Il sole allo zenit risplendeva per il chiaro cielo,
segnato solamente da qualche nuvoletta bianca, che non impensieriva la fiumana
di ragazzi che uscivano da scuola. Volti sorridenti e ignari, a cui la vita aveva già consegnato tutto, anche se loro credevano che
dovesse ancora offrire altro, e altro ancora. Forse per alcuni fu davvero così.
Il caos che facevano urlando, o anche semplicemente chiacchierando l’uno
accanto all’altro, era quasi paragonabile ai rumori su una pista di Formula 1.
A certe ragazze che si bisbigliavano segreti nelle orecchie, questa confusione
era utile, una sorta di protezione naturale. E il
vialetto risuonava dei loro passi svelti.
In mezzo a quella confusione che portava all’uscita
di scuola camminava a passi precisi e delicati anche
una bambina, coi corti capelli biondi legati da un nastro. Anche se non si
sarebbe detto, lei frequentava quella scuola, nonostante fosse di parecchi anni più piccola del resto degli studenti.
Questi le passavano accanto senza degnarla di uno sguardo,
fosse anche d’invidia. In quei momenti si sentiva veramente invisibile.
Avrebbe desiderato esserlo, così sarebbe potuta sfuggire dall’Organizzazione,
la stessa che l’aveva costretta a frequentare quella scuola, in America,
lontana dalle uniche persone che riuscivano a vederla e ad accettarla. Ma era il suo destino, il suo destino di bambina cresciuta
all’interno di una yakuza.
«Sherry»
A quella chiamata alzò lo sguardo, individuando tra
le gambe lunghe degli altri ragazzi una bambina come lei stessa, che sorrideva,
con quegli occhi verdi e luminosi che le ricordavano i grandi prati
dell’Hokkaido dov’era nata e cresciuta, prima di essere sballottata via, da
sola, in un posto sconosciuto, da persone che non sapevano nulla di lei. Le si avvicinò. «Non chiamarmi così quando
siamo in giro» la avvertì. Nonostante avessero la stessa età, lei era
almeno cinque centimetri più alta e poteva permettersi
di farle da sorella maggiore, visto anche il suo quoziente superiore alla media.
«Che ci fai qui?»
«Dai, non fare la scontrosa, Shihochan»
rispose lei non smettendo di sorridere. «Sono passata a trovarti»
«Loro lo sanno?» Shiho la
superò e iniziò ad avviarsi verso la fermata dell’autobus. Nel laboratorio dove
era costretta ad abitare si sarebbero arrabbiati, se
non fosse tornata in orario. Ripensandoci, non avrebbe avuto nemmeno la
possibilità di trovarsi delle altre amiche, oltre alle persone
dell’Organizzazione. E poi, come poteva mettere in
pericolo ragazze innocenti? Represse il pensiero che le suggeriva che lei
stessa ERA una bambina innocente. Già, era. Tanto tempo prima.
«Ovvio» rispose l’altra seguendola. «Non potevo
venire qui dal Giappone da sola. Anche
se sono BloodyMary, ho pur sempre otto anni» Le passò
un braccio intorno al collo. «Dev’essere dura
frequentare le superiori alla nostra età, vero?»
«Seccante, più che altro» rispose tranquilla Shiho, un po’ imbarazzata da quell’abbraccio.
«Quelli vorrebbero che mi prostrassi davanti a loro, anche per il semplice
fatto di essere giapponese»
«Pearl Harbor,
eh?» La bambina scosse la testa. «Lascia che loro si divertano, noi abbiamo di
meglio da fare» La lasciò e la anticipò di qualche passo. «Noi siamo
l’Organizzazione»
«Eh già…» acconsentì Shiho
in tono molto meno entusiasta.
«Sai, ho deciso di farmi crescere i capelli»
continuò l’altra. «Come Akemi-neechan. A proposito,
ho qualcosa da parte sua» Si fermò, frugando nella sacca blu notte che portava
appesa alle spalle. «Perché non lo fai anche tu?
Staresti veramente bene, con una cascata dorata come la tua. Così, avremo la
stessa pettinat-»
«Nacchan» la interruppe Shiho. «Cosa c’è che non va?»
Troppo spesso le cascate di parole servono a nascondere la grotta oscura
dell’anima.
La rossa deglutì, spostando lo sguardo da un’altra
parte. «Mio padre è un traditore» Lasciò cadere la borsa a terra. «Lo
ammazzeranno»
Shiho fece un passo in avanti. Cosa poteva fare per consolarla? Lei aveva perso entrambi i
genitori per motivi analoghi, perciò nessuno poteva conoscere questa sensazione
meglio di lei. Anzi, no. Akemi
conosceva quella situazione. Quando suo padre e sua madre erano morti, lei era
ancora troppo piccola per ricordarsene. Non poteva
sentire una perdita che non aveva vissuto. Tuttavia, poteva sentirne la
mancanza. E faceva male. Molto, molto male.
«Che schifo!» continuò Nacchan. «Proprio mio padre! Non me lo sarei mai
aspettato…» Respirò a fondo. «Avrei voluto ucciderlo personalmente, ma Gin-senpai –sai, il biondo? – non
ha voluto. Nonostante la mia precisione nel tiro, ha
detto che sono ancora troppo piccola» Scosse la testa. «Ne ho una voglia…
L’unica cosa che mi rende felice è che sarà oniichan
a rendere giustizia»
Giustizia? Shiho spalancò
gli occhi. «Che cosa stai dicendo?» mormorò così debolmente che
non riuscì a farsi sentire. Era convinta che Nacchan
soffrisse per la morte del genitore, invece soffriva per il tradimento
dell’Organizzazione. In quel momento, quello che aveva sempre chiamato “oba-san”, le poche volte che le era
concesso vederlo, le fece una pena infinita. Lui stesso, permettendo ai suoi
figli di entrare nell’Organizzazione, li aveva allontanati da lui. Ed adesso, sarebbe stato ucciso dal figlio che aveva
cresciuto con affetto. E la figlia avrebbe guardato in
silenzio, e gioito della sua morte.
Era troppo. Shiho si
avvicinò e di scatto gettò a terra tutto il contenuto
della sacca blu. Individuato il pacchetto avvolto in una sottile carta velina,
tipica dei regali di Akemi,
lo afferrò e fece per andarsene.
«Shihochan!» La bambina
dagli occhi dell’Hokkaido la guardava sconvolta, stupita da quel repentino
cambio di atteggiamento.
«Buon funerale, BloodyMary»
disse atona la bionda, accingendosi a salire sull’autobus giunto in quel
momento. «Spero di rivederti quando starai un po’
meglio»
«Ma posso chiamarti? Shiho! Shiho!» L’autobus partì e
ovviamente lei non riuscì a seguirlo di corsa. Rimase ferma lì, sul
marciapiede, accanto alla sua roba rovesciata, con le lacrime che illuminavano
i suoi occhi verde scuro. «Non lasciarmi sola…» Ma Shiho
non si guardava indietro dal finestrino dell’autobus.
***
L’uomo si tolse di bocca la sigaretta e la gettò a
terra, sul lungo corridoio nero. La calpestò per spegnerla,
quindi, in tono molto noncurante, proseguì il suo cammino. Il rumore che
le sue scarpe in cuoio facevano risuonare tra le spesse pareti
venne presto affiancato da un altro suono, il suono delle scarpe col tacco di
una scienziata. Non di una scienziata qualunque, ma della
scienziata che aveva creato l’APTX4896. L’uomo sorrise.
«Dov’è Oneechan?»
Il rumore dei tacchi si fermò improvvisamente. La scienziata era ferma
davanti a lui. Lo stava guardando con i suoi occhi verde acqua, sempre seri,
come se non stesse guardando un essere umano, ma una delle sue provette.
All’uomo piaceva quello sguardo, perciò non rispose, limitandosi a godere di quello spettacolo. «Ho detto: dov’è Oneechan?» Lei fece un passo in avanti, premendo il tacco
sul pavimento in modo che risuonasse più forte, agitando il camice bianco che
era solita indossare. Era bianco immacolato, eppure
sia lui che lei riuscivano a vederci rapprese numerose
macchie di sangue. Il sangue versato dall’APTX4896. Lei, però, lo interpretava
in maniera differente.
L’uomo frugò in tasca ed estrasse un pacchetto di
sigarette, infilandosene una in bocca. «E’ morta» disse semplicemente, come se
stesse parlando delle previsioni meteo. Tuttavia lo sguardo freddo era attento,
pronto a captare qualsiasi reazione.
Il volto della donna rimase imperturbabile. «Perché? La rapina era giunta a buon fine»
«Queste sono cose di cui tu non ti devi occupare»
Rimise il pacchetto in tasca e si accese la sigaretta. Lei gliela strappò di
bocca e la gettò a terra, pestandola con la punta delle sue scarpe nere. «Dimmi
perché, Gin»
All’uomo piaceva quel visino arrabbiato, che cercava
con tutte le sue forze di controllare. Non farlo, Sherry, non reprimere la tua
rabbia, sfogala… «Era una traditrice»
«Bugiardo!»
Gin, con uno scatto rapido, le afferrò il mento con
la mano sinistra, sempre coperta da un guanto. «E’ la verità» disse stringendo
la presa. «Voleva portarti via, Sherry… Lei, che non era altro che una semplice
pedina… Voleva che TU te ne andassi con lei…»
Lentamente, lasciò scivolare la mano lungo il collo, fino alla scollatura del
vestito rosso, e poi più giù, fino a palparle il seno. «Lei non serviva più.
Invece tu…» Sherry represse un brivido di disgusto. Scansati! Levati!
Respingilo! Ordinava la sua voce interiore. Invece, gamba e braccia erano
paralizzate e lei non riusciva a muoversi di lì. L’unica cosa che riusciva a
fare era guardalo freddamente, dimostrandogli, almeno
all’apparenza, che i suoi trucchi non la scalfivano minimamente. In fondo, non c’era più nulla da scalfire, perché non era rimasto
nulla. Avevano già distrutto tutto tempo prima,
quando era ancora una bambina. Ripensò alla morte di Akemi e si accorse di sbagliare. C’era ancora qualcosa che
poteva scalfirla. Si morse l’interno della guancia per non piangere. Non poteva
dargli questa soddisfazione.
«Sei proprio un bastardo» Dietro di lui era arrivata
una donna, coi passi felpati di una pantera, perché
non avevano sentito un risuonare di scarpe lungo il corridoio. Chissà da quanto tempo era ferma ad ascoltarli. Sherry se n’era accorta solamente ora. La donna si avvicinò
e staccò il braccio di Gin, restituendoglielo. «Perché non te lo ficchi su per
il culo?»
Gin la guardò amabilmente, mentre Sherry lasciava
che lo stupore invadesse, anche solo per un attimo, il suo viso. Non l’aveva
mai vista parlare così al suo “adorato senpai”. «Non sono
cose per te, BloodyMary»
«Nemmeno per te» replicò acida, afferrando Sherry
per un braccio e trascinandola via. Lei non oppose resistenza, poiché
desiderava andarsene, e si lasciò condurre fino al suo laboratorio.
Solo dopo che la porta automatica si fu chiusa
dietro di loro BloodyMary la
lasciò, avvicinandosi al tavolo. Vi appoggiò le mani sopra, tremando.
«Cosa c’è?» Anche la voce
di Sherry tremava.
BloodyMary trasse un profondo respiro,
quindi, con un gesto rapido, scaraventò a terra tutte
le provette che erano ordinatamente appoggiate sul tavolo. Il vetro si infranse sul pavimento bianco con una serie di cacofonici
tintinnii, mentre i vari liquidi uscivano, mescolandosi assieme in una miscela
dall’odore terribile.
«Che fai?!» esclamò Sherry. Non che le importasse molto
di vedere il suo lavoro sprecato così, tuttavia non era una mossa saggia
rischiare in quel modo con i composti chimici. Potevano
essere letali, lo sapeva molto, molto bene. L’altra donna non la
ascoltò, vagando per il laboratorio e gettando a terra ciò che trovava. I
topini bianchi, nelle loro gabbiette, squittivano spaventati.
«Nagisa!» urlò Sherry,
facendola finalmente fermare. «E’ pericoloso. Si può sapere cos’hai?» Non era
da BloodyMary comportarsi in
maniera sconsiderato, come non era da Sherry lasciarsi trasportare dai
sentimenti. Era chiaramente successo qualcosa, o la sua amica non avrebbe reagito alle provocazioni con Gin. Da quanto si
ricordava, quand’era piccola lei lo osannava…
Nagisa si voltò a fissarla con i
suoi occhi verdi, che crescendo erano solo diventati più grandi. Il verde
dell’Hokkaido era rimasto lo stesso. «Questa è pericolosa?» Teneva in mano una
provetta vuota.
«Si, lo è» ribattè secca Sherry. «Rimettila a posto»
«Akemi-neechan non era una
traditrice» mormorò lentamente BloodyMary
ignorandola. «Nemmeno Oniichan! E
probabilmente, nemmeno mio padre»
«Lo so» Sherry si avvicinò cautamente, ma decisa.
«Lo hanno ucciso loro, capisci?!»
BloodyMary strinse forte la provetta, mentre le
ciocche dei suoi capelli le scendevano davanti, disordinate. «Non è stata la
polizia, durante la sparatoria dopo che lui aveva ucciso papà! È stato Gin!» Si
voltò di lato, respirando pesantemente per riprendere fiato. «Non so perchè, ma volevano sbarazzarsi di
loro, così! Potrebbero anche averlo fatto perché li temevano»
Alzò le spalle. «Non m’importa, so solo che li hanno uccisi. E
anche Akemi-neechan» La provetta di vetro sottile si
spaccò fra le sue dita.
Sherry aprì un cassetto sotto il tavolino e ne estrasse una pinza e della garza. Mise la seconda nella
tasca della giacca. «Te ne sorprendi davvero?» Le prese la mano e la aprì, con
il palmo rivolto verso l’altro. Il sangue usciva a sottili torrenti dagli spazi
aperti dalle schegge di vetro. «Per l’Organizzazione i
subordinati come noi non sono altro che cavie da laboratorio» Scoccò uno
sguardo ai topini, suoi unici compagni delle lunghe ore passate in quel
laboratorio. «Quando si stufano di utilizzarli li sopprimono»
«Appunto!» sbottò BloodyMary,
facendo sobbalzare la mano mentre Sherry le toglieva delicatamente le schegge.
«Come se fossero migliori di noi! Guardiamoci, Shihochan»
Lei non alzò gli occhi dal suo lavoro. «Tu sei sicuramente più intelligente
della maggior parte dei tuoi superiori, mentre non c’è nessuno che riesca a
sparare bene quanto me» Prese fiato. «Dovremo fare una
rivoluzione proletaria!» E queste erano le belle idee che BloodyMary
imparava dalla storia del socialismo e del comunismo. Non avrebbe mai dovuto
farle leggere Marx.
Sherry scosse la testa. BloodyMary
era ancora così immatura! Se suo padre e suo fratello
fossero stati veramente dei traditori, lei non avrebbe fatto una piega sul loro
omicidio. Amava ancora l’Organizzazione, nonostante l’affetto che provava nei
suoi confronti.
«Io voglio solo andarmene» mormorò Sherry. Un decisione presa in quel preciso momento, eppure maturata
per anni e anni, come i cactus del deserto che aspettano tutta una vita prima
di far sbocciarle il loro meraviglioso fiore, apice di tutta l’esistenza, prima
di morire.
A quelle parole, BloodyMary
sottrasse la mano alla sua presa, stringendo il pugno e permettendo alle
schegge di penetrare ancora di più in profondità. Per la prima volta i suoi
occhi non ricordavano più i prati dell’Hokkaido. E con quegli occhi divenuti spaventosi
stava guardando quella che per lei era solo una
traditrice. «Io sono un’assassina» disse superandola. «E’ così che voglio
vivere, è così che voglio morire»
«Allora vai»
***
«Ahi!» gemette leggermente Shiho,
mentre veniva spinta duramente contro una gelida
parete. L’uomo quindi le afferrò il braccio e la ammanettò a
un tubo che scendeva dal soffitto.
«Così va bene, capo?» disse l’uomo rivolto a quello
che stava dietro ad osservare la scena.
«Si…» Gin annuì, avvicinandosi. Appoggiò una mano sulla
parete e abbassando lo guardo ad osservarla. Shiho se ne stava seduta, calma, una mano infilata nella
tasca del grembiule che le proteggeva anche le lunghe gambe. Non era
preoccupata. Non era spaventata. Era solo seria, come sempre. «Certo, sarebbe
un peccato perdere un’intelligenza come la tua…»
«Perché non la smetti con
questa farsa, Gin?» Shiho prese la catena delle
manette e vi si appoggiò completamente. «Hanno già deciso di uccidermi, perché
perdere altro tempo?»
Gin abbassò la mano e le afferrò il collo, tirandola
su fino alla sua altezza. «Non avere fretta di morire…» Spinse duramente la labbra contro le sue, premendo per far entrare la lingua.
Con lo stomaco che si contraeva per il disgusto, glielo permise, salvo poi
morderlo, accompagnando questo gesto con una spinta
con la mano libera.
Gin si staccò, sorridendo e leccandosi le labbra su
cui era rimasta la sua saliva. L’espressione di Shiho,
prima disgustata, divenne via via più stupita. Infatti, stava osservando, sopra la sua spalla, la porta.
Sulla soglia, BloodyMary, ferma con
le braccia incrociate sul petto, la stava guardando. Non era uno sguardo
d’odio o di preoccupazione. Era più annoiato, o rassegnato. Scosse leggermente
la testa, muovendo le sue morbide ciocche rosse, e uscì, scoccandole un’ultima
compassionevole occhiata. I suoi occhi sembravano profonde paludi. Sporcati. I
suoi occhi erano stati sporcati di sangue, come il resto della sua anima.
«Andiamocene» ordinò Gin e uscì seguito dal suo
scagnozzo, sbattendo la porta dietro di lui. Shiho
rimase sola in quella stanza buia. Per qualche minuto restò
in piedi, infine si lasciò scivolare dolcemente a terra. Rimise la mano
in tasca, sentendo il freddo contatto con la capsula di ATPX4896.
Che cos’aveva da perdere? Le avevano rubato tutto. Ciò che era rimasto era macchiato di sangue.
Avrebbe permesso loro di prenderle anche la vita?
***
«Ai-kun? Dormi?» Un
signore anziano iniziò a scuotere la bambina bionda che sonnecchiava con il
viso appoggiato sulla tastiera del computer, nella penombra di uno studio
disordinato e pesante. Lei sbattè le palpebre
leggermente, quindi alzò la testa, guardandosi attorno per abituare gli occhi
alla luce, seppur tenue, che veniva dallo schermo.
«Ah, è lei, Dottor Agasa…»
Lui scosse la testa. «Non dovresti lavorare tutta la
notte» le disse. «Io vado all’ospedale con gli altri, ma forse è meglio se ti
riposi»
«No, vengo» rispose lei, guardando il suo riflesso
da bambina nel computer. Ci teneva ad andare a trovare il bambino che si era
ferito, perché lui era sempre così gentile con lei. «Sto bene» Annuì, vedendo
lo sguardo poco convinto di Agasa.
«Sistemo un attimo e mi preparo»
«Va bene» acconsentì alla fine lui, uscendo dallo
studio.
Ai guardò il desktop, che rifletteva il suo viso
leggermente segnato dai tasti. Si era addormentata ancora prima di iniziare a
lavorare. Chissà per quale motivo aveva fatto quei sogni.
Nonostante non le facesse affatto piacere, ovviamente,
le capitava spesso di sognare l’Organizzazione, ma mai in toni così nitidi e
chiari. In questo caso si trattava addirittura di ricordi, sebbene non fossero
dei più allegri. Come se ce ne fossero di più allegri, pensò malinconicamente.
L’unica volta che era successa una cosa del genere, aveva veramente incontrato
Gin all’angolo della strada. Spense il computer, scuotendo la testa. Era
improbabile che capitasse una seconda volta.
Note di Akemichan:
Ho provato a scrivere questa storia dopo l’episodio
“il dirottamento dell’autobus”, cercando di trovare una Ai un
po’ più combattiva rispetto a come si comporta normalmente. Detto questo,
tuttavia, spero vivamente di non averla fatta troppo
OOC. Se così fosse, fatemelo notare. Non vi garantisco
però di riuscire a cambiare la storia, perché evidentemente Ai non può essere
più “attiva” se non OOC. Detto questo, spero che la storia vi piaccia lo
stesso.
Saranno solo sei capitoli. Il prossimo, se qualcuno
fosse interessato, lo pubblicherò con ogni probabilità
sabato 23. Grazie a tutti coloro che leggeranno la mia
storia.
Mini dizionario:
Oniichan = Fratello maggiore proprio
Oneechan = Sorella maggiore propria
Obasan = Zio proprio
Preview:
«Puoi scrivere qualcosa anche tu, Ai…»
«Questo posto mi fa paura»
«Chi era quella?»
«Perché questa BloodyMary sarebbe pericolosa per gli uomini in nero?»
«Nagisa…»