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Autore: _Frame_    21/05/2017    1 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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126. Distruggere e Creare

 

 

“Non è morto.” Francia strinse le braccia al petto e scosse il capo, chinò lo sguardo che in penombra si velò di una sfumatura stanca, più grigia, che rendeva più smorto anche il biondo dei suoi capelli. Si spostò di profilo, davanti alla finestra sulla quale batteva la fioca luce del tramonto, infilò le punte delle dita fra due ciocche piovute sulla guancia, e le riportò dietro l’orecchio seguendo la curva della nuca. “E non morirà nemmeno, non è questo che vogliamo ottenere da questa vittoria. Ci saranno solo dei ridimensionamenti a livello sia politico che geografico.”

Italia si raschiò via dalle ciglia le ultime gocce di lacrime che erano stillate dagli occhi stanchi e svuotati come il suo cuore. Soppresse un piccolo singhiozzo che rimase incastrato in gola. “R-ridimensionamenti?” balbettò. “Ma allora...” Sgranò le palpebre, le guance impallidirono mettendo in risalto il grigiore attorno alle orbite infossate. Un sospiro di terrore gli ghiacciò il sangue. “Allora potrebbe anche scomparire.” Il panico crebbe dentro di lui, brividi di freddo gli aggredirono il corpo, scesero fino allo stomaco facendogli tremare le gambe. Italia raccolse le mani tremanti sul petto, le posò sul cuore, come per abbracciare il suo stesso dolore. “Lui, e Prussia, e Austria, e Ungheria, potrebbero tutti...” Le loro ombre si fecero sempre più piccole e distanti nella sua mente, scomparvero assieme ai loro volti, al suono delle loro voci, e la sensazione di averli affianco divenne più lontana. Italia si strinse il viso, gli occhi stravolti caddero in mezzo ai piedi. “Potrei non rivederli mai più, potrebbero dimenticarsi di me, potrebbero non essere più quelli che ero abituato a conoscere. E...” Boccheggiò, soppresse le prime vertigini. “E...”

Francia scosse la testa. “Cambiamenti di questo genere non sono sempre dannosi per una nazione.” Gli posò una mano sulla spalla e piegò un flebile sorriso. “Persino Russia cambierà completamente dopo questo conflitto.”

Un’altra fitta di dolore contrasse il cuore di Italia, nonostante il tepore trasmesso dalla mano di Francia. “Ma Russia ha vinto,” guaì, “lui era dalla vostra parte. Non è...” Si posò una mano sulla fronte, la vista si appannò, le palpebre bruciarono, la sua voce divenne sottile e angosciata. “Non è in pericolo.” Il respiro tremò: una coltellata in mezzo ai polmoni. “E io non ho potuto nemmeno...” Singhiozzò. “Nemmeno chiedere scusa a Germania. Poi ora anche Romano è arrabbiato per tutto quello che ci è successo e...” Sentì di nuovo quel buco scavarsi nel petto e dargli l’impressione di avere una mano artigliata ad affondare fra le costole e a strappargli il cuore. “Anche se sono assieme a Romano, anche se sono assieme a mio fratello...” Fece scivolare la mano dal volto, la schiuse, si guardò il palmo tremante, le dita smagrite e diventate più bianche, le vene bluastre che emergevano da sotto la pelle assottigliata e cadaverica. Il dolore che nasceva dalla cicatrice dello sparo alla spalla ramificava lungo tutto il muscolo del braccio, entrava nell’osso, come un morso aguzzo, e schioccava fino alle punte delle dita, paralizzandole. Sul volto di Italia si dipinse una scura maschera di sofferenza e paura. “È come se mi avessero portato via un pezzo di me.”

Francia gli fece scivolare la mano dalla spalla, allontanò il tocco da quel dolore che nemmeno lui comprendeva fino in fondo. “Dovrai imparare a ricostruirlo da solo,” gli rispose.

Italia si morse il labbro. Dentro di lui nacque il bruciante desiderio di tapparsi le orecchie, cadere in ginocchio e scuotere il capo, scacciando via tutte quelle parole che non voleva sentire. Non lo accettava.

“Tu e Germania avevate formato un legame che ora si è spezzato,” disse Francia, “e che per questo non potrà mai più esserti restituito per com’era prima e per quello che era. Cose di questo genere avvengono da sempre fra di noi, e in qualche maniera contribuiscono alla crescita stessa di una nazione, quindi non devi essere troppo triste per questo.” Spostò lo sguardo alla finestra, sospirò, e anche il suo viso si fece più cupo. “Dovrai imparare a ricostruire da solo il pezzo che ti è stato strappato, Italia.”

La voce di Italia stridette. “Ma come faccio...” Si avvicinò di un passo a Francia e si aggrappò a una sua manica, lo implorò con sguardo di supplica. “Come faccio a tornare a guidare il mio paese dopo... dopo tutto quello che ho fatto passare al mio popolo?”

“Dovrai farlo,” gli disse Francia. “Perché è questo che i nostri popoli si aspettano da noi. È questo il dovere di una nazione.” Gli posò la mano sul polso, lo guardò con occhi che erano più rassegnati dei suoi. “Il mondo continuerà a girare, e purtroppo non si fermerà ad aspettare quelli che rimarranno indietro a sperare che si fermi per loro.”

Italia socchiuse le labbra, passò un singolo fiato, e non riuscì a dire nient’altro.

“Veneziano.”

Entrambi si girarono verso la porta che era rimasta aperta, i loro sguardi si posarono sulla sagoma di Romano materializzata accanto allo stipite, con la mano sul pomello e la faccia in penombra. Romano spostò gli occhi su Italia, allontanandoli da quelli di Francia, e sul suo viso tornò quello spettro di ostilità che si era impossessato di lui quando Inghilterra gli aveva letto il verdetto di guerra. “Che fai ancora qui?”

Italia si affrettò a strofinarsi gli occhi, anche se non aveva pianto, e a sfilarsi dal tocco di Francia che gli teneva il polso. “Nie-niente.” Si allontanò da lui rivolgendogli un’ultima occhiata da sopra la spalla, chinò il capo e fece strisciare i passi fino a Romano. Gli chiuse la manica fra due dita, gli sfiorò la spalla con la sua, e vi posò la fronte sopra, accostandosi al suo confortante profumo familiare. “Andiamo a casa,” sussurrò.

Romano gli parlò accanto all’orecchio. “Cosa?”

Italia strinse le labbra per contenere un singhiozzo. “Andiamo a casa, Romano.” Sollevò la mano e gliela strinse sul petto, strizzò gli occhi e si rintanò come un cane che va a infilare il muso nella cuccia. “Ti prego,” lo supplicò, “andiamo via.”

Romano, dopo un breve attimo di esitazione, annuì. Non se lo fece ripetere due volte.

 

.

 

“Quei grandissimi figli di puttana!”

Romano scaricò un calcio sul muro, sbriciolò una scaglia dell’intonaco e vi lasciò sopra una mezza impronta nera. Tornò a pestare il piede a terra, stritolò i pugni ai fianchi, il bruciore delle unghie contro i palmi si unì a quello che gli ribolliva nello stomaco e nel petto, una fitta ombra nera si increspò attorno agli occhi ristretti che fiammeggiavano come bracieri incandescenti. Un profondo ringhio gli digrignò la bocca, fece stridere i denti, e le guance si chiazzarono di rosso.

“E certo!” abbaiò. “Perché ora noi siamo i reietti, quelli da castigare.” Gettò un braccio al soffitto e prese ad andare avanti e indietro lungo la parete, inseguito dalla sua ombra che gettava su di lui un’aura nera e cupa come nebbia di carbone. “Nemmeno fossimo stati noi a distruggere mezzo mondo. Ma no! Questi stronzi ci trattano peggio. Seconda possibilità un cazzo!”

Italia strinse le ginocchia al petto, chiudendo le braccia attorno alle gambe, e spinse la schiena contro la testata del letto, accoccolandosi fra i due cuscini. Abbassò la fronte, i capelli ricaddero sul viso nascondendogli gli occhi, le braccia e le spalle tremarono, lui si pizzicò il labbro inferiore e trattenne un piccolo guaito di sofferenza. Si tenne raggomitolato nel suo nido di dolore che continuava a premere sul petto come un coltello conficcato nel muscolo del cuore. Tenne lo sguardo lontano dalla rabbia di suo fratello.

I passi di Romano continuavano a schioccare a ritmo della sua marcia, l’ombra avanzava e arretrava, sempre più scura, sempre più minacciosa, come quella di un animale in gabbia che si struscia attraverso le sbarre. “Loro ci vogliono semplicemente fuori dai piedi,” Romano piantò un indice verso il basso, “perché ora non valiamo più niente, non siamo né da una parte né dall’altra per loro.” Picchiò un’altra volta l’aria con un dito, alzò la voce. “E questo è stato l’ennesimo calcio nelle palle che hanno rifilato!”

Italia strinse di più le punte dei denti attorno al labbro, spinse gli occhi chiusi contro le ginocchia, stropicciò la stoffa dei pantaloni fra le dita, e sentì le ferite – quelle dentro e quelle fuori – pulsare di un dolore rovente che non gli dava pace.

Romano prese un respiro rabbioso, ingollò l’aria fino allo stomaco, irrigidì come un blocco di marmo, e sospirò finendo a spalle chine e capo piegato. I muscoli si rilassarono, il corpo svuotato di tutta la rabbia che aveva rigettato si fece più pesante e affaticato, formicolii attraversarono braccia e mani, gorgogliarono in fondo allo stomaco e si annodarono nel petto. Romano aprì e strizzò un pugno. Guardò la parete, si voltò lentamente facendo, e lo spinse contro il muro senza fare rumore: un soffice pugno che non avrebbe steso un cuscino. Mormorò con voce stanca. “Stronzi.” Piegò il braccio alla parete, spinse la fronte nell’incavo del gomito. “Stronzi figli di puttana.” Strinse di più il pugno e le nocche grattarono sull’intonaco, sbucciandosi e restando rosse. La sua bocca tremò di nuovo, inasprita dal sapore della rabbia. “Se solo...” Soppresse le parole in un ringhio, e nella camera tornò ad aleggiare un silenzio di ghiaccio. Romano si staccò dal muro. Si girò di scatto verso Italia, allargò le braccia e la sua voce si graffiò di indignazione. “E di’ qualcosa, cazzo.”

Italia scosse il capo senza sollevare la fronte dalle ginocchia.

Romano sbuffò, uno sbuffo triste e sconsolato, e si allontanò dalla parete facendo strisciare i piedi come un condannato alla gogna. “Comincio a credere...” Si passò una mano fra i capelli, si resse la fronte, e sulle sue labbra si dipinse un sorriso buio e amaro. “Comincio a credere che sarebbe stato meglio se avessimo perso, piuttosto che esserci ridotti a questa...” Un pugno di ribrezzo gli annodò il respiro, facendolo sussultare. “A questa...” Sfilò le dita dai capelli, aprì la mano e si fissò il palmo tremante. “A una vittoria mutilata come questa.”

Una scossetta attraversò la schiena di Italia, si infilò nel cuore come una spina di vetro. Italia girò la guancia, riportò gli occhi avviliti alla luce polverosa che li bagnò facendoli sembrare ancora più lucidi, e sbatté le ciglia. “Vittoria mutilata?” bisbigliò.

Il ricordo delle sue stesse parole emerse dalla sua mente, rievocò quello che si era detto con Francia, lo piegò nello stesso dolore che aveva provato davanti a lui, quando si era stretto la maglia all’altezza del cuore e aveva chiuso le palpebre per non lasciar sgorgare le lacrime. “È come se mi avessero portato via un pezzo di me.”

“Mi sento come se mi avessero strappato una gamba o un braccio di dosso,” disse Romano, massaggiandosi la spalla. Strisciò di due passi accanto al letto e si lasciò cadere a pancia ingiù, il materasso rimbalzò due volte e anche il peso di Italia oscillò. Romano si rotolò supino, incrociò le braccia davanti al viso rivolto al soffitto, ed emise un profondo sospiro che gli gonfiò e sgonfiò il petto. “Anche se sulla carta abbiamo vinto,” scosse il capo, “io non riesco a riconoscere questa vittoria. Non la riconosco io, non la riconoscerà il resto del mondo, e non la riconoscerà nemmeno il nostro paese.” Abbassò le braccia dagli occhi, girò la guancia premendola sul materasso, e spostò quello sguardo avvilito su Italia. Tese la mano sopra il copriletto, raggiunse la sua ancora attorno alle gambe, gli strinse delicatamente le punte delle dita e gli trasmise un soffice calore di consolazione. “Ma almeno siamo io e te.” Intrecciò le prime falangi, chiuse di poco la presa, e una scossetta di tristezza gli punse un battito del cuore, gonfiò un dolore che sostituì tutta la rabbia che aveva provato prima. Romano increspò le labbra forzando un minuscolo sorriso di consolazione, ma anche i suoi occhi si fecero più lucidi e stanchi, cerchiati di un grigiore smorto, simile a quello di un cielo uggioso. “Almeno abbiamo qualcosa da cui ripartire e su cui ricostruire tutto quello che ci è stato portato via.”

Italia rimase a labbra socchiuse, forzò le dita a muoversi, le contrasse sotto il tocco di Romano, per rispondere alla stretta, ma la mano rimase paralizzata, fredda e rigida come pietra. “I-io...” Non trovò alcun calore, il buco nel petto rimase, bruciò come la cicatrice alla spalla. Scosse il capo, sfilò le dita da quelle di Romano, piegò le gambe per girarsi di profilo e tenersi rannicchiato alle ginocchia. “Io non sono sicuro,” sussurrò.

Romano flesse un sopracciglio e i suoi occhi persero la scintilla di tristezza, si macchiarono di confusione.

Italia si chiuse di più nelle spalle. “Non sono sicuro di riuscire a...” Un groppo alla gola lo fece esitare. “A ricominciare dopo tutto questo. Dopo tutto quello che ho fatto,” tentennò, “dopo tutto quello che ho fatto al nostro paese, a te, e a lui...”

Romano si alzò dal letto facendo cigolare le molle, gli si avvicinò mettendosi seduto davanti a lui. “Ehi, ehi...” Tese le mani e gli raggiunse il viso, gli chiuse delicatamente le guance fra i palmi, divaricò le dita fino a sfiorargli i ciuffi di capelli davanti alle orecchie. “Guardami.” Gli fece sollevare lo sguardo, lo fissò dritto nelle pupille, vide riflesso il suo sguardo di rimprovero negli occhi di Italia, larghi e lucidi. “Tu non hai nessuna colpa nei suoi confronti. Nessuna. Capito?”

Italia trattenne il respiro, le guance si arrossarono come prima di scoppiare in lacrime, gli occhi si strinsero facendo traballare il luccichio fra le ciglia, ma non pianse. “Ma se...” Sollevò anche lui una mano e la posò sopra quella di suo fratello. Scosse il capo. “Io non riesco a pensare che ora lui è da solo...” Strinse di poco le dita. Evocò quei momenti quando sotto il suo tocco c’era la mano di Germania, quando c’erano le sue dita ad avvolgergli la guancia, quando c’erano i suoi occhi azzurri a specchiarsi nel suo sguardo. “Che forse... forse ha bisogno di me, e...” Le loro mani che si separavano, i loro sguardi che si allontanavano l’uno dall’altro. “E io non posso esserci.” Di nuovo quel macigno di colpevolezza lo colpì alla schiena, gli fece accelerare il respiro, il battito del cuore era gonfio e dolorante. “E solo ora ho capito che io non ci sono mai stato per lui quando aveva più bisogno di me, ma solo quando io avevo bisogno di lui.” Si coprì la bocca e tornò a premere la fronte sulla spalla di Romano.

Romano soppresse il guizzo d’invidia che sentì pungergli il cuore. Ma come può continuare a pensare a lui anche in una situazione del genere? Chinò il capo, prese un respiro e strinse le labbra per non far notare il leggero spasmo di rabbia che gli aveva fatto tremare la bocca. Distese le mani sulle guance di Italia e gli fece risollevare il viso. “Ma tu adesso sei dove c’è davvero bisogno di te.” Il tocco scese, raggiunse la sua mano e gliela strinse. Romano tornò a guardarlo negli occhi. “Sei a casa, sei nel tuo paese, sei qui con me.” Si mise sulle ginocchia, avvicinandosi a lui. “Io ora ho bisogno di te, Veneziano, l’Italia ha bisogno di te, ha bisogno di noi due, ha bisogno che siamo uniti. Ora avremo la possibilità di ricostruire il paese con le nostre forze, non puoi lasciarti andare in questa maniera.”

Italia singhiozzò, si strofinò la punta del naso. “Il popolo non è contento, però,” disse.

Romano annuì, il suo volto divenne di nuovo buio. “Lo so.” Sfilò la mano da quella di Italia, si lasciò di nuovo cadere sul letto, supino, le braccia raccolte in grembo e i capelli sparsi sul materasso. Nei suoi occhi ingrigiti comparve un’ombra di rassegnazione. “Ed è giusto che non lo sia.” Scosse le spalle. “Nemmeno io lo sono, dopo il trattamento che ci hanno riservato quei bastardi.”

“E se volessero un’altra guerra?” domandò Italia. “Una guerra...” Deglutì. La bocca era tornata amara e secca, sentiva il sapore della paura. “Per riparare a questa?”

Romano scosse il capo. “No.” Premette un braccio sopra la fronte, e l’ombra attorno agli occhi gli diede un’aria più combattiva e feroce. “No, perché è a questo che è servita questa qui: a fargli capire che non dovrà essercene un’altra.” La mano adagiata sul letto strinse la presa sulle lenzuola, le stritolò contro il palmo. “Non staremo zitti e non accetteremo nemmeno di venire umiliati così, tantomeno rinunceremo a prenderci quello che ci spetta, ma lo faremo con le nostre forze, e non buttandoci di nuovo fra le braccia dei crucchi.” La scintilla d’odio tornò ad attraversargli lo sguardo. “Non gli permetteremo mai più di ingannarci in questa maniera, non permetteremo a nessuno di farlo.”

Italia emise un sospiro di sconforto. Le ossa della schiena scaricarono scossette di dolore lungo tutta la spina dorsale, i suoi muscoli indolenziti protestarono, fremettero e diventarono rigidi. Italia distese le gambe e si lasciò scivolare anche lui lungo il letto, sul fianco, accanto a Romano. Gli toccò i piedi con i suoi e raggomitolò le braccia accanto alla sua spalla. Il viso gli sfiorò la guancia. “Germania si fidava di me,” sussurrò. “E se solo ci fosse un modo...” Anche lui strinse le lenzuola fra le dita, sopprimendo tutto il bruciore che sentiva dentro. “Se solo ci fosse un modo per fargli capire...” Il respiro si indebolì, flebile e freddo attraverso le labbra che non avevano più la forza di parlare. “Per fargli capire quanto mi dispiace.”

Romano scosse il capo, si rotolò anche lui di fianco urtandogli la gamba con il suo ginocchio, e tornò a stringergli le mani. Le fronti si sfiorarono. “Tu non devi dimostrare niente a nessuno,” gli pettinò via una ciocca di capelli da davanti gli occhi, gli strofinò il pollice sulla guancia, “tantomeno a lui.”

Italia annuì e lo abbracciò, cercò un altro rifugio in sostituzione di quello che gli era stato strappato via.

Romano gli carezzò la nuca, la sua voce mormorò accanto al suo orecchio. “Ora non puoi più cancellare quello che è successo.” Si strinse a Italia, placò anche lui la sua sofferenza in quell’abbraccio. “Devi solo imparare ad accettarlo.”

Italia rimase senza fiato. Imparare ad accettarlo? Un fremito di paura gli scosse il corpo. Ma io non accetterò mai di essere lontano da Germania, e rinuncerei anche a questa vittoria... Ripensò alle parole che aveva usato Romano, trafitto dal suo stesso senso di frustrazione. Anche a questa vittoria mutilata, pur di riaverlo.

Si rotolò dalla parte opposta, le braccia di Romano attorno ai suoi fianchi, e il suo viso finì sfiorato dalla grigia luce che entrava dalla finestra. Se solo avessi un’altra occasione. Tornò a strizzare le coperte fra le dita. Se solo avessi un’altra occasione sia per me, che per Romano, che per il paese.

Il volo di un passerotto attirò il suo sguardo fuori dalla finestra. Il sole non si vedeva, era nascosto dietro un banco di nuvole fuligginose e fredde: la stessa sensazione di pesante grigiore che Italia sentiva attorno al cuore.  

Chissà cosa starà facendo adesso?

Socchiuse le palpebre, avvolse le braccia sopra quelle di Romano giunte attorno al suo busto. Anche se fra poco firmeranno gli armistizi, il fratellone Francia ha detto che potrà volerci anche un anno prima che tutto si concluda definitivamente. Sospirò a fondo. Chissà se sta avendo paura? Se si starà sentendo solo? Se sentirà la mia mancanza? Chissà se...

Fece scivolare una mano sul petto, sotto il braccio di suo fratello, e si toccò il cuore.

Se anche lui sente di avere un pezzo strappato via come lo sento io?

Chiuse gli occhi, scavò nei suoi ricordi, e si consolò con l’unica immagine che riuscì a trasmettergli un po’ di calore: il viso di Germania voltato di profilo, l’espressione seria e composta, ma i suoi occhi limpidi, un sopracciglio leggermente sollevato in quel piccolo e tenero broncio che inarcava sempre quando Italia gli correva incontro, quando gli saltava sulla schiena, quando lo abbracciava appendendosi alle sue spalle.

Il viso di Germania come avrebbe sempre voluto ricordarlo.

 

♦♦♦

 

20 marzo 1941, Berlino

 

Un raggio di luce passò attraverso la finestra della sala delle riunioni che dava sui tetti di Berlino, il pallido nastro di sole tagliò l’aria polverosa della camera, intiepidendo la fredda atmosfera data dalle pareti di marmo, e scivolò sulla scrivania sulla quale erano poggiati i gomiti di Germania. Il riverbero gli rischiarì il volto celato dalle mani tenute intrecciate davanti alle labbra piatte, brillò all’interno degli occhi socchiusi che riflettevano il cielo primaverile ancora appannato dal freddo dell’inverno appena trascorso. Una tinta di un azzurro cinereo triste e malinconica. Lo sguardo così distante e distratto si perdeva oltre i comignoli delle case da cui si era sciolta la neve, fissava oltre il sottile velo di nuvole che avvolgevano il sole come una coperta di brina fresca. Uno stormo di uccellini svolazzò davanti alle finestre e discese le strade della città, si immerse nei fumi che ancora aleggiavano attorno ai comignoli, si tuffò nello sprazzo di alberi verdi che sbucavano in mezzo al grigio degli edifici e delle strade asfaltate gremite di passanti.

Il vento soffiò, scosse le fronde degli alberi e il sottile velo di fumo che galleggiava sopra i tetti, scricchiolò contro i vetri delle finestre, e fece scivolare un altro cumulo di nuvole davanti al pallido disco del sole. Berlino, quel giorno, era lo specchio dell’animo di Germania, era il riflesso del suo cuore.

Passi pesanti schioccarono attraverso il pavimento della sala riunioni, strapparono Germania dalla sua bolla di pensieri facendogli aggrottare le estremità delle sopracciglia in un’espressione di disappunto. Una voce altrettanto irritante sostituì il rilassante soffio del vento. “Non posso credere che tu lo abbia permesso.” La sagoma di Austria camminò davanti alla scrivania, tenne le braccia conserte al petto, lo sguardo immusonito rivolto al pavimento, la fronte corrugata, e un leggero broncio a tenergli increspate le labbra. Le dita tamburellarono sugli avambracci. La sua voce suonò acida e stizzita. “L’ennesima offensiva fallita.” Arrivò davanti alla finestra e fece dietrofront, tornò a marciare davanti alla scrivania di Germania, picchiettò un’altra volta i polpastrelli, si sfilò un braccio dal petto e spinse due dita sulla montatura degli occhiali, aggiustandoli alla radice del naso. “L’ennesima occasione per ridicolizzare l’intero Regio Esercito e il suo governo davanti a tutta l’Europa, l’ennesima occasione che Italia è riuscito a trovare per abbassare il morale delle truppe e riempire di vergogna l’opinione pubblica nei confronti dell’Asse.” Si girò ancora, marciò davanti alla scrivania e si rivolse di fronte a Germania con i pugni premuti sulle braccia incrociate. Si immerse sotto uno dei raggi di sole che gli coronò il profilo, e la luce scintillò su una lente degli occhiali, accendendo il suo sguardo in una sottile nota di austerità. “Come hai potuto permettere che lo facessero?” esclamò.

Germania socchiuse le palpebre, emise il sospiro sconsolato di chi non ha più voglia di discutere, e si portò due dita a una tempia, massaggiò il rilevo di una vena che si era gonfiata e che iniziava a pulsare attraverso il cranio. “La situazione di Italia non può peggiorare più di tanto rispetto a quella attuale. E io posso intervenire fino a un certo punto nelle sue decisioni.”

Austria emise un piccolo sbuffo che gli arricciò il naso in un’espressione altezzosa, fece di nuovo tamburellare le dita per sciogliere il nervosismo che gli pizzicava i nervi. Il fine grugno principesco di chi non vuole mai avere torto.

Germania si schiarì la voce. “Comunque...” Reclinò le spalle all’indietro, premette la schiena sull’imbottitura della poltroncina, e tornò a intrecciare le mani davanti al volto, un gomito piegato sopra il ginocchio accavallato, e lo sguardo più disteso su cui si specchiava il cielo fuori dalla finestra. “Questo attacco, anche se fallito, è stato più utile del previsto, poiché ci ha permesso di individuare i punti di forza di Grecia. Quindi ora sappiamo dove concentrare maggiormente le truppe durante la prossima offensiva di aprile.”

Ungheria sollevò i piedi dal pavimento, incrociò le gambe sulla poltrona su cui si stava dondolando e si strinse le caviglie. Fece oscillare le ginocchia piegate, un fremito di eccitazione le attraversò il sangue, accese lo sguardo in una scintilla di entusiasmo. “Quindi abbiamo già uno schieramento pronto?” Staccò le mani dalle caviglie fasciate dagli stivali e chiuse i pugni davanti al petto. Le pupille racchiuse negli occhi luccicanti si trasformarono in piccoli cuoricini. “Sappiamo già come andremo a suddividerci? Quando si parte?” Un altro brivido le attraversò il petto, facendo accelerare il battito.

Si udì il fruscio di un foglio che viene scartato, una mano aperta emerse da dietro il divanetto posto accanto alla seconda poltroncina al centro della camera, le puntò il dito contro. “Ferma là.” La mano di Prussia calò, lui piegò il gomito sullo schienale, sollevò la spalla per emergere con il busto, e lanciò una dura occhiata di ammonimento a Ungheria. “Qui bastiamo noi,” precisò, “non è necessario coinvolgere tutti i corpi d’armata solo per un’operazione di recupero nei Balcani. Voi due...” Stese l’indice e lo passò da Ungheria ad Austria, rivolgendo anche a lui la stessa tagliente occhiata d’intransigenza. “Dovete rimanere qua,” spinse il dito a terra, “tenere a bada il confine, e risparmiare le forze in attesa di...” Sollevò le sopracciglia, la luce del sole pomeridiano si riflesse nelle sue iridi facendole apparire ancora più rosse. La sua voce divenne un cavernoso mormorio di aspettativa. “Di avere sul piatto qualche portata più abbondante.”

Ungheria emise uno sbuffo che le tenne le guance imbronciate, tornò a stringersi le caviglie con una mano e con l’altra si pettinò due ciocche di capelli dietro la schiena. “Uffa, e io che avrei almeno voluto darmi una riscaldata ai muscoli.”

Austria camminò vicino a lei, le mise una mano sulla spalla, un tiepido gesto di conforto. “Non avercela a cuore.” Squadrò Prussia tenendo il mento alto, gli rivolse la stessa occhiata appuntita che prima aveva rivolto a Germania. “Semplicemente, Prussia detesta ammettere apertamente di avere bisogno di supporto.”

Prussia fece una smorfia con il naso, come un bambino. Sollevò la mano dallo schienale del divano e imitò con le dita il movimento di un becco che si apre e che si chiude parlando a vuoto.

Una voce seccata sbuffò dall’altra estremità della camera e si intromise nella conversazione. “Di supporto direi Germania che ne sta ricevendo anche troppo.”

Tutti gli rivolsero lo sguardo.

Bulgaria si tolse da davanti una delle finestre che illuminavano la saletta, si appoggiò con le spalle a una delle colonne di marmo, annodò le braccia al petto, accavallò la gamba al ginocchio, e picchiettò ripetutamente la punta del piede a terra. Indirizzò il pollice al petto e digrignò un angolo della bocca in una smorfia scocciata. “Dimentichi chi è che andrà a fare il lavoro sporco assieme a loro giù in Grecia?”

Austria scostò subito gli occhi da lui, nascose la sua espressione irritata. Prussia aprì la bocca, fece per intervenire e protestare, ma un’altra voce accanto a lui parlò per prima.

“Invece che gongolarti, allora...” Romania girò un altro foglio di appunti che teneva fra le gambe incrociate sul divanetto accanto a quelle di Prussia. Fece anche lui sbucare le spalle da dietro lo schienale, dopo essere stato in silenzio, alzò gli occhi dai tre piccoli manuali scarabocchiati che stavano ripassando – trattavano di cannoni semiautomatici e di cannoni anticarro –, e scoccò a Bulgaria un’occhiata di rimprovero. “Potresti anche venire qui e metterti a studiare al posto mio, dato che sei tu quello coinvolto maggiormente e io non dovrei nemmeno mettere piede in Grecia.”

Bulgaria fece spallucce, abbassò le palpebre e il mezzo broncio si ribaltò, disegnando un piccolo ghigno di scherno e soddisfazione. “Naah, e perché?” Tirò su la schiena dalla colonna con una spinta, si allontanò dalla finestra e andò a sedersi sul bracciolo della seconda poltroncina. Piegò le gambe in modo che i piedi poggiassero sull’orlo del divanetto occupato da Prussia e Romania. “Te la cavi così bene,” commentò tornando a spalle distese sul fianco dello schienale imbottito. Stiracchiò la curva della schiena e si massaggiò le vertebre del collo, fino a strofinarsi la nuca. “Tu pensa al sostegno psicologico e io penso all’esercito.”

Romania alzò gli occhi al soffitto e scosse il capo, le mani ancora strette attorno ai fogli di appunti.

Prussia gli aprì una mano attorno alla testa e gli fece chinare di nuovo la faccia verso i manualetti aperti sul divano, in mezzo alle loro gambe. “Io e te stavamo dicendo...” Sfogliò la pagina dove iniziava il paragrafo che illustrava il meccanismo di otturazione e sparo del cannone semiautomatico e svelò l’immagine sezionata del congegno di manovra. Picchiettò l’indice sopra l’appendice segnato con il numero trentotto che si trovava fra il nasello e la leva dell’otturatore. “Il bottone elastico, questo qui, lo innesti solamente quando l’otturatore si rompe e devi chiuderlo a forza, oppure quando il meccanismo a molla del semiautomatico è insufficiente. In questo caso, ti basta tirare la leva fino al completo riarmo della molla, poi completi l’apertura dell’otturatore, e a quel punto...”

Romania mise una mano in avanti e lo bloccò. “Fermo, fermo.” Si grattò dietro l’orecchio, gli occhi smarriti corsero di nuovo fra le righe del manualetto, tornarono sugli appunti scritti a mano. Romania aggrottò la fronte e sfogliò una pagina, nascose l’espressione pregna di confusione. “Mi sono perso. Ripetimi quand’è che potrebbe rompersi.”

Anche Ungheria si sporse con le spalle dalla poltrona per buttare l’occhio sul loro lavoro.

Prussia tornò di una pagina indietro, all’inizio del capitolo, e corse con l’indice verso il terzo paragrafo. “Qui, guarda,” gli disse. “Questo ti può succedere durante l’inserimento di una cartuccia nuova. Normalmente...” Tornò alla pagina di prima e gli indicò di nuovo le appendici numerate attorno al meccanismo. “Il fondello viene urtato dai denti dell’estrattore, ci sei? L’otturatore viene liberato dai ganci, e in questa maniera si richiude per un effetto diretto della molla.”

Romania annuì, sollevò lo sguardo più convinto e incrociò quello di Prussia. “Quindi noi dobbiamo prevenire che la molla salti.”

“Esattamente.”

Bulgaria osservò la scena e non nascose un piccolo sorrisetto. Fece dondolare le spalle avanti e indietro contro il fianco dello schienale della poltrona, incrociò le mani dietro la nuca e rivolse al soffitto lo sguardo disteso in quell’espressione calma e rilassata. “Studia, studia.” Ridacchiò a bassa voce.

A Romania tornò il broncio. Aggrottò le sopracciglia, lo sguardo rabbuiò, e le punte dei canini premettero sugli angoli delle labbra storti verso il basso. Fece scendere una gamba dal divano stando attento a non stropicciare i fogli degli appunti, tese il piede all’indietro, e calciò la caviglia di Bulgaria. Bulgaria soffocò un piccolo gemito, si piegò di scatto a massaggiarsela, e si cancellò il sorriso dalla bocca. Fece schioccare la lingua. Staccò le dita dalla gamba, si sporse, e rifilò un colpo netto sulla nuca di Romania con il fianco della mano. Romania scattò all’indietro e contrasse le dita per artigliargli la faccia.

Prussia agguantò Romania per il bavero e lo tirò verso di sé. “E piantatela di fare i bambini.” Lo fece rimettere seduto.

Bulgaria e Romania si gettarono addosso un’ultima occhiata fulminante che schioccò fra i loro sguardi come una saetta, Bulgaria tornò seduto composto sul bracciolo della poltrona e si strinse le braccia al petto, e Romania gli diede le spalle, tornò sul lavoro.

Ungheria fece roteare lo sguardo e anche lei non riuscì a nascondere un fine sorrisino di scherno. “Senti chi parla.”

Prussia le fece la linguaccia. Ungheria ricambiò mostrando a sua volta la lingua e abbassando una palpebra con l’indice.

Bulgaria si strinse nelle spalle, fece tamburellare le dita sulle braccia conserte e sbuffò. Tornò a spostare lo sguardo verso le finestre. “Ringraziatemi solo per il fatto che io sia qui,” si premette di nuovo un indice al petto, “e che io abbia accettato di mettere a disposizione il mio esercito e la mia capitale come punto di partenza contro la mia volontà.”

Austria assottigliò le palpebre, gli rivolse un fine sguardo di biasimo, sollevò la punta di un sopracciglio che lo avvolse in un’aria di superiorità, e passeggiò di nuovo verso Germania. “Il tuo atteggiamento è stato abbastanza eloquente,” disse, rivolto a Bulgaria. Si aggiustò il bavero della giacca infilandovi due dita sotto. “E io ero stato il primo a non insistere sulla tua adesione al Tripartito.”

Germania spostò lo sguardo dalla finestra, lo rivolse ad Austria, incuriosito, e rimase in silenzio.

Bulgaria sbuffò e ricambiò il disprezzo con cui Austria si era rivolto a lui. “Che c’è, hai paura che vi dia un voltafaccia?” Si sporse con le spalle e si batté la mano sul petto. “Mi credi così stupido da mettermi contro di voi, branco di –”

Romania gli rifilò un altro calcio.

Bulgaria grugnì a labbra strette, si piegò a massaggiarsi di nuovo la caviglia, scambiò con Romania lo stesso sguardo di minaccia che si erano lanciati prima, ed entrambi tornarono a ignorarsi.  

L’attenzione di Bulgaria tornò su Austria, dentro di lui tornò a sentire lo stesso germe di irritazione che aveva provato il giorno della firma, quando aveva schiacciato i pugni tremanti ai fianchi per contenere la voglia di stamparglieli in faccia o nello stomaco. “Sei sottomesso tanto quanto me, principino,” gli fece. “Non darti tutte queste arie solo perché la tua nazione è diventata tutt’uno con quella del Capo.”

Prussia si posò una mano sulla bocca, sgranò gli occhi, e trasse un sospiro. “Ooh.” Fece schioccare le dita e tornò a fronte bassa. “Snap!”

Ungheria scattò verso Bulgaria. “Ehi!” Un forte senso di protezione le bruciò nel petto, le arrossò le guance, e fece sbocciare dentro di lei il desiderio di buttarsi davanti ad Austria e proteggerlo da Bulgaria scaraventandogli un pugno sullo stomaco.

Il viso di Austria rimase serio e composto. “Se non altro, ho accettato il mio destino con dignità.” Abbassò la voce, nei suoi occhi comparve un’irritante ombra di sfida. “Dopotutto, non sono stato io a piangere davanti al trattato d’adesione.”

Bulgaria sbiancò. Sentì il sangue ghiacciare e lo stomaco precipitare ai suoi piedi. Restò a labbra socchiuse, la lingua congelata, e l’espressione paralizzata in quella sconcertata maschera di vergogna che gli fece diventare la faccia grigia.

Prussia tirò su lo sguardo dal manualetto aperto fra lui e Romania, sollevò un sopracciglio e spernacchiò una risata. “Hai pianto il giorno della firma al trattato?”

Anche Germania sentì una fitta di stupore stringergli il petto.

Bulgaria sudò freddo, gettò il viso in disparte, gli occhi vagarono da una parte all’altra, e si allentò il bavero della giacca. “I-io...” Si morse il labbro per non far tremare la voce.

Anche Romania si voltò a guardarlo. “Hai pianto?” Una sbavatura di preoccupazione gli incrinò l’espressione concentrata.

“Cosa?” Ungheria flesse una spalla per riuscire a trovargli lo sguardo e una ciocca di capelli tornò a scivolarle davanti alla guancia. “Hai pianto davvero?”

Bulgaria saltò giù dal bracciolo della poltrona e schiacciò i pugni ai fianchi, gli occhi si incendiarono. “Sono affari miei!”

“Datevi una calmata.” Il mormorio basso e ruvido di Germania zittì tutti.

Ungheria tornò a spalle dritte, si lanciò la ciocca di capelli dietro la schiena, ma tenne lo sguardo inquisitorio rivolto alla schiena di Bulgaria, abbassò la guardia che prima aveva rizzato per difendere Austria.

Romania fece un saltello all’indietro restando seduto, si avvicinò a lui, e mollò il foglio di un appunto per posare il fianco della mano accanto alla guancia e coprire il movimento delle labbra. “Non mi avevi detto di avere pianto.”

Bulgaria sobbalzò un’altra volta, le guance tornarono rosse e brucianti. “N-non ho pianto, ho solo...” Gettò il braccio verso Austria. “E poi è lui il bastardo che ha fatto la spia, io...” Si guardò attorno. Aveva tutti gli occhi dei presenti addosso, tranne quelli di Germania, che lo fissavano con una cauta vena di compassione. “Io...” Sguardi che sentiva premere sulle ossa come umilianti sassate gettate dal ciglio della strada. Bulgaria emise uno sbuffo secco e acido, gli tornò l’amaro in bocca, e sventolò un gesto con le mani come per cancellare quelle facce dalla sua vista. “Sapete che vi dico?” esclamò. “Al diavolo! Non devo di certo giustificarmi con voi solo perché sono l’unico qua dentro ad avere ancora a cuore la mia nazione.”

Ungheria aggrottò la fronte, e la compassione si sciolse dai suoi occhi lasciando due duri riflessi da offesa. “Perché? Credi che noi non siamo qui per i nostri paesi?” Si indicò il petto. “Pensi davvero che non sappiamo quello che stiamo facendo?”

Bulgaria si mise a braccia conserte e sollevò il mento, imitò un pomposo sguardo di Austria. “Sono dell’opinione che non sappiate il perché lo state facendo.”

Ungheria schiacciò i pugni, balzò giù dalla poltrona, le suole degli stivali schioccarono sul marmo, e arrivò con il viso contratto di rabbia a una piuma da quello di Bulgaria. “Ma chi ti credi di essere?” Affilò le punte dei canini come quelli di Romania.

Bulgaria arricciò la punta del naso, tenne il mento sollevato e il petto all’infuori, si spinse sulle punte dei piedi per apparire più alto di lei e fronteggiarla a muso duro. Sia Romania che Prussia avevano già appoggiato un piede giù dal divano per alzarsi e mettersi fra i due, ma Austria ci pensò prima di loro. Si avvicinò a Ungheria e tornò a posarle la mano sulla spalla, fronteggiando Bulgaria con occhi severi.

“Ognuno di noi ha saputo trovare motivi diversi per aderire all’alleanza e accettare di prendere parte al conflitto,” disse.

Ungheria rilassò la tensione dei muscoli contratti, sciolse le dita schiacciate contro il palmo, e ammansì l’espressione inferocita.  

Austria le tolse la mano dalla spalla, posò due dita sulla montatura degli occhiali, e rivolse un saccente sguardo generale a tutta la camera. “Suppongo sia inutile perdere tempo a discutere di questo, e credo sia meglio per tutti noi accettare semplicemente il fatto che da adesso in poi sarà la guerra stessa a decidere del nostro destino.”

Una ruga di stizza rimase a scavare il viso di Bulgaria, calò un’ombra attorno ai suoi occhi ristretti che li fece apparire più affilati. “Un destino di cui io non avrei nemmeno dovuto prendere parte.” Si girò, le braccia di nuovo strette al petto, e avanzò di due passetti lontano da loro. “Se questa fosse rimasta solo una guerra di riscatto, sarebbe nata e conclusa a settembre del Trentanove.” Tamburellò solo due dita e sollevò un sopracciglio. Nascose nell’ombra un finissimo sorrisetto di sfida. “O sbaglio, Germania?”

Germania socchiuse le palpebre, gli occhi azzurri come scaglie di ghiaccio si tornarono a spostare fuori dalla finestra, le guance si dipinsero del chiaro riflesso del sole celato dal velo di nuvole. Il riflesso di una opaca e placida giornata di inizio primavera, quando le nuvole si raccolgono prima di scaricare gli ultimi acquazzoni sulle campagne. Annuì. “In parte è vero.”

Tutti lo fissarono. Il sorrisetto di sfida di Bulgaria si trasformò in un ghigno di soddisfazione.

Germania sospirò. “È vero, questa guerra è nata come un’occasione, come un riscatto per riprenderci quello che ci era stato sottratto.” Si alzò in piedi senza distogliere il viso dalla luce, camminò attorno alla scrivania e andò davanti alla finestra, le braccia giunte dietro la schiena e le spalle larghe, lo sguardo alto. Un raggio di sole gli contornò il profilo di metà volto, infossò le ombre attorno alla palpebra, allo zigomo, luccicò nell’iride dell’occhio donandogli un portamento nobile. “Ed è vero che adesso sta diventando qualcos’altro.”

Bulgaria rivolse i palmi al soffitto. “E come dovrebbe essere chiamata, allora, se non è più una guerra di riscatto?”

Prussia fece spallucce. “Non è necessario che abbia un nome.” Diede una lieve spinta con le gambe sul divanetto, in modo da stravaccarsi con la schiena sul bracciolo. Accavallò le gambe – Romania abbassò la testa per non prendersi una pedata in faccia – e intrecciò le mani dietro la nuca. Lo sguardo alto al soffitto divenne più cupo e distante. “Per quanto mi riguarda, la guerra rimane una guerra, non importa per chi o per cosa si combatta, in nome di quale causa o di quale vendetta o di quale giustizia.” I suoi occhi riflessero il rosso di tutto il sangue che aveva calpestato e di cui si era bagnato nel corso della sua vita. Quella sfumatura gli fece sembrare lo sguardo più freddo, più feroce, e anche più vecchio. “La guerra rimane tale in ogni sua forma.”

Un soffio di gelo scivolò attraverso la camera, anche se porte e finestre erano chiuse. Una nuvola più spessa si condensò davanti al sole e fece calare un’ombra più buia all’interno delle pareti che avvolse tutti in un mantello di freddo. Fu come essere baciati da labbra di ghiaccio.

Ungheria abbassò la fronte, si girò di profilo e si strofinò il braccio fino alla spalla. Austria si voltò a sua volta, quasi stesse distogliendo la vista dagli stessi sgradevoli ricordi di Prussia. Bulgaria rabbrividì, gli cadde il broncio da sbruffone, e si girò in cerca di Romania. Romania abbassò di colpo il viso sugli appunti fra le gambe incrociate e la frangia sfoltita si spettinò davanti agli occhi, nascondendoli.

Germania annuì. “Questo è vero.” Alzò gli occhi verso uno dei raggi di sole che era sbucato fuori dalla nuvola, e posò delicatamente le punte delle dita sulla finestra. “Ma il motivo per il quale la si affronta può renderla diversa agli occhi di chi combatte.”

Prussia sospirò e si strinse nelle spalle, una smorfia poco convinta a tenergli mezzo labbro arricciato.

Bulgaria alzò la mano. “Io combatto per sopravvivere.” Camminò verso il divanetto, chiuse il pugno, e poggiò le nocche sulla testa di Romania, dando soffici colpetti fra i suoi capelli. “E anche il signore qui presente fa altrettanto, è inutile che si dia tutte queste arie da bravo alleato.”

Romania sbuffò e piegò la testa di lato, sottraendosi alla leggera martellata, e gli cacciò via la mano con un colpo di braccio.

“Se la mettiamo in questo modo,” intervenne Ungheria, e la sua voce fu come un sassolino gettato in mezzo ai due, “allora anche io...” Guadagnò un breve respiro, strinse la mano ancora aggrappata al braccio, e dentro di lei sentì fiorire un sentimento che credeva aver sepolto in fondo al cuore da anni. Sospirò, socchiuse le palpebre, e il suo sguardo rivolto al pavimento divenne più grigio, quasi colpevole. “Anche io credo di aver iniziato a comprendere di più questa guerra, ora che ne faccio di nuovo parte come l’ultima volta.”

Austria le rivolse un’occhiata preoccupata, un caldo sentimento di inquietudine gli strinse il petto, riaprì vecchie ferite; Prussia sollevò un sopracciglio, più incuriosito ma un po’ scosso anche lui; e anche Germania si fece più attento, gli occhi si restrinsero.

Ungheria si spostò attraverso la camera, passò attraverso la luce proveniente da una delle finestre. “All’inizio anche io ero spaventata da questa guerra, perché...” Guardò fuori dal vetro, il suo riflesso specchiato nel lucido le rivolse uno sguardo malinconico, gli occhi si velarono di un dolore propagato dal petto. Vedersi specchiata fu come affacciarsi a una finestra che dava sulla sua stessa nazione. “Perché il ricordo dell’altra è ancora fin troppo vivo dentro di me.”

Austria si strinse nelle spalle, le mani si chiusero sugli avambracci incrociati in uno spontaneo gesto di protezione. Quel sentimento nato da Ungheria lo avvolse come un’ombra, gli scivolò sotto i vestiti, pizzicò freddi brividi di malessere attraverso la pelle. Le sue sottili labbra vibrarono leggermente, contennero il piccolo fremito che gli era corso attraverso le vene nel momento in cui si era rivisto a terra, umiliato e sconfitto, a giacere con la sensazione di essere appena stato spezzato in due.

Lo sguardo di Ungheria riacquistò vigore, i pugni strinsero irrigidendo i muscoli delle braccia, l’espressione sul suo viso riflesse lo stesso dolore che aveva appena morsicato il cuore di Austria. “Però è proprio perché quel ricordo è ancora così vivo che mi sta facendo rivalutare tutto quello in cui pensavo quando la guerra è ricominciata.” Scosse il capo, si allontanò dalla finestra, la sua ombra scivolò attraverso la parete. “Non si tratta di restrizioni territoriali, o di confini, o di debiti nei confronti degli Alleati. E, per quanto mi riguarda, non si tratta nemmeno di onore.”

Prussia abbassò gli occhi dal soffitto, sentì il familiare bruciore attraverso il sangue che gli fece sgranchire le mani ancora intrecciate dietro la nuca, ed emise un piccolo sbuffo imbronciato. “Parla per te,” mormorò.

Austria gli rifilò una fulminea occhiataccia di rimprovero che nessuno vide.

“Non si tratta di questo,” ripeté Ungheria. Si posò la mano sul petto. “Si tratta di tutti i legami che ci avevano uniti, che avevano connesso non solo i nostri paesi ma anche le nostre anime. Quegli stessi legami che hanno voluto spezzare e che ora stiamo cercando di ricongiungere.” Il cuore si gonfiò di un calore bruciante, lo stesso che provava quando si trovava con i piedi in mezzo al campo di battaglia. “Non voglio più che questi legami con coloro che amo mi siano portati via. E se l’unico modo per impedirlo è combattere...” Si rivide fasciata dall’uniforme, fucile allacciato al fianco, pistola alla mano, stivali premuti sul suolo di guerra, e il cuore fece una capriola di eccitazione. “Allora combatterò.”

Bulgaria emise una soffice risatina di scherno, strinse le braccia al petto e inclinò la spalla per guardare Ungheria di sbieco. “E credi che sia questo che riunirà quei legami? Una guerra?” Spalancò una mano verso la finestra, il suo sorrisetto cadde, lasciò un’espressione dura e fredda. “Una cosa nata per distruggere?”

Ungheria fece per ribattere, ma la voce di Prussia parlò prima di lei, come a difenderla.

“Con te eppure ha funzionato.” Fece dondolare il piede accavallato, affilò un mezzo ghigno di complicità, sollevò la punta di un sopracciglio in un leggero ammiccamento. “O no?”  

Bulgaria sentì nascere uno scuro e fastidioso sentimento di ostilità che gli incupì il volto. Girò la guancia tenendo il mento alto e guardò Prussia di traverso. “Cosa vuoi dire?”

Prussia piegò un sorriso astuto. Invertì la posizione delle gambe accavallate sul divanetto, fece di nuovo dondolare il piede. “Se sei qui, è proprio a causa del tuo legame con Romania.” Romania sussultò, gonfiò una smorfia per nascondere il lieve rossore delle guance. Prussia lo indicò. “Se Romania è qua, è a causa del legame che gli abbiamo promesso di ricongiungere con Moldavia. Se Finlandia ha accettato di tornare dalla nostra parte, è a causa del legame che mantiene con gli altri quattro.” Spostò l’indice su Germania. “Se West stesso ha deciso di tornare in guerra, è anche a causa del legame che sperava di riallacciare con...” Ungheria gli piantò una gomitata sulla spalla che gli fece ingoiare le parole in fondo allo stomaco. Prussia si massaggiò la scapola, le lanciò un’occhiata sbilenca che diceva: ‘Che ho fatto?’. Ungheria tenne il pugno stretto, rigirò il polso in segno di minaccia. Lo aprì e lo strizzò mettendo in risalto le vene che pulsavano fra le nocche. Indicò Germania con un movimento degli occhi e tornò a premere lo sguardo su Prussia. Prussia roteò gli occhi al cielo e sventolò una mano, sviò l’argomento. “Be’, ci siamo capiti, no?”

Bulgaria e Romania si guardarono senza capire che cosa fosse appena successo.

Germania superò un primo momento di rigidità, e ignorò anche lui quello che aveva detto Prussia. “La guerra ha una doppia faccia,” rivelò, “come tutte le cose.” Sfilò una mano da dietro la schiena e si guardò il palmo aperto, restrinse lievemente le dita, contrasse le falangi, sottili vene ramificarono sul rilievo dei muscoli. “Crea e distrugge allo stesso tempo.”

Prussia spinse le spalle all’indietro, reclinando la schiena oltre il bracciolo del divanetto. Punzecchiò il fianco di Ungheria con due dita e si posò la mano sulla guancia per nascondere la bocca, e le mostrò un ghigno affilato. “Anche io sono ‘coloro che amo’,” chiese, riferendosi a quello che lei aveva detto prima.

Ungheria si tolse di dosso le dita di Prussia e si lisciò la giacca senza nascondere un magro sorriso di compassione. “Tu ti ami già abbastanza da solo, non hai bisogno dell’amore degli altri.”

“Ah! Ben detto.”    

“Non credete di potervi adagiare sugli allori solo perché il dominio dell’Asse si sta espandendo,” intervenne Austria. Nei suoi occhi ricomparve un’ombra di tensione. “Con Bulgaria e con Romania potrebbe anche essere andata nella maniera in cui sperava Germania, ma gli ostacoli non sono ancora stati tutti debitamente abbattuti.” Scoccò una delle sue occhiate petulanti, un raggio di luce attraversò le lenti e morì in un abbaglio. “O sbaglio?”

Prussia annuì al posto di Germania, posò i piedi a terra e si spinse giù dal divanetto. “Ed è per questo...” Si spolverò la giacca, raddrizzò le spalle e si cinse i fianchi con le mani. “Che ci affideremo alla tua diplomazia, quando gli jugoslavi verranno a firmare l’alleanza a Vienna.”

“E cosa ti fa credere che accetteranno questa alleanza così a mano bassa?” ribatté Austria.

Prussia alzò gli occhi al soffitto, fece finta di pensarci su, lo sguardo serio e concentrato, e si posò la punta dell’indice sul labbro. “Uhm.” Si strinse nelle spalle e volse i palmi al cielo. “Paura?” sogghignò.

Ungheria annuì a sua volta. “Paura,” ammise con amarezza.

Romania posò gli appunti e sospirò. “Paura.” Raccolse uno dei manuali e tornò a studiarlo.

“Paura,” confermò Bulgaria. Si spinse entrambi i pollici sul petto. “Anche io ero ostile come loro,” fece mulinare l’indice sulle quattro pareti della camera, lo sguardo annoiato e la voce sbiascicata, “e alla fine mi ritrovo comunque in questa bella compagnia.”

Romania gli lanciò un’occhiata storta da sopra la spalla, snudò la punta di un canino. “E grazie tante, eh.”

Bulgaria lo ignorò e tornò a rivolgersi a Germania e a Prussia. “Scusate, ma se si tratta solo di piegare gli jugoslavi ai vostri piedi...” Aprì le braccia e sciolse una soffice risatina che sdrammatizzò l’aria cupa che aveva impregnato la stanza. “Buttategli un ultimatum come avete fatto con me, no?”

Germania inspirò. “L’ultimatum è già scattato,” confermò con tono freddo e pacato. Guardò di nuovo fuori dalla finestra, gli occhi rivolti oltre le nubi. “Ho dato alla Jugoslavia cinque giorni.”

Quelle parole si infransero in mezzo alla camera come un fulmine che schiocca attraverso l’aria e che si schianta sul pavimento, fra i piedi di tutti, facendoli sobbalzare. Romania rimase paralizzato, le mani irrigidirono e il manualetto si sfilò dalle sue dita, cadde in mezzo alle gambe e perse il foglietto segnalibro. Bulgaria si strozzò con un singhiozzo, strabuzzò gli occhi in un’espressione di chi non crede alle sue stesse parole. Anche Austria sgranò lo sguardo, le guance impallidirono, un lampo di paura gli attraversò gli occhi che volarono verso Prussia, come in cerca di un’ulteriore spiegazione. Prussia si limitò a scostare lo sguardo. Lui sapeva già tutto.

Ungheria rimase a bocca aperta, il viso bianco e sconcertato come quello di Austria. “Vuoi dire...” Un barlume di apprensione e di paura tornò ad attraversarle gli occhi che prima avevano bruciato di coraggio e determinazione. Ora in volto tornò fredda e diffidente, si disfò dell’uniforme da guerriera. “Che ci sarà un’invasione?”

Germania scosse la testa. “Non affrettiamo conclusioni azzardate.” Compì un paio di passi davanti alla finestra, raggiungendone un’altra. “Non sarebbe la prima volta in cui questa guerra ci porta davanti a cambiamenti inaspettati.”

“E dopo l’ultimatum?” domandò ancora Ungheria. “Se non dovesse funzionare nemmeno quello?”

Bulgaria unì le dita di una mano e le separò di colpo, mimando uno scoppio. “Puf!” esclamò. “Varsavia Numero Due.”

Ungheria sussultò. “Cosa?” Gli lanciò uno sguardo inorridito, avvertendo un tuffo allo stomaco. “No! Non possono...”

“No cosa?” sbottò lui. Tornò a fronteggiarla, incrociò le braccia, corrugò la fronte, perdendo ogni traccia di esitazione. “L’unico motivo per il quale ho accettato di prendere parte a questa farsa è per non far diventare Sofia la Varsavia Numero Due. Sarebbe disonesto da parte di Germania non andare fino in fondo alle minacce.”

“Oh,” esclamò Ungheria, “ti scoccerebbe che una nazione non venisse distrutta per principio?”

“Effettivamente sì,” confermò lui. “Significherebbe che anche io avrei potuto rifiutare, tanto non mi sarebbe successo nulla.”

Le braccia di Ungheria incollate ai fianchi tremarono, un freddo sentimento di sdegno si mescolò alla collera che le aveva infiammato il sangue. Tornò la voglia di rompergli il naso. “Come puoi dire una cosa...”

“State a cuccia,” intervenne Prussia. Strinse fra due dita la manica di Ungheria e la fece arretrare di un paio di passetti, togliendola dall’ombra di Bulgaria. “Come ha già detto West, non fasciamoci la testa prima di rompercela, non è ancora successo niente, e Belgrado ha ancora cinque giorni di tempo per decidere se diventare o meno Varsavia Numero Due.”

Ungheria sfilò la manica dal tocco di Prussia e gli trattenne il polso. Lo tirò in basso, avvicinò la fronte alla sua, lo guardò dritto negli occhi, e abbassò la voce senza perdere il leggero tono di minaccia che la inaspriva. “Mi stai dicendo che anche tu sosterresti una cosa del genere?”

Lui la guardò con la stessa severità, il rosso degli occhi specchiò quella innata sete di sangue che gli pulsava nel corpo assieme al cuore. “Ovviamente.”

“Ma perché tutte queste preoccupazioni solo per la Jugoslavia?” domandò Bulgaria, rivolto a Germania. “Non dovrebbe...” Si grattò la nuca e i suoi occhi tornarono alla parete, farfugliò con voce masticata. “Voglio dire, ormai io sono dalla vostra parte, no? Il corridoio di entrata in Grecia è aperto.”

“Ma la Jugoslavia potrebbe comunque crearne uno d’uscita in Albania che permetterebbe ai greci di ripiegare,” rispose Germania. Si girò verso i presenti, squadrò con più attenzione Bulgaria e Romania, catturando i loro sguardi. “Il nostro scopo sarà questo: sfondare in tre punti strategici distribuiti sulla Linea Metaxas, assalire i forti, distruggere la loro difesa, e seguire direttrici diverse che ci condurranno fino a Salonicco.” Rivolse gli occhi verso la luce della finestra che gli investì il viso, come per guardare oltre i tetti, oltre i comignoli, oltre le nuvole e oltre i confini della sua nazione. “Salonicco si trova all’est, e i greci potrebbero sempre ritirarsi seguendo una direttiva all’ovest, dato che parte dell’Albania è già in mano loro.”

Bulgaria fece schioccare la lingua fra i denti. “Bah,” sventolò le mani verso Germania con fare annoiato, “per me riusciresti a bloccarli lo stesso, e questo comunque non giustifica in tutto e per tutto il coinvolgimento della Jugoslavia nelle Potenze dell’Asse.”

Germania prese un breve respiro, socchiuse le palpebre senza allontanarsi dal riverbero del sole che si specchiò fra le sue iridi. “Dimentichi...” Una brezza elettrica attraversò l’atmosfera della stanza, la fece vibrare come una corda di violino, e quella fitta aria statica si caricò di un’energia calda e viva che fremeva a contatto con la pelle. Germania rivolse lo sguardo a Bulgaria, e i suoi occhi splendettero di una luce diversa, grigia e accecante come il riflesso che scivola su una lama affilata. “Che è un territorio che riversa sull’Est.”

Bulgaria ammutolì, finì per morsicarsi il labbro e ingoiare il suo stesso respiro. Romania allontanò lo sguardo, gli cadde su Prussia. Prussia irrigidì, socchiuse le palpebre rispecchiando l’espressione dipinta sul volto di Germania, e il raggio di sole che lo colpiva di striscio brillò sulla sua croce di ferro, formò sottili ombre sulla curva del suo volto che gli indurirono i lineamenti. Ungheria e Austria si scambiarono uno sguardo basso e scostante, Ungheria si dovette pizzicare il labbro fra i denti e stringere un orlo della giacca fra le dita per trattenersi dall’intervenire. Capirono tutti.

Romania si strofinò la nuca, sospirò, spostò lo sguardo inquisitorio su Germania, rivolgendogli una delle occhiate che gli aveva lanciato anche durante la riunione per la Direttiva 21. “E se non accettassero?” domandò. “Sarà davvero...” Strinse inconsciamente le dita attorno al piccolo manuale che teneva aperto fra le gambe incrociate, un brivido di paura gli scosse la voce. “Sarà davvero come con Polonia?”

Quel nome raffreddò ulteriormente l’aria della camera. Fra di loro soffiò il freddo e polveroso vento di Varsavia che odorava di cenere e sangue, la stanza si oscurò come il cielo della capitale distrutta, il brusio delle strade di Berlino si ingrossò come il borbottio di un’esplosione che si trasforma in un incendio ruggente. Una viscida sensazione di disagio si incollò alla loro pelle, Ungheria dovette di nuovo strofinarsi entrambe le braccia per scrollarsela di dosso.

Germania rimase impassibile e freddo come un blocco di ghiaccio, ma i suoi pugni stretti dietro la schiena scricchiolarono. “Cinque giorni.” Diede le spalle a tutti, tornò a camminare verso la finestra che dava sulla scrivania. “La Jugoslavia ha a disposizione cinque giorni per decidere quale dovrà essere il destino dell’intera Europa. E io ho intenzione di riporre fiducia nella loro collaborazione.”

Di nuovo il silenzio si impadronì della camera: un silenzio così appiccicoso e freddo che faceva venire voglia di raschiarselo via a unghiate dalla pelle.

Romania si sporse con le spalle in avanti, rimanendo seduto sul divanetto, e strinse una manica di Bulgaria fra due dita, diede un piccolo strattone. “Ehi,” mormorò. Aspettò che Bulgaria si voltasse a guardarlo e indicò Germania con un gesto del mento che nessun altro vide. “Tu che ne dici?”

Bulgaria sbuffò, fece un passettino all’indietro e si lasciò cadere sul divano dietro la schiena di Romania, l’imbottitura sobbalzò. “Io dico che persino Germania la sta vedendo più grossa di quello che è.” Accavallò le gambe, intrecciò le mani dietro la testa e si buttò con le spalle all’indietro.

Romania si girò a guardarlo da sopra la spalla. “Perché?”

Bulgaria arricciò un angolo delle labbra. “Perché è della Jugoslavia che stiamo parlando.” Rivolse un palmo al soffitto. “Come potrebbe mai influenzare una guerra che secondo Germania porterà cambiamenti al limite dell’immaginabile?”

Romania si strinse nelle spalle e si strofinò i capelli dietro l’orecchio. “Be’, ogni grande catastrofe comincia con un piccolo cambiamento, suppongo.” Tornò agli appunti e ai manuali dei cannoni, sfogliò un paio di pagine e si soffermò sulla sezione di una granata da munizione suddivisa in quattro disegni diversi che svelavano le sue interiora. Le dita di Romania percorsero la forma a missile della granata, indugiarono sulla punta che sembrava scottasse sotto il suo tatto, come fosse già esplosa. “Non è stato così anche per l’ultima volta?”

Quella statica quiete elettrica si caricò proprio come prima dello schianto di un fulmine. Una saetta che presto avrebbe trafitto l’intera Europa.

 

♦♦♦

 

26 marzo 1941,

Belgrado, Jugoslavia

 

Una rovente aria elettrica stagnava nella notte di Belgrado, tanto densa e penetrante da far rizzare i peli dietro la nuca. Una trapunta di stelle gremiva il cielo limpido come una distesa di inchiostro. Le luci che brillavano attraverso le finestre delle abitazioni e quelle delle fiaccole a olio che danzavano in mezzo alla folla radunata davanti al municipio creavano un riverbero rossiccio che avvolgeva la città come l’alone di un incendio, caldo e vibrante come una trasparente cupola di fuoco. Una brezza passò sopra la massa di persone schiacciate nella piazza, un vento pregno di energia statica che prudeva a contatto con la pelle scaricando scie di brividi attraverso le ossa, un’aria fresca che frizzava di libertà e di cambiamenti. Trasportava un odore nuovo in grado di spazzare via tutta la nebbiolina nera di malcontento che aleggiava sopra i tetti di Belgrado. Il vento agitò le bandiere che pendevano dai cornicioni delle finestre e delle terrazze – bandiere jugoslave, inglesi e francesi: un trionfo blu, bianco e rosso – spiraleggiò in mezzo alla folla e soffiò anche contro la facciata del municipio dove erano affisse altre schiere di bandiere. Gli ufficiali in uniforme azzurra, da aeronautica, squadrarono la folla di persone dal palchetto, si strinsero attorno ai due generali a cui facevano da scorta, e i loro volti brillarono sotto le luci della città illuminata a giorno. Il silenzio regnava sovrano.

Un altro alito di vento ululò dai comignoli, e il suo fischio si udì attraverso gli altoparlanti affissi sulla cima dell’edificio, suonò come l’eco delle parole di uno dei generali che avevano zittito tutta la piazza e che erano entrate nei cuori dei cittadini, gonfiandoli di speranza, di coraggio e di voglia di combattere. La voglia di alzarsi in piedi e di far gridare le voci della loro ribellione fino in Germania, fino a non avere più aria nei polmoni, fino ad avere la gola in fiamme come i loro animi.

Il primo generale tornò a stringere l’asta del microfono con una mano, sollevò l’altro braccio e lo chiuse a pugno, il suo sguardo duro e combattivo spianò l’intera piazza radunata sotto di lui, davanti all’ombra del municipio. “Ed è per questo che non saremo noi ad accettare questa alleanza,” la sua voce tremò attraverso gli altoparlanti e rimbombò sulla folla, “non saremo noi a piegarci ai tedeschi, non sarà il popolo jugoslavo a sottomettersi a una dittatura!”

Un urlo di consenso si elevò dalla piazza, le persone saltarono, altre sventolarono le bandiere che tenevano fra le mani, qualcun altro ancora fischiò, grida di uomini e di donne si propagarono mescolandosi al forte brusio che faceva tremare il suolo. L’aria si caricò di entusiasmo, di un’energia scoppiettante che bruciò attraverso il vento ancora più forte e pregno di quell’elettricità statica che già si era impossessata di Belgrado.

Il generale torno ad avvicinare le labbra al microfono. “Ieri...” Aspettò che le grida e che gli esulti si fermassero – qualcuno fischiò ancora, seguito da un altro – e proseguì il discorso seguendo l’accenno del secondo generale accanto a lui. “Ieri abbiamo ceduto,” affermò, puntando l’indice al cielo. “Ieri è stata siglata un’alleanza, un’adesione al Patto Tripartito e un’unione alle Potenze dell’Asse.”

I fischi aumentarono, ululati di disapprovazione e scontento si elevarono in una protesta che trascinò tutte le voci della piazza. Una donna gridò e qualcuno le applaudì dietro.

Il generale contenne un sorriso di soddisfazione, e strinse di nuovo il pugno, lo scosse sopra la spalla. “Ma se siamo qui è proprio perché non permetteremo né ai tedeschi né a coloro che ci hanno consegnato nelle loro mani di sottrarci la nostra libertà!”

La folla esplose in un urlo di esaltazione, le bandiere sventolarono più velocemente, le persone si strinsero, alcuni portarono i bambini sopra le teste e fecero gioire anche loro – le manine alte al cielo e i visi sorridenti illuminati dal riverbero che avvolgeva la piazza.

Il generale sentì il cuore gonfiarsi di tutto il calore trasmesso dal popolo, di tutta l’energia vibrante spanta dalle loro voci innalzate al cielo. Inspirò a lungo, riempiendosi di quell’aria fresca e nuova che soffiava su Belgrado scossa dalla rivolta, e tornò a indirizzare la sua voce tuonante al microfono. “I tedeschi stanno già soggiogando l’Europa,” gridò, “si stanno impadronendo di noi popoli slavi, ma a noi non toccherà la stessa sorte, perché questo è il valore del popolo, questa è la proclamazione del popolo. Meglio la guerra che il patto, meglio la tomba che la schiavitù!”

Altre urla, altri fischi lunghi e acuti, altri tremori del suolo e delle pareti degli edifici. Anche le persone rimaste affacciate alle finestre esultarono di gioia.

“Questo nuovo governo...” Ancora una volta, il generale aspettò che le voci si calmassero. Si schiarì la gola e tornò a parlare con tono più fermo e ruvido, pesante come un pugno di ferro. “Questo nuovo governo libero dal giogo della paura, avrà l’audacia di ribellarsi all’Asse.” Spostò lo sguardo in ogni angolo della folla, il suo indice bacchettò l’aria. “Sopprimeremo quel governo filo-italiano che voleva di nuovo condannarci alla rovina, e ci ribelleremo a quelle nazioni che hanno preso il controllo su di noi dopo la Grande Guerra. Belgrado si taglierà fuori dal paese, se necessario, e la forza del nostro popolo dimostrerà ai tedeschi che non avranno mai i nostri cuori, i nostri figli,” rafforzò il tono, la sua voce divenne un eco dell’anima, “il nostro sangue!”

E quell’eco si spanse attraverso le voci di tutta la gente radunata sotto le luci della città. Le grida si mescolarono, si elevarono come una ruggente e viva fiammata, fecero tremare l’intera città fino a toccare le stelle. Belgrado stessa urlava ed esultava, il terreno si scuoteva sotto i salti dei suoi abitanti, pulsava come un cuore che batte di vita, le strade stesse respiravano ed esalavano il loro fiato vibrante attraverso le voci delle persone che trionfavano fra i vicoli e affacciandosi ai balconi illuminati e gremiti di bandiere. 

Anche il secondo generale si portò davanti al microfono, strinse il pugno, e la sua voce tuonante si propagò dagli altoparlanti. “Viva la Jugoslavia!” Gettò il braccio sopra la testa. “Che Belgrado insorga sull’Europa!”

La folla esultò di nuovo. Qualcuno si mise le mani a coppa attorno alla bocca e la sua voce si udì sopra di tutte. “Viva la Jugoslavia!” E altri cori fecero da eco. “Viva Belgrado!”

In lontananza, squilli di trombe intonarono le prime note di melodie patriottiche, un coro di voci compose un canto che abbracciò l’intera città come un mantello, le persone cominciarono a spostarsi attraverso le vie, a riempire ogni angolo fra case ed edifici. Le bandiere continuavano a sventolare, a schiudersi come ali sopra le teste degli jugoslavi che si tenevano abbracciati, che correvano sorreggendo fiaccole e lanterne, che animavano le strade e le piazze addobbate a festa.

In quella lunga e ribelle notte di Belgrado, ebbe inizio il colpo di stato.

   
 
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