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Autore: Dakota Blood    13/05/2017    0 recensioni
Una serie di storie che vi toglierà il sonno.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La realtà sulla tela. Non sono più giovane, certo, però la memoria non è ancora completamente svanita del tutto, perciò credo che riuscirò a raccontarvi per filo e per segno ciò che mi accadde quel lontano 23 Maggio del 1834. Vedete, ci sono orrori che si mostrano alla luce del giorno, come ad esempio incidenti domestici, violenze di ogni genere, e altri che invece decidono di vivere nascosti nell’ombra, sotto terra, nell’abisso della paura e dell’inconsapevolezza. Ci sono cose che ci è permesso di sapere e conoscere, ed altre che invece non ci è dato modo di approfondire e studiare con minuziosità, e forse è un bene. Ve lo dico con certezza, perché credetemi, quel giorno vidi qualcosa che non mi fece più dormire sogni tranquilli per parecchi anni, e tutt’ora a distanza di vent’anni sono costretto a tenere la luce accesa, soprattutto se sento dei rumori sospetti. Non è un bene mischiare la luce con la notte, il sole con le tenebre, perché può succedere qualsiasi cosa, davvero qualunque. Ora statemi bene a sentire, perché ho qualcosa di insolito da raccontarvi, anche se spero di non suggestionarvi troppo. Vi dicevo che a quell’epoca ero molto giovane e trascorrevo gran parte delle giornate studiando volumi enormi di medicina e anatomia, chiuso nella mia camera, ed uscivo solo per passeggiare intorno al vecchio mulino dei miei zii e per dar da mangiare ai miei due gatti neri. Presto conseguii una laurea in Medicina e nonostante avessi superato brillantemente gli studi, decisi di continuare la specializzazione in Anatomia e studio approfondito del corpo umano. Mi chiusi nel laboratorio e studio di mio zio paterno e assieme alla sua profonda conoscenza nel campo, sezionavamo i cadaveri che ci venivano affidati le sere precedenti. Spesso i corpi erano già in stato di decomposizione, anche perché il nostro compito non era quello di fare un accurata autopsia, ma solo di scrutarne la muscolatura, le nervature, il cervello e soprattutto il cuore. Provo un senso di disgusto al solo pensiero che tenni in mano il cuore di un ragazzo che spesso trascorreva le serata nel salotto della casa di mia zia, poiché era il figlio di una sua più cara amica. Quel giovane era stato ucciso da un colpo di fucile, e aimè , se n’era andato via alla tenera età di tredici anni. Quelle vene, tutto quel sangue,mi recavano repulsione e un senso di nausea talmente forte che spesso chiudevo gli occhi mentre mio zio, abituato alla vista di tanti resti umani, rimaneva impassibile e anzi pensava che stessi male a causa di un giramento di testa dovuto all’eccessivo caldo. Pensai addirittura di terminare i miei studi, ma ormai ero dentro la situazione più di quanto io credessi, e quindi non potevo rinunciare, non dopo aver preso quella laurea che tutti avevano accolto con entusiasmo e letizia. Proseguii e ogni sera, dopo aver terminato la parte teorica che mi vedeva costretto a trascorrere intere mattinate chino sui libri, mi incontravo con mio zio, aprivamo le bare ed esaminavamo i cadaveri. Una sera, bussarono alla nostra porta e io ricordo di aver avuto le mani talmente inzuppate di una sostanza che ora non ricordo perfettamente ( la bile forse) da non poter proprio andare ad aprire e mi limitai ad alzare la voce per chiedere chi era. Mio zio si era allontanato per andare a prendere altri cadaveri e io mi ritrovai da solo assieme a tutti quei corpi privi di vita. Ero abituato perciò non mi scandalizzai più di tanto, ma questa volta fu ben altro ad attrarre le mia attenzione e a suscitare il mio ribrezzo, se non addirittura la mia più profonda angoscia. La porta si spalancò e ne entrò un giovine ben agghindato, con un panciotto nero ricamato di pizzo gallese, che sorrideva allegramente, come se stesse entrando da un merciaio o da un venditore di seta. Mi accingevo quasi a dirgli che forse aveva sbagliato indirizzo, che qui non si vendevano merletti e altre cianfrusaglie, quando poggiò una scatola nera sul tavolo. Ora, dovete sapere che il ripiano che utilizzavamo per perlustrare gli arti dei cadaveri, era lercio, completamente privo di igiene,non perché non tenessimo alla pulizia, ma perché non ve n’era alcun bisogno. Non c’era il rischio che quelle persone prendessero delle malattie o qualche rara infezione, poiché erano già spirati da tempo, e noi eravamo ben accorti nell’utilizzare dei guanti che poi gettavamo e cambiavamo ogni volta che toccavamo dei corpi diversi. L’uomo, che a mio parere doveva avere intorno ai trent’anni, disse di chiamarsi Charles Denver ( poi in seguito pensai che mi avesse preso in giro o che mi avesse illuso) e di essere arrivato a Crossway da pochi giorni, dopo aver trascorso tutta la notte in treno. Era stanco e chiedeva di poter essere ospitato da me o da mio zio,chiedendo che gli si rivolgesse con la massima cautela e lentezza nel linguaggio poiché non conosceva la lingua americana e aveva non poche difficoltà ad interloquire con i residenti della cittadina in cui ci trovavamo. Rimasi quasi senza parole poiché quest’uomo così bizzarro e strampalato era piombato nel nostro studio senza avvertire, come se già sapesse di trovarci li, in quel luogo così privo di sensazioni positive e agghiacciante. Guardai in direzione del tavolo, come per indurlo a spostare la sua valigetta poiché si stava inzuppando di sangue, ma lui mi sorrise e non fece altro che continuare a fissarmi assorto nei suoi pensieri. Non era una persona normale,di questo ero certo ed ero anche consapevole che stavo mettendo in pericolo la mia vita, rimanendo da solo con lui. Mio zio non tornava e così, decisi di pulirmi le mani come meglio potevo e avvicinarmi all’uomo misterioso che avevo di fronte e che non voleva saperne di abbandonare il nostro angolo di lavoro. Lui mi guardò come se mi avesse già visto precedentemente e iniziò molto lentamente, ad aprire la valigia, estraendone il contenuto. Mio Dio, quelle immagini si stamparono nella mia mente come se avessi visto un uomo che si suicidava proprio davanti ai miei occhi. Ciò che vidi andava al di là di ogni terrore e mostruosità, seppure in passato fossi stato testimone di eventi spiacevoli riguardanti varie morti in guerra e ne fossi rimasto scioccato. Ma questo, signori miei, superava persino il fuoco dell’inferno e tutti i suoi demoni che danzavano e saltellavano beffandosi dei cadaveri dei peccatori. L’uomo estrasse dei quadri, delle semplici tele che mostravano le più orrende ambientazioni e i più macabri paesaggi. Nel primo, intitolato ‘ Delirio e suicido a Crossway’ si vedeva un uomo, molto rassomigliante a mio zio Philip, che sezionava dei cadaveri. E, oh Dio! Gli occhi dei defunti, erano così vivi nonostante dovessero essere morti da troppo tempo, e il realismo con il quale il pennello era riuscito ad imprimere quei visi sulla tela, era assurdo e geniale al contempo. Rimasi di stucco e con la bocca spalancata non riuscii ad emettere alcun suono, nemmeno un semplice gemito. I colori utilizzati per dipingere lo sfondo erano di un macabro e di un grottesco estremi, era stato utilizzato un nero funereo per voler sottolineare l’aroma di morte e desolazione che incombeva sulla scena. Una finestrella era posta proprio dietro il medico, e io a quel punto, mosso dall’istinto, mi voltai e vidi esattamente la stessa imposta che si trovava alle mie spalle. Era una coincidenza, questo è evidente, però la rassomiglianza era imbarazzante ed assurda allo stesso tempo. Dalla finestra filtrava una luce chiara, che illuminava il volto di quel medico che sembrava quasi un boia, un uomo che godeva nel vedere degli occhi spenti e privi di vita. Mi chiesi perché questo giovane mi stesse mostrando le sue opere, senza avermi nemmeno parlato, e senza avere nemmeno il tempo per pormi ulteriori domande, vidi con sciagura che le tele non erano poche, anzi, da quel poco che potevo vedere, dall’interno spuntavano le angolature di vari quadri, che dovevano essere una dozzina in tutto. Povero me! Avrei dovuto subire tutto quel terrore senza aver fatto niente di male, solo per essermi trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Il secondo ritratto, e questa volta il titolo era ben leggibile dato che l’uomo aveva prontamente voltato il dipinto dall’altro lato, per mostrarmi la data, il creatore e il nome dato allo scempio, aveva una targhetta con su scritto ‘ I demoni invadono Providence, finalmente’. Ho dato l’appellativo di scempio perché non poteva certo trattarsi di ‘creatività sana’ o di genialità superiore alla media. Certo, è vero che ogni artista ha qualcosa di macabro e insano dentro di se, ma davanti ai miei occhi io avevo delle opere che indubbiamente erano state create da un uomo in preda a delle possessioni demoniache o da parte di uno spirito immondo e innominabile! In quest’opera, si vedevano delle creature oscene che munite di arti lunghissimi e molto più grandi rispetto alla media comune, cercavano di abbracciare l’intera cittadina di Providence appunto, ritratta in miniatura, così da risultare microscopica e invisibile all’occhio del critico, che avrebbe riposto tutta la sua attenzione sui mostri che guardavano oltre la tela. Giuro di aver visto addirittura un leggero spostamento delle loro pupille, come se mi stessero cercando o mi volessero afferrare, tenere sotto controllo. Rabbrividii e gentilmente chiesi al ragazzo di lasciare la stanza. - Mi dispiace, lei forse crede di potersi sbarazzare di me all’istante, ma non è così. Vede, c’è un uomo che vorrebbe incontrarla, e mi ha mandato per farle tenere bene a mente che il passato non si può dimenticare.- Rimasi senza parole, quel ragazzo così minuto e all’apparenza innocuo, era riuscito a farmi rabbrividire già diverse volte in un lasso di tempo molto breve. Chi mai poteva essere quest’uomo dalla memoria talmente fervida da non avermi rimosso dalla sua mente? Sicuramente avevo a che fare con una persona conosciuta molti anni fa, per cui io l’ avevo già cancellata dai miei pensieri e dai miei ricordi, trattandosi di qualcuno con cui non volevo assolutamente parlare più. Gli risposi, temendo che potesse rievocare nella mia memoria un episodio spiacevole, data la situazione in cui ci trovavamo. -Di chi sta parlando? Io non credo di avere un nesso con queste opere…Ora, la prego di allontanarsi, mio zio starà per arrivare e abbiamo molto lavoro arretr… Mi bloccò, toccandomi il braccio, quasi stritolandolo, e allora provai l’impulso di scacciarlo via a mal modo nonostante la buona educazione impartitami dai miei genitori. -Lei non può fuggire, lo tenga bene a mente- Mi lasciò andare, ma fece qualcosa che mi provocò un altro sussulto e un secondo momento di vero terrore. Infilò una mano dentro la tasca del mio camice, che non profumava certo di pulito, e ci mise dentro un foglio bianco. Poi mi diede le spalle, richiuse velocemente la valigia, stando ben attento a non rovinare le sue preziose tele e attese che io precipitassi nell’abisso della più totale curiosità. Aprii la busta dove era contenuto il messaggio misterioso e lo lessi a voce alta, scandendo bene ogni parola. Il testo diceva: ‘ Al signor Gregory Brenghen, 239 Wellow street, Crossway. ‘ Sono ben lieto di accoglierla questa sera stessa, in una delle più prestigiose camere dell’Illusion Hotel, proprio dietro Winter Street, sulla ventottesima. Per certe questioni, la riservatezza è d’obbligo. Per dare un accenno su ciò che intendo dirle, le ho mandato mio figlio che le mostrerà solo l’inizio. La attendo con impazienza. Cordiali saluti, da sempre, suo fedele amico, Richard Silmap Il foglio mi cadde in terra poiché le mani mi iniziarono a tremare e non riuscii a fermarle. Il ragazzo sorrideva, senza pronunciare una sola parola, e mentre si rendeva conto che i miei occhi erano puntati verso i suoi, anzi, erano penetrati dentro le sue cornee, il suo ghigno sadico si allargò, dopodiché fece un cenno con la mano e sparì, chiudendo rumorosamente la porta. In un attimo mi tornarono alla mente gli anni precedenti, quelli ancora ben lontani dalla specializzazione in anatomia e medicina. Ripercorsi la mia infanzia. Vidi me stesso felice e sereno mentre rincorrevo una vecchia ruota appartenuta ad un carrozza di mio nonno,ridendo assieme ai miei compagni delle elementari, tutti buoni ragazzini. Poi ebbi come un colpo improvviso, non al cuore o alla testa, ma proprio al centro dei pensieri. Vidi completamente buio, tutto nero, non vi era un solo spiraglio di luce ed io sprofondai nell’oscurità, in cui mi apparve all’improvviso un’unica immagine agghiacciante, il volto di Silmap. Ricordai tutto e non mi seppi spiegare per quale strano motivo avessi riposto nell’oblio tutto ciò che aveva a che fare con quell’uo… No, preferirei definirlo essere, poiché di umano non gli era rimasto praticamente nulla. L’unica ipotesi plausibile fu che, spesso nella maggior parte dei casi la nostra mente cancella gli episodi spiacevoli, come una gomma che prontamente elimina ogni traccia d’errore. Quell’uomo era un grosso sbaglio, era l’apoteosi di ogni terrore vivente. Era un folle, un uomo capace di vendere l’anima al diavolo pur di ottenere ciò che gli stava a cuore, e così fece, quando ancora eravamo dei giovani uomini. Frequentavamo il ‘Circolo degli artisti’, un gruppo di persone abile nella pittura, scultura, musica e molto altro ancora. Io mi occupavo della scrittura, revisionavo testi e talvolta venivo rimproverato per l’eccessiva fantasia e per la mia scarsa bravura nel saper scrivere qualche riga senza finire nel comporre invece un romanzo intero. Nel ‘Circolo’ vi faceva parte anche un ragazzo orfano di entrambi i genitori, che non parlava mai con nessuno, inclusi noi membri del gruppo. Si comportava in modo molto strano e una volta, mentre non riuscivo a concentrarmi a causa di un forte mal di testa, lo vidi rivolto verso la finestra, dandomi le spalle, e mi resi conto che stava blaterando qualcosa di insolito. Mi avvicinai e lo colsi sul fatto, lo sentii mentre pronunciava delle parole mai sentite prima, riguardanti dei strani funghi… mi sembra di ricordare i ‘Funghi di Yuggoth’e mentre lo diceva, agitava le mani e le richiudeva formando un cerchio perfetto. Mi allontanai e da quel giorno assieme agli altri ‘colleghi’ arrivammo alla conclusione più consona, ovvero di cacciarlo via. E così accadde, gli parlammo spiegandogli che non c’era più posto per lui, che un altro artista altrettanto bravo aveva chiesto di poter essere ‘uno di noi’ e così lui avrebbe dovuto immediatamente salutarci. Ci rise in faccia, maledicendoci ad uno ad uno, dicendoci che sarebbe tornato ‘ a modo suo’ e che ogni nostra futura occupazione sarebbe stata tormentata dai suoi impulsi negativi. Non ci facemmo caso e non lo vidimo mai più… Ma ora… Tremavo, mentre cercavo una sedia su cui potermi reggere un secondo, mentre desideravo essere morto piuttosto che aver conosciuto quel dannato Silmap. Mio zio non tornava, evidentemente aveva delle commissioni urgenti da svolgere, così min tolsi il camice, misi un po’ in ordine il laboratorio e andai via, quasi fuggendo dalle mie stesse paure. L’albergo era molto lussuoso e la prima cosa che mi colpì fu che il colore predominante era il rosso. Questo, non so bene il perché, mi agitò rendendomi piuttosto nervoso, e l’uomo alla reception dovette aver percepito questo mio stato d’animo, perché sorrise e mi fece cenno di avvicinarmi. “La stavamo aspettando.. lei è…” “Il signor Gregory Brenghen” “Oh, si,prego la sua stanza è la numero 666” Non dissi niente, per non risultare frivolo o ridicolo, ma pensai di essere finito direttamente all’inferno. Scacciai quel pensiero e mi diressi verso le scale. Trovai subito la camera e notai che la porta era aperta e la luce accesa risultava soffusa, debole, quasi morta, come se provenisse da un obitorio e da una cella per schizofrenici. Sostai un secondo, dopodiché, senza bussare, varcai la soglia e vidi Silmap mentre sistemava dei quadri in tutta la stanza. Aveva spostato il letto e persino il comodino, in modo da dare molto più spazio alle sue ‘creature’. Mi voltai per fuggire ma una voce alta e imponente,mi bloccò. “ Non può andar via, non prima di avermi aiutato!” Deglutii e arretrai con passo lento. Quando mi voltai vidi le sue opere e ne rimasi distrutto mentalmente. Erano cinque in tutto e i titoli erano i seguenti in ordine cronologico e di collocazione. ‘ A braccetto con Abdul ( 1809)’ ‘ Il vizio di Marie Frei ( 1810)’ ‘ La chiesa nera dei dannati ( 1815)’ ‘Il gioco dei bambini’ ( 1817) e l’ultimo ‘ Il desiderio di Alonzo Typer’ ( 1831) Erano tutti mostruosi. Nel primo si vedeva un uomo che evidentemente era l’Abdul del titolo che obbligava una giovane donna a seguirlo e le stringeva il braccio, accompagnandola verso una strada buia e deserta. La sua pelle sembrava… Vera, viva! Non osai toccare la tela perché ero certo che avrei sentito il contatto con la sua epidermide , perciò lasciai stare. Il secondo quadro raffigurava una prostituta dai lunghi capelli rossi che seduceva quattro persone di sesso maschile, ed il loro corpo era metà uomo e metà cane! Ero sconvolto! Nel terzo si vedeva una chiesa gotica completamente immersa nell’oscurità, e all’interno, seduti su delle panche in legno intenti a pregare un qualche dio ignobile, vi erano tredici demoni simili a dei serpenti che con le loro lingue biforcute sfogliavano il libro blasfemo, il Necronomicon! Ne ‘Il gioco dei bambini’ quattro pargoletti venivano fatti salire sopra un carretto che sarebbe poi precipitato nel fuoco dell’inferno. Quei bambini devono essere stati i figli di Satana! L’ultimo raffigurava un uomo alato che pregava affinché il Dio Apollo lo aiutasse a raggiungere il sole, e dietro di lui, appariva un uomo nudo e calvo, con solo due corna gigantesche. Teneva in mano un foglio con su scritto ‘ Il desiderio di volare’. Le creature sembravano in carne ed ossa, il rosa utilizzato per la pelle, il rossore delle gote e delle labbra carnose della cortigiana, erano decisamente troppo realistiche. Pickman interruppe il corso dei miei pensieri lanciando un urlo, mi voltai spaventato e vidi che i suoi occhi erano completamente bianchi, privi di pupille. Con voce demoniaca mi parlò “Tu, devi aiutarmi! Ho bisogno dei tuoi organi per completare tutta la mia collezione! Non potrai sottrarti al mio volere, ormai sei nelle mie mani!” Gridò, o meglio, rise come un indemoniato e in quell’istante scappai, non trovai il coraggio di rispondergli, ma per fortuna riuscii a fuggire. Tutte le sue opere erano state create con della vera carne umana, non era solo un mio presentimento, avevo ragione! Forse Dio, o uno dei suoi angeli, mi vennero in soccorso perché ricordai di avere in tasca il foglietto con dentro il messaggio dello stesso Silmap e nell’altra invece avevo una confezione intera di fiammiferi! Era un miracolo, senza’ombra di dubbio. Non aspettai un minuto di più e appiccai il fuoco che prontamente invase tutta la camera, bruciando i quadri maledetti e raggiungendo Silmap che urlava per il dolore. Ora non se se i lamenti che sentii furono dovuti alla suggestione o alla paura, ma giuro su tutto ciò che ho di più caro al mondo che, mentre le fiamme ingoiavano quelle tele, era come se i personaggi stessero urlando, o forse erano gli uomini a cui erano state strappate le carni. Fuggi lontano, andai via, tornai a casa e lascia immediatamente il mio lavoro, senza dare alcuna spiegazione. Cambiai città e andai a vivere da solo a Boston dove spesso incontravo il grande maestro Edgar Allan Poe, che mi guardava come se fosse il solo a capirmi, come se anche lui fosse a conoscenza di grandi misteri e creature immonde. Vissi in modo pacifico e sereno fino ad ora. Adesso ho più di sessant’anni e mentre scrivo sento che le articolazioni non sono più quelle di un tempo, ma la memoria, quella è rimasta intatta, e spesso, nelle lunghe sere d’inverno mentre guardo il fuoco divampare nel camino, mi pare di vedere ancora quelle tele che ardono e sento, assieme all’ululato del vento, il richiamo di Silmap e dei suoi dannati figli.
   
 
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