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Autore: yolima90    15/05/2017    0 recensioni
In una Galassia lontana,lontana,lontana quasi inesistente, vi è Ella con il suo equipaggio di Mercenari.
Passano le giornate a derubare altre navi per poi rivenderle al mercato nero.
Ma qualcosa sta cambiando nella vita di Ella, lei è di sangue nobile, e presto qualcuno verrà a reclamarla per affidarle una missione assai importante.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non sapevo che sarebbe finita così.
Non ero pronta a tutto questo.
Eppure c’è stato un momento in cui ho pensato di avercela fatta. Le trombe di Kronk avrebbero suonato a festa in mio onore.
Sembra che io sia destinata a non udire mai il suono soave di esse.
Aveva ragione quel figlio di puttana dopotutto.
E quindi, io muoio qui, in questo posto dimenticato da qualsiasi divinità, sola come un cane, il cielo si è fatto rosso come il sangue che  bagna la terra dove giace la mia carne. Un colpo di tosse fa sollevare dolorosamente il mio petto trafitto, stringo i denti mentre la vita dai miei occhi fugge silenziosamente e il cuore spegne l’ultimo interruttore di questo insignificante corpo ormai cadavere che voleva solamente salvare il suo popolo, fallendo miseramente.
 
 
Mi svegliai di colpo con un dolore forte alla gamba sinistra.
La tenda odorava fortemente di sudore e piscio di uomini che da giorni non si lavavano in maniera accurata.
La notte non era ancora era giunta al termine che da fuori giunse alle mie orecchie e quelle dei miei uomini un urlo angosciante, simile a un latrato di un coyote del deserto.
Rufus, il mio Vice, si alzò dalla sua brandina logora  al primo urlo, senza pronunciare parola andò a controllare che nessun fottuto Jija ci avesse seguito.
I Jija erano ottimi attori quando c’è n’era bisogno oltre essere dei bravi segugi. Quando annusavano una preda non la mollavano fino a quando non la trovavano e la sbranavano in gruppo.
Erano esseri disgustosi, bugiardi, traditori, illusionisti, dei veri e propri figli di puttana. Un tocco di Jija ed eri convinto di essere a casa, tra i tuoi cari improvvisamente, mentre la realtà era ben diversa. Una morte lenta e orribile.
I Jija ti divorano quando ancora respiri.
Un brivido mi fece sollevare le spalle in maniera involontaria.
Silenziosamente, stando attenta a non svegliare nessun’altro, uscii dalla tenda, Rufus era in piedi a osservare il cielo quando lo raggiunsi, i suoi occhi rossi mi guardarono mettendomi a disagio, ma finsi che tutto andava bene, così iniziò a parlarmi telepaticamente, come faceva la maggior parte delle volte quando eravamo solo io e lui.
Non erano Jija, per fortuna.
Questo mi fece emettere un sospiro di sollievo.
Ringraziai le stelle e ritornai ad ascoltarlo.
Non sapeva cosa fosse…aveva provato a espandere la sua telepatia, ma non aveva trovato nulla.
Per questo era rimasto fuori, nella notte, in mezzo alla foresta.
Appoggiò una mano sulla mia spalla e io potei collegarmi a lui, iniziai a sentire gli odori i suoni, che udiva lui, era una cosa strana a cui anche ora non mi ci sono abituata, è come entrare dentro a una persona e indossare la sua pelle.
L’urlo era doppiamente angosciante, ricordo che feci una smorfia di dolore, era un grido disperato, una richiesta d’aiuto a cui non sapevo se rispondere oppure no.
L’aria era calda, ma non così calda da soffocare, eppure io iniziai a sentirmi soffocare sotto quella giacca di pelle, che mi accompagnava da quando avevo dieci anni. Deglutii e guardai il mio Vice, i suoi occhi completamente rossi erano puntati verso qualcosa che a me restava invisibile ma che a lui era ben chiaro.
Feci un passo indietro, una sensazione di disagio misto alla paura mi avvolse in una dolce morsa, i miei capelli si raddrizzarono quando dietro a quelle foglie lunghe blu a forma di triangolo si mosse provocando un rumore sinistro, come il frantumare di ossa.
Portai all’indietro la mano e solo allora mi accorsi che la pistola non era dove doveva essere, una striscia di sudore mi attraversò la faccia per andare a sbattere contro il suolo ricoperto di foglie ormai secche.
Rufus si mise davanti a me come da scudo, tirò fuori la sua spada regalata da Galax, anni or sono, puntò i piedi e attese.
Senza la pistola ero completamente scoperta.
Non mi sarei potuta difendere.
Di colpo ero diventato un semplice bersaglio.
A pochi passi da lì c’erano i miei uomini che dormivano beatamente, se ci fosse stato un attacco era mio compito difenderli, poco importa se sarei morta. Scappare non era da me, non ero una codarda. E poi quale capitano abbandonerebbe il suo equipaggio a un destino infame come quello a cui stavamo andando incontro?
 
«Controlla il tuo cuore, ragazza! Il tuo battito sta facendo un baccano pazzesco! »
 
disse sibilando ogni singola parola prima di stringere forte l’impugnatura della sua arma, fino a far diventare le nocche bianche.
Socchiusi gli occhi e andai alla ricerca di quella calma che sembrava sparita all’improvviso.
E poi una luce accecante ci colpì senza preavviso, costringendoci a nascondere i nostri volti, rendendoci completamente vulnerabili al nemico.
Non avvenne nessun sparo, ne colpo di cannone, o qualcosa del genere. Non ci furono gridi di battaglia, nessun Jija ci divorò.
Una X40 sorvolava sopra le nostre teste a mo’ di avvoltoio del malaugurio e prima che potemmo domandarci cosa diamine fosse, ci ritrovammo risucchiati dentro a essa.
 
Odore di carne troppa cotta ci fece rinvenire.
La testa mi doleva, cercai con lo sguardo Rufus, lo trovai al mio fianco. Le nostre divise ci erano state sottratte e al posto di esse indossavamo delle tute arancioni. Esse puzzavano di qualcosa andato marcio e abbandonato lì da parecchie settimane.
Era nauseante.
 
«Che cos’è questo posto? » chiesi mentre cercavo di farmi andare via il fastidioso mal di testa che continuava a martellarmi incessante, costringendomi a tenere gli occhi chiusi e le mani sulle tempie.
 
« Non vedevo un X40 da quando avevo più o meno la tua età. Pensavo che fossero fuori servizio ormai…visto quanto andavano lente…» Rufus si portò le mani sui fianchi e osservò la stanza vuota « Dobbiamo muoverci, uscire da qui e ritrovare i nostri fratelli. Il rumore di quella cosa, sicuramente li avrà svegliati. Ci staranno già cercando. »
 
Ma la stanza non possedeva una porta o un cartello che indicasse l’uscita, così perdemmo mezz’ora a vagare nel nulla. Ci arrovellammo il cervello per nulla, il mio Vice continuava a ripetere che doveva esserci una via di uscita, che come ci avevano portato qui c’era il modo per fuggire. Io, più il tempo passava, più diventavo pessimista.
Non eravamo incatenati e non vedevamo sbarre, ma eravamo comunque dentro a una gabbia senza un inizio ne una fine.
Eravamo perduti in qualcosa che neanche noi capivamo.
 
Stufi, affamati, arrabbiati, abbandonammo presto l’idea di trovare una via di fuga e ci sedemmo per terra.
Sentivo il digrignare dei denti del mio Vice, detestava arrendersi al nemico in quella maniera. Lui, che discendeva da grandi guerrieri, messo nel sacco in quel modo lo faceva uscire di senno.
Gli appoggiai una mano sul braccio e sorrisi, lui ricambiò con un breve sorriso e per un attimo vidi i suoi denti bianchi a punta affilati come quelli di un Tik.
Un morso da parte sua e ti ritrovavi senza braccio.
 
« Hey brutti bastardi, faccio parte della Flotta dei Sette. Quindi se non volete che gli altri capitani arrivano in Pompa Magna, liberateci immediatamente e nessuno si farà male, ve lo prometto sul mio sangue.»
 
Tutto tacque.
 
« Perché ci ignorate? Davvero volete morire oggi stesso? »
 
Silenzio.
 
« Bene, avete deciso voi allora. Rufus, per favore manda l’ordine di attaccare. » diedi le spalle e attesi che qualcosa accade, ma nulla avvenne.
Bestemmiai nella mia lingua nativa, e iniziai a sbraitare verso qualcosa d’invisibile, come osavano prendersi gioco di me? Ero un capitano e meritavo rispetto!
Fu Rufus a riportarmi alla calma, era inutile, diceva, urlare non sarebbe servito a nulla se non infiammare la gola e nient’altro.
Avremmo aspettato.
Non sono mai stata una persona paziente sono più per l’azione, l’avventura, la lotta, le grida degli uomini feriti. Non è colpa mia se mi piace la guerra, ce l’ho nel sangue da sempre.
Non riesco a tenere le mani ferme più di cinque minuti.
Rufus, invece, è molto più paziente di me. Conosce i metodi per rilassare il corpo e trovare la pace interiore.
Ha provato a insegnarmelo ma i risultati sono stati scarsi.
Sbuffai. Il mio Vice mi lanciò un occhiata che diceva “calmati”, il dolore alla gamba ricominciò a farmi nuovamente visita, era una fitta che prendeva la coscia e mi costringeva a contrarre il muscolo. Una vera tortura.
Ora si che mi sarebbe stato d’aiuto la pomata di quella tipa dalla pelle rossa e nera, incontrata su quel pianeta dal nome strano, sbuffai nuovamente, per quanto ci avrebbero tenuti chiusi qui?
E poi all’improvviso una voce parlò.
Era una voce di donna, soave, gentile, falsa.
 
« Buongiorno visitatori, benvenuti sulla Yaris X40, per favore mettetevi seduti e aspettate pazientemente i nostri operai. Essi vi aiuteranno con le tute. In questo momento stiamo viaggiando verso il pianeta Yandi, dove sarete presentati  a sua Maestà Shonda. »
Shonda, Re di tutto il pianeta, figlio di Sagace, grande sovrano morto all’età di ottocento anni. Molte storie si raccontavano sul Re Buono, egli aveva governato con saggezza e pazienza, per questo il suo pianeta gli era stato grato, alla sua morte il suo popolo gli aveva donato una statua in oro che raffigurava un Sagace giovane, possente, senza paura ma saggio.
Tutte queste qualità ahimè non erano ricadute nel figlio minore, Shonda. Avevo sentito che dopotutto non era così amato come si diceva in giro, l’eredità che suo padre gli aveva lasciato era stato un fardello troppo grande per lui, così inevitabilmente aveva fallito troppo presto.
Più un Re era un Tiranno.
Ed era mio zio.
 
Lanciai un'altra bestemmia mentre una porta comparve davanti a noi, dovevo saperlo che mio zio non mi avrebbe lasciato in pace.
Aveva sterminato la mia famiglia, ma non era riuscito a concludere il lavoro.
Tita, mia madre mi aveva messo su una nave di mercenari all’età di otto anni, con la speranza che questo gesto mi salvasse dalla crudeltà di Shonda.
Aveva funzionato, per un po’…
Guardai Rufus, egli non era solo il mio Vice, era il mio tutore, il mio mentore, il mio amico fidato.
 
« Non fare cazzate.»
 
Dalla porta entrarono quattro uomini, due di essi indossavano i colori di Yandi: oro e celeste, segno che appartenevano un livello superiore di solo semplici operai. Rufus fece un cenno con la testa poi senza fiatare si sfilò la tuta arancione per scambiarla con quella che gli veniva offerta da un uomo di bassa statura dai vestiti consumati e impolverati.
La donna, tutta pelle e ossa, mi prese le mani e mi appoggiò dolcemente la mia tuta. Se pensavano che avrei fatto la stessa cosa di Rufus, bè se lo potevano scordare. Non mi sarei spogliata davanti a  tutti.
 
« Ben ritornata Ella, figlia di Titus e Tia, nipote del grande Sagace. Tuo zio ti aspetta alle porte di Yak per darti il suo benvenuto caloroso. Abbiamo il nobile compito di scortarvi fino a lui.
Quando il popolo ha saputo del tuo arrivo, è sceso per festeggiare il tuo ritorno, principessa. »
 
L’uomo dai capelli raccolti s’inchinò davanti a me poi mi porse la mano, guardai il mio Vice che acconsentì, era l’unica cosa da fare almeno per ora.
 
Yak, la capitale di Yari, era una città in mezzo al deserto.
Dentro le mura si svolgeva la vita quotidiana dei bravi cittadini della Capitale, essi erano contadini, insegnanti, medici, fabbri, droghieri, gente onesta dove il  loro unico scopo era quello di sopravvivere a mio zio e alla sua tirannia.
 
Shonda della dinastia dei Hak, mi attendeva davanti alla porta della città. Era accompagnato dai suoi uomini, insieme a lui c’era suo figlio, Kik, che vedendoci arrivare gonfiò il petto con fare arrogante, dal suo mantello color oro e celeste sbucava una lunga spada argentata.
Avrei voluto far un’entrata diversa da quello che mi veniva offerto, invece ritornavo nella mia terra natia come un prigioniero di guerra se non peggio.
Mio zio sorrise nel vederci scendere dalla navicella, venne incontro a braccia spalancante e prima che io potessi dire qualcosa mi strinse forte a sé.
Odorava fortemente di fiori di bach, i suoi lunghi capelli argentati profumavano dei semi del diavolo, le sue mani erano state curate con una crema che le rendevano morbide e giovani, i suoi denti erano stati affilati nella maniera giusta e ora splendevano di una luce strana.
 
« Ella, nipote mia! Non sai quanta gioia io prova nel vederti! »
 
mi diede un bacio sulla testa prima di lasciarmi andare, fece un passo indietro per ammirarmi.
 
« Ti sei fatta grande, ragazza mia. Kik viene a salutare tua cugina! Ricordi Kik? Quando te ne andasti, egli aveva appena tre anni. »
 
Mio cugino si fece avanti, i suoi occhi neri mi studiarono profondamente, io ricambiai l’occhiata torva che aveva gettato su di me alcuni secondi fa, con la speranza di mettere in chiaro le cose.
Non ero una semplice cittadina di Yak che temeva il suo sovrano, ne una principessa bisognosa.
Ero il capitano di un equipaggio di cento uomini e non mi sarei fatta mettere i piedi in testa da un mocciosetto che si credeva chissà chi.
 
« Cugina…è bello saperti nuovamente a casa»
 
« Grazie cugino»
 
ci stringemmo la mano e nulla di più.
 
Per ora bastava.
 
La folla ci accolse in maniera festosa, quando le porte si spalancarono un boato di voci si mescolarono alle nostre, diventando tutt’uno.
Raggiungemmo gli alloggi del Re su carrozze addobbate in maniera mostruosa e imbarazzante, a trainarli c’erano due esseri mai visti prima d’ora, ero grossi, le orecchie erano tonde, e la loro pelliccia era del color carota.
Mi domandai cosa essi fossero e quando chiesi mi venne detto che erano degli Hug, animali d’allevamento, di cui la carne era molto ambita in certi pianeti.
Replicai che mai prima d’ora avevo sentito tale nome, essi risposero con un alzata di spalle. La conversazione  terminò. Nessuno aprii bocca fino a quando non arrivammo a destinazione.
 
Gli alloggi del Re erano stanze dal soffitto alto con finestre che davano sui giardini reali. Le signore dai vestiti colorati passeggiavano allegramente tra le siepi, chiacchierando o spettegolando sugli ultimi fatti.
Sulla mia sedia vi era appoggiato un vestito con un fiocco color rosso. Avrei dovuto indossarlo alla cena di quella sera. Inutile dire che la cosa non mi faceva uscire di senno dall’euforia, semmai mi faceva storcere la bocca.
Chissà dov’era Rufus in quel momento. Ci avevano separato davanti alla scalinata che portava dritta dritta agli alloggi di sua signoria.
Mio zio aveva chiesto il permesso di scambiare due parole con il mio Vice e lui aveva acconsentito.
Mi sedetti sul letto dalle coperte profumate e dai colori sgargianti, il mio pensiero andò all’equipaggio che avevo lasciato su Kronk.
Cosa avrebbero pensato i miei uomini quando al risveglio non mi avrebbero trovato nei paraggi?
Tradimento?
 
 
   
 
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