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Autore: TheMadnessInMe    16/05/2017    0 recensioni
In tutto questo non c’è nulla di strano, nulla di sconvolgente, lo so. Quello che ha lasciato senza fiato chiunque, ciò che mi ha distrutto, è accaduto dopo quel che vi ho riferito fino a questo momento.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.❞Ugo Foscolo, Alla Sera

Chanel POV


Benvenuti gentili lettori e grazie per aver deciso di dedicare un minimo del vostro tempo alla lettura di questo mio scritto, di questo mio ricordo.
Grazie per aver deciso di vivere insieme a me quel giorno, quegli attimi che hanno segnato il resto della mia vita.
Ma prima di cominciare, lasciate che mi presenti: il mio nome è Chanel, ho vent’anni e sono originaria di Boston, Massachusetts ma attualmente mi trovo in Italia, più precisamente a Roma. Mi sono trasferita qui per frequentare l’Istituto di Disciplina, Arte, Musica e Spettacolo, meglio conosciuto come DAMS, dopo aver interrotto i miei studi in America.
Forse vi sembrerà una scelta stupida, probabilmente vi chiederete perché mai un americano dovrebbe voler venire a studiare in Italia.
Ve lo dico io il perché: perché l’Italia ha un patrimonio culturale e artistico vastissimo e ricchissimo, gli artisti italiani sono famosissimi e molto apprezzati in ogni parte del Globo, e sì, forse essendo americana sarò “di parte” ma dovreste seriamente imparare ad apprezzare maggiormente la vostra terra, dovreste provare a guardarla con gli occhi di uno straniero.
L’Italia mi sembrava il luogo migliore per intraprendere il mio corso di studi e devo ammettere che non ho commesso un errore.
Riassumendo ai minimi termini quello che è stato il mio primo anno a Roma, vi posso dire che sono riuscita a fare amicizia relativamente in fretta e in particolar modo ho stretto un bel rapporto con un ragazzo di nome Dante e una ragazza, Florence ed è proprio lei il punto cardine di questa storia.

Tutto ha avuto inizio verso la fine dell’anno, quando tutti stavano iniziando a dedicarsi ai loro progetti per l’esame finale. A quanto pare sia Dante che Florence erano a corto di idee, così come lo ero anche io.
Era da alcuni giorni che ognuno di noi provava a trovare qualcosa su cui far vertere il proprio esame finale ma nessuno ebbe un’idea geniale per almeno due settimane, fino a quando, come al solito, ci incontrammo al bar Night And Day in via Ventuno Aprile, con la precisa intenzione di trovare una soluzione efficace al nostro problema.


«Sono arrivata, scusate il ritardo.» - dico, prima di posare la tracolla ai piedi della sedia e prendere posto accanto a Florence. «Qualche idea?» - domando speranzosa.
«Macché.» - sentenzia Florence mentre sbuffa dal naso e batte ripetutamente un piede a terra con fare nervoso.
«E come se non bastasse il tempo stringe.» - aggiunge Dante.
«Okay, innanzitutto vediamo che tipo di esame dobbiamo dare singolarmente.»
«Perché, tu hai un’idea?» - chiedono all’unisono i miei amici, con gli occhi che brillano di speranza.
«Sì, ma… Non so se potrebbe andare.» - rispondo.
«Io dovrei scrivere un testo teatrale.» - dice Dante mentre addenta un cornetto.
«Io dovrei dare l’esame di pittura ma mi manca il soggetto.» - afferma Florence, nascondendo il viso dietro una tazza di tè fumante.
«Allora…» - mormoro, più a me stessa che ai due, cercando di far conciliare i tre esami nella mia mente. «Dal momento che io dovrei mettere in scena qualcosa, stavo pensando che forse…»
«Che forse…?» - mi fa eco Dante.
«E dai, Chanel, il tempo stringe!» - sbotta Florence, ormai visibilmente sull’orlo di una crisi di nervi.
«Florence vedi che se ti arrabbi poi non so più distinguere il tuo viso dai tuoi capelli!» - la punzecchio, trattenendo una risatina. Non è raro, infatti, che quando la ragazza si altera, le sue guance assumano una tinta dello stesso colore dei suoi capelli.
«Quando saremo fuori dal bar verrai schiacciata.» - sibila Florence.
«Ma se sei alta solo dodici centimetri più di me!» -ribatto, putandole un indice contro con fare inquisitore. Ogni volta che puntualizzo su questo particolare del suo carattere, Florence scatta sulla difensiva e ribatte dicendo che lei è “più alta”, anche se in realtà non di molto. Non che io sia bassa sia chiaro, sono alta un metro e settantatré ma chiaramente un metro e settantatré centimetri sono meno di un metro e ottantacinque.
«In ogni caso…» - dico, alzando di poco la voce per attirare l’attenzione. «Dante potrebbe riscrivere un testo per Giuditta e Oloferne, io potrei interpretare Giuditta e Florence potrebbe fare delle tele per delineare meglio gli ambienti in cui si svolge la vicenda. Ah, e dovresti anche interpretare il ruolo di Oloferne.» - aggiungo, rivolgendomi alla ragazza.
«Aspetta… Io dovrei fare Oloferne?» - balbetta lei, incredula.
«Sì. Insomma, è l’unica buona idea che mi è venuta in mente. Ti prego accetta… Ti prego, ti prego, ti prego…» - le faccio, alterando il suono della voce e giungendo le mani in segno di preghiera.
Di tutta risposta Florence sbuffa e alza gli occhi al cielo, rassegnata. «E va bene.» , dice. «Ma solo perché siete voi.»

Il mese precedente all’esame finale era stato interamente dedicato all’esame stesso: era come se Florence, Dante e io non avessimo alcun tipo di relazione se non quella che lega un collega a un altro. Un collega, sì, perché era questo che eravamo diventati. Questo perché il lavoro da fare era davvero tanto e trattandosi di un esame, cercavamo di rendere il tutto quanto più “perfetto” – e soprattutto omogeneo –  possibile. Da un lato non vedevamo l’ora di mettere in scena il nostro lavoro, così da «poter finalmente riprendere a respirare» - come eravamo soliti dire negli ultimi giorni prima della prova, dall’altro però eravamo titubanti e avremmo desiderato che quel giorno non arrivasse mai. In particolare, io avrei preferito non aver dovuto sostenere quel maledetto esame.

La nostra prova si sarebbe svolta nell’aula di teatro, la quale era grande abbastanza da poter ospitare tutti i docenti di entrambi i corsi di studio da noi scelti.
Dante aveva lavorato giorno e notte per portare a termine i dialoghi e la sceneggiatura, Florence aveva dato il massimo nella realizzazione delle tele raffiguranti gli ambienti e io ho concentrato tutte le mie attenzioni sulla messa in scena dei dialoghi, delle posture e dei gesti che avremmo dovuto portare sul palco.

«Diamine ma perché devono esserci tutti i docenti?» - chiede retoricamente Florence, sbirciando da dietro una spessa tenda di colore rosso posta su una delle metà del sipario.
«Perché devono esaminarci, genia.» - sentenzia Dante mentre cammina ripetutamente avanti e indietro.
Io non posso che cercare di nascondere il mio nervosismo. «Dante, la sceneggiatura è molto curata e lo sono anche i dialoghi. Non hai nulla di cui preoccuparti.» - gli dico, dandogli qualche pacca su una spalla per confortarlo. «E tu, Florence...» - aggiungo, posandole entrambe le mani sulle spalle «… tu hai fatto davvero un ottimo lavoro. Non solo hai realizzato le tele per la scenografia, ti sei anche messa in gioco. Mi hai aiutato nei dialoghi.»
Ritiro le mani dalle spalle della ragazza e, scostando un ciuffo biondo ossigenato dal viso, sbircio al di là del sipario, notando che i docenti stanno iniziando a prendere posto. Tiro un profondo sospiro, sparendo nuovamente dietro alla stoffa rossa.
«O la va o la spacca.» - dico allungando una mano verso il centro, invitando in modo indiretto i due ragazzi a far lo stesso, come forma di incoraggiamento reciproca prima di entrare in scena con Florence.


In tutto questo non c’è nulla di strano, nulla di sconvolgente, lo so. Quello che ha lasciato senza fiato chiunque, ciò che mi ha distrutto, è accaduto dopo quel che vi ho riferito fino a questo momento.


Eravamo ormai giunti al termine della rappresentazione teatrale: l’omicidio di Florence nei panni di un Oloferne ormai ubriaco a causa dei tre giorni precedenti passati a banchettare.
Ecco dunque che cautamente, avanzando con passo felpato, entro in scena pronta a sfoderare la spada con la quale uccidere il povero Oloferne alle spalle.
Inspiro profondamente dal naso, incamerando quanta più aria possibile principalmente per due motivi: per rilassare i muscoli dalla tensione accumulata fino a questo momento e per essere pronta a rendere quanto più reale possibile un colpo letale.
Ciò che accade dopo il mio respiro è un susseguirsi di azioni talmente rapide che ormai – se provo a ricordare quegli attimi– mi sembrano molto, troppo sfocate per poter essere considerate come reali.
La mia mano sinistra afferra i capelli di Florence tirando brutalmente il capo della ragazza verso di me, la lama della spada che tengo con la mano destra va a posarsi sulla sua gola, poco sopra le clavicole. Tutto questo mentre ritraggo il braccio con uno scatto, recidendo con violenza la gola della ragazza che cade di schiena non appena libero il mio arto sinistro.
Il mio cervello registra immediatamente le informazioni che riceve ma mi ci vuole qualche frazione di secondo in più per capire che cosa ho fatto.
La spada di scena, quella che sarebbe dovuta essere sicura, mi cade di mano, macchiata da un liquido di tonalità cremisi – la stessa tonalità del liquido che fuoriesce dalla gola di Florence, la stessa tonalità dei suoi capelli: un lungo segno scarlatto, profondo almeno quanto le sue idee utopistiche e il suo Io, le marca la gola, i miei occhi puntati su quell’erroneo squarcio fatale, così profondo eppure così delicato sul suo collo. Le luci sono putate tutte su di lei, tutte sulla sua ferita, sulla sua espressione di invadente agonia; è il momento indiscusso di climax ascendente di una tragedia che, per quanto elaborata, non può sfuggire alla realtà.
Prendo il suo corpo tra le mie braccia, lo avvicino al mio, avvicino le mie labbra alle sue, il mio orecchio al suo petto immobile; il suo corpo esanime non si tira indietro.
Copiosi applausi riecheggiano nella sala, la pervadono; gli spettatori si alzano battendo, compiaciuti e commossi, le mani con enorme fretta, come se allungando la durata dell’applauso possano donare a noi maggiore gloria e più profonda soddisfazione.
Il sipario inizia lentamente a chiudersi.
Quei lembi di stoffa rossa ci separeranno dal resto del mondo in modo definitivo; rimarremo solo tu e io amore mio, tu e io, da sole.
Le due metà del lenzuolo scarlatto si uniscono con un sinuoso movimento di perfetta coordinazione.
I suoi occhi si chiudono, lei spira.
La fine.

Maledico ancora quel giorno e quell’esame, maledico ancora la mia scelta di venire a studiare in Italia, maledico il giorno in cui arrivai qui a Roma e quello in cui strinsi amicizia con Dante e Florence ma soprattutto maledico il giorno in cui capii di essere innamorata di lei e nonostante questo, di non averglielo mai confessato.

Scrivo questo seduta al tavolino del bar Night And Day in via Ventuno Aprile, lo stesso bar che ero solita frequentare con Dante e Florence durante l’anno, con una tazza di tè fumante tra le mani – forse in memoria della ragazza. Ne assaporo ogni goccia, come se fossero le ultime della mia vita, prima che gli uomini in divisa alle mie spalle mi conducano verso il luogo in cui verrò punita per aver tolto la vita a Florence.
Non voglio che ve la ricordiate in questo modo però, priva di anima, inerme, resa fredda dal bacio dell’angelo della morte.
Il suo colore non era quello della morte ma il rosso: Florence –  bella come dice il suo nome, come Firenze –  era rossa.
Rossi erano i suoi capelli, rosse le sue guance quando mi divertivo a stuzzicarla. Rossa era la passione che aveva per ciò che faceva, rossa la sua rabbia, rosso il rossetto con cui impreziosiva le sue labbra già perfette. Quel rosso che tanto mi faceva girare la testa e battere il cuore, che mi faceva bollire il sangue nelle vene. Me lo fa bollire ancora e adesso continuerà a riscaldarmelo e a farmi luce, anche nel gelido buio in cui dovrò passare il resto della mia giovinezza.
 
  
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