Robin si voltò, vedendo il fratello minore, ma non fece neanche in tempo a metterlo a fuoco che si ritrovò un neonato in mano non si sa come. Theo era già pronto a scappare, ma il maggiore lo afferrò per la collottola, costringendolo a fermarsi.
Theo si voltò, sfoggiando un sorrisetto e facendo finta di nulla. «Che c’è? Ti si è risvegliato il lato materno?» scherzò, alludendo al bambino che suo fratello teneva in braccio.
Robin s’irrigidì dalla rabbia, le vene gli sporgevano dalla pelle chiara, parevano lividi, e i denti erano stretti in un ringhio. Per un istante il minore realizzò che forse aveva esagerato.
Jaden sfilò il neonato dalle braccia di Robin, per evitare che dal nervoso di lui finisse stritolato. Non ci furono né pugni né cose del genere e in realtà era piuttosto strano per qualcuno come Robin, che finiva sempre in qualche rissa. Forse era a causa del fatto che, beh, Theodore era suo fratello prima di essere un possibile sacco da boxe.
Theodore ampliò il sorriso, ma riuscì a sfuggire alla presa di Robin, che gli lanciò un ultimo ringhio alle spalle.
«E ora cosa ce ne facciamo di questo?» domandò Roy, accarezzando una manina del bambino che Jaden teneva in braccio.
Robin si guardò indietro, in direzione opposta al suo gruppo, e sorrise malignamente. «Ci penso io.»
Theodore nel frattempo era andato a ripararsi dentro l’edificio e osservò la scena dalle vetrate, sentendosi più al sicuro.
Robin prese il neonato dalle braccia di Jaden e bruscamente lo affidò in grembo a uno studente che passava di lì in quel momento. Aveva i capelli corti  e scuri, il viso un po’ squadrato ma non affilato e aveva una corporatura media. Era una persona piuttosto anonima, ma ancora una volta Theodore associò quel personaggio a una versione più giovane di uno degli abitanti del condominio. Jacob Sullivan, l’uomo paranoico e ipocondriaco che abitava l’appartamento numero dieci al terzo piano.
Quello rimase immobile sul posto non appena ebbe il bimbo tra le mani, che si svegliò per la precedente presa brusca di Robin. Jacob lo guardò, ma nei suoi occhi si poteva osservare il terrore che lo stava divorando, il suo corpo si era irrigidito e teneva Cris come se fosse Simba all’inizio del Re Leone.
Theodore ricordò che teneva ancora in testa quell’orribile criniera e gli venne prurito per tutto il corpo al solo pensiero. Iniziò a grattarsi, quando d’un tratto sentì Jacob Sullivan scoppiare a piangere; tuttavia, appena lanciò un’altra occhiata fuori dalle vetrate, scoprì che di lui non c’era più nemmeno l’ombra. Al suo posto c’erano due bambini, a terra nel cortile: Cris e un altro nuovo spuntato dal nulla.
Theodore si strofinò gli occhi con le mani e si domandò se per sbaglio quella mattina avesse bevuto qualche tè alle erbe strane di Philip invece del suo solito caffè.
Decise di voltare le spalle alla faccenda e di incamminarsi verso la prossima lezione o direttamente verso casa e il suo adorato computer, ma non appena si girò, a bloccargli la strada trovò Jasper, il ragazzino sulla sedia a rotelle che ogni tanto veniva a far visita al padre nel suo palazzo.
Theodore alzò il sopracciglio con aria annoiata, in un muto e scorbutico incitamento a chiedergli quello che doveva.
«Hai per caso dell’erba?» chiese il ragazzo. Era magrolino e Theo non capiva bene la sua altezza, visto che era seduto, ma aveva di certo le gambe lunghe, il viso tondeggiante da cui emergeva un naso sporgente, i capelli castani in un taglio che se fosse stato poco più lungo sarebbe potuto andare bene per un cosplay dei Beatles e un paio di occhiali dalla montatura nera e rettangolare.
Il corvino si trattenne dallo sfoggiare un’espressione confusa perché: prima di tutto ma che voleva da lui, secondo non credeva di essere il tipo da poter passare per uno spacciatore, anche se… e terzo… terzo… ma insomma, che volevano tutti da lui? Rimase quindi con la sua espressione impassibile di sempre.
«No, ma basta che vai fuori e penso te la diano se accetti di adottare un bambino» rispose.
In risposta, Jasper si alzò dalla sedia e… ok, quella era una cosa veramente strana, pensò Theodore, che d’un tratto si sentì piccolo piccolo in confronto a quel ragazzo che non faceva altro che crescere e che ora gli pareva un gigante. Abbassò lo sguardo e si rese conto di essere seduto... anche lui su una sedia a rotelle.
Scrollò le spalle, noncurante. «Poco male. Almeno non dovrò alzarmi.»
Non fece in tempo a finire la frase che il muro della scuola venne sfondato da una macchina, che si fermò esattamente e miracolosamente di fianco a lui. Il finestrino si abbassò e Theo scoprì che all’interno vi era suo fratello Wade.
Il maggiore si tolse drammaticamente gli occhiali da sole, che aveva addosso probabilmente per nessuna ragione particolare, e lanciò un’occhiata al fratello. «Mi sa che dovrai sforzare un bel po’ le braccia d’ora in poi» lo avvertì.
A quella frase, il vero panico esplose dentro Theodore, che lanciò un grido di disperazione.
 
Theodore si svegliò gridando, ma immediatamente un cuscino gli arrivò in faccia, azzittendolo. Strano a dirsi, ma quella reazione lo calmò un poco e gli fece intuire che probabilmente a lanciarglielo era stata Peggy.
Si alzò dal suo letto e, in punta di piedi, uscì dalla zona notte del loft andando a raggomitolarsi sopra il divano più grande, con il cellulare appresso. Era troppo tardi per essere notte e troppo presto per essere giorno, ma il sonno gli era passato e, cosa che odiava, il suo cuore stava battendo più velocemente del solito nel suo petto. Così si mise a giocare sul cellulare.
Qualche minuto dopo, la porta dell’appartamento si aprì e la luce del pianerottolo illuminò la figura di Robin Orwell. Robin che ritornava a casa, come sempre, a un orario indecente. Il riccio, una volta smanettato con le chiavi per non farle incastrare un’altra volta nella serratura, alzò lo sguardo e notò che un volto spiccava nel buio totale grazie a una piccola fonte di luce bluastra.
Il maggiore lanciò un urlo, spaventandosi, mentre l’altro rimase impassibile a fissarlo. Si sentì uno sbraitio indistinto – e troppo assonnato per essere comprensibile – provenire dalla zona notte, forse da Wade.
Robin, dopo essersi ricomposto e aver regolato il respiro, si richiuse la porta alle spalle, mentre Theodore era rimasto raggomitolato sul divano e illuminato semplicemente dalla luce dello schermo del suo cellulare.
«Che diavolo ci fai sveglio a quest’ora?» domandò Robin, a bassa voce.
«Tu stai tornando a quest’ora» gli fece notare l’altro.
Il maggiore lentamente si sedette sul divano accanto al fratello, cercando di non sedersi sui suoi piedi.
«Vero, ma io sono io.»
«Non ho sonno.»
«Va bene. Da quanto sei sveglio?»
«Qualche minuto. Ho fatto un sogno strano. Hai presente Ernest qui di fianco? Era un cane.»
«Sarebbe più interessante come vicino.»
«E Wade sfondava il muro della mia scuola con una macchina.»
«Sinceramente non mi sorprende per nulla.»
«In effetti penso che quella fosse la parte più normale del sogno» concordò il minore.
«Credo sia successo davvero almeno una volta» intervenne Tony, che si era alzato e stava raggiungendo gli altri due sul divano, col braccio ancora ingessato.
«Ma quando te lo tolgono?» domandò Robin, accennando proprio al gesso.
«Se tutto va bene, alla fine della settimana» rispose l’interessato.
«Chiedi se ti tolgono pure la bocca» mugugnò Peggy dal suo letto, rigirandosi e cercando di dormire.
«Cosa succede?» domandò un Philip assonnato e appena svegliato.
«Niente, Phil, torna a dormire» lo rassicurò Tony, a bassa voce, ma si sentì già il rumore delle coperte che venivano scostate e qualche secondo dopo Philip stava uscendo dai separé che dividevano l’angolo dei letti col resto della stanza, strofinandosi gli occhi con le mani.
«Sono appena tornato e Theo mi ha fatto cagare addosso» spiegò Robin.
L’altro alzò gli occhi al cielo, sebbene fosse buio e nessuno potesse vederlo, poiché l’unica luce che illuminava la stanza era quella della luna fuori dalle finestre e il minore era raggomitolato sul divano in modo che l’ombra dello schienale non permettesse di illuminare la sua figura.
«Non è colpa mia se sei facilmente impressionabile.»
«Non è vero, non lo sono!» protestò l’altro. «Solo che una faccia illuminata nel buio alle… quattro di mattina o qualcosa, mi ha colto un po’ di sorpresa.»
«O qualcosa» citò Anthony, prendendo in giro il fratello e ridacchiando piano, con una mano sulla bocca per trattenersi.
Philip chiuse gli occhi ed emise un gemito frustrato. «Andiamo tutti a dormire?»
«Sì, sì, ora andiamo» rispose Tony, alzandosi dal divano e punzecchiando il quintogenito con la mano libera.
«Vengo tra poco» avvertì Theodore.
Gli altri due si fermarono.
«Perché?» domandò Philip.
«Non ho sonno ora.»
«Vuoi una tisana per dormire?»
«Vorrei dei sonniferi» brontolò il minore degli Orwell.
«Quelli anche io, grazie» disse Peggy sempre dal suo letto, tentando di dormire e ignorare le voci.
«Pegs, guarda che l’insonnia è una cosa grave» affermò Philip, in tono serio ma lamentoso.
«Non ho l’insonnia e non è grave» lo contraddisse il minore.
«Beh, un po’ d’insonnia magari ce l’hai» suggerì Robin.
«Effettivamente dormi pochissimo, sei abituato a ore piccole, non hai quasi mai sonno» proseguì Tony.
«Perché quando si dorme non si è produttivi, è diverso!» esclamò il diretto interessato.
«Sì, ma il sonno è importante» gli ricordò Philip.
D’un tratto si sentì un sonoro sbuffo, poi un fruscio di coperte. Peggy Orwell si era ufficialmente svegliata controvoglia e si dirigeva verso il letto a castello di Wade. Batté violentemente la mano sul braccio del primogenito qualche volta, ma quello tentò di allontanarla con un gesto e di tornare a dormire.
Ovviamente aveva sbagliato tattica.
Peggy lo afferrò per la maglia e lo tirò a sé, tentando di farlo cadere, ma lui era più forte, tanto che riuscì a girarsi nel letto e a darle le spalle.
Peggy strinse i pugni e andò verso gli interruttori più vicini, accendendo bruscamente la luce. La stanza s’illuminò, tanto che gli altri fratelli dovettero chiudere gli occhi per qualche istante prima di abituarsi.
Wade lanciò un grido di dolore. «Ah! Luce! Sei impazzita?»
Peggy tornò verso il fratello. «Soffro io, soffri tu, ricordi?»
«Io Titanic me lo ricordavo diverso» si lamentò, affondando il volto nel cuscino per nascondersi dalla luce.
«Tre ore di film dove tutti muoiono e l’unica che sopravvive getta il gioiello più prezioso del mondo in mare e a seguire altre tre ore di pianto. Io direi che l’ho riassunto piuttosto bene.»
«Wade, Theo non riesce a dormire!» si lamentò Philip.
«Smettila di dirlo, non è un problema!» sbottò il minore, nervoso.
Wade emerse dal suo cuscino, stranamente interessato alla conversazione. «Non sarà mica ancora per quella storia della classe nuova, vero?»
«Cosa?» si lasciò sfuggire Tony e subito tutti gli occhi furono puntati su Theo.
Il minore rise nervosamente, scrollando le spalle. «Pff, certo che no.»
Wade finalmente scese dal letto, seguendo la sorella. «Sei ancora agitato per la classe nuova? E quel tipo… come si chiama? Il ragazzino sulla sedia a rotelle che a volte si vede qua in giro...»
«Oh, è perché vogliono metterti nella classe avanzata?» chiese Philip.
«Ho detto che non è niente!» sbottò Theodore, sbuffando.
«Hey, va tutto bene. È normale» intervenne Robin, provando a calmarlo e stando attento a non toccarlo. «A volte succede, quando si cambiano compagnie, c’è sempre un po’ di timore di non essere accettati, lo so. Ci sono passato. Va bene avere un po’ di paura.»
«Male che vada saranno tutti dei cazzoni e, capirai, lo è il novantanove percento della popolazione» lo rassicurò Peggy, o almeno tentò. Lei e Wade si avvicinarono al divano.
Ci fu qualche istante di silenzio, in cui Theodore osservò i suoi calzini.
«Ok» disse piano. «Ma è quasi sicuro che mi lamenterò per il resto dell’anno di loro.»
Wade si lasciò scappare una risata. «Come se ci aspettassimo diversamente.»
«Lamentarsi degli altri è già l’hobby preferito di Peggy» aggiunse Tony.
«Mai negato» affermò l’interpellata.
Theo quasi sorrise per quello che sembrò un millisecondo, ma poi tornò serio e il suo sguardo si fece truce. «Se provate ad abbracciarmi giuro che vi vomito addosso.»
Robin condivise la sua espressione di disgusto. «Giuro che non ci sarà nessun ab-»
Ma neanche ebbe il tempo di finire la frase che Philip gridò «Abbraccio di gruppo!» travolgendo tutti e cercando di stritolare più persone possibili tra le sue braccia. Wade si fece trasportare dall’entusiasmo e partecipò attivamente, cercando di ricambiare l’abbraccio e stritolando ancor di più gli altri in un sandwich. Tony fece altrettanto ma solo per infastidire i fratelli.
La cosa era così buffa che strappò una risata a tutti, persino a Peggy. Robin lo notò e le diede un buffetto sul naso.
«Non è poi così malvagio abbracciarsi di tanto in tanto» azzardò Tony.
«In questo momento sto cercando di pensare a qualcosa di peggiore e mi viene in mente solo un asteroide che colpisce la terra facendola esplodere e mi alletta molto di più come alternativa, perché almeno così non dovrò lavarmi minimo dieci volte per togliermi di dosso tutti i vostri odori e sudori e chissà quant’altro» disse Theo.
Peggy sbuffò e fu la prima a staccarsi e a rompere l’abbraccio, ritornando verso i letti. «Bene, ora fatemi dormire. Ho interrotto il mio sonno di bellezza per colpa vostra e, se mi sveglio con una minima occhiaia, giuro che avete finito di vivere!»


 


p a n d a bitch.
Ho avuto problemi? Sì.
Viva il trash? Quello sempre.
E' quasi angst tutto ciò.
Ricordo che potete venire in pagina Come una bestemmia. per parlarmi di tutto quello che volete; mentre per qualsiasi altro social network dove potete contattarmi e seguirmi, sono pandamito. Tumblr, twitter, wattpad, pinterest, qualsiasi cosa vi venga in mente, davvero. Tranne weheartit. Non ho weheartit e c'è un tizio che si spaccia per me e non so come segnalarlo, tutto regolare. Potete trovarmi anche nei link dei cuori nel mio profilo, anche se effettivamente dovrei aggiornarlo ma ok.
Questo link invece è per seguire la storia su wattpad e per il resto... per il resto my life is a joke e di solito non mi ammalo, ma quando lo faccio mi vengono le cose strane.
Inoltre mi si è rotto il computer, non ho idea di come abbia fatto a salvare questo capitolo e spero di recuperare tutti i miei altri progetti.
Probabilmente more musical trash verrà inserito in questa storia, è una promessa.
Eeeee niente, se volete ho anche un fake dove potete aggiungermi e boh, bao, solo che Zucchina culo mi ha segnalato e ho il mio nome, k skifo.
Baci e panda, Mito.

 
   
 
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