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Autore: hibou    22/05/2017    1 recensioni
La verità era che Poppo detestava l'inverno: non era questione di temperature, era uno spirito libero e versatile, si adattava a qualsiasi situazione e clima senza problemi; era invece una repulsione viscerale, un sentimento radicato in profondità e a cui non riusciva porre controllo. Proprio come non riusciva a tagliare il cordone ombelicale con la piccola capanna nel bosco. Semplicemente, arrivata la stagione doveva andarsene. Una specie di tiro alla fine che durava da anni.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Tetsudō Hisakawa/Poppo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Bianco









Tra lo sciabordio delle onde e il garrito dei gabbiani si intromise un rumore sospetto di cui non conosceva l'origine. Insistente e ritmato, sembrava farsi più nitido e ampio man mano che passava il tempo, mentre il bellissimo panorama dell'oceano indiano con la sua sabbia fine lentamente perdeva di consistenza, sgretolandosi e rabbuiandosi alla stessa velocità con cui il "beep" insistente gli perforava i timpani.
Scostò le coperte di soprassalto, interrompendo l'affannarsi della sveglia con un colpo poco gentile. Mugugnò una frase sconnessa desiderando ardentemente rinfilarsi sotto le coperte e riprendere il sogno da dove era stato interrotto, ma il lavoro incombente che aveva accettato da diversi mesi reclamava le sue energie anche quella mattina. Si stropicciò gli occhi e distese le braccia, rabbrividendo nel percepire i freddi spifferi volteggiare per la spoglia stanza. Erano giornate particolarmente gelide per quella stagione: l'inverno era alle porte e gli alberi avevano già abbandonato il loro copioso manto, elevando gli ossuti rami al cielo invocando un sole che, ultimamente, se ne restava coperto e timido dietro una folta coltre di nubi. Fortunatamente era riuscito a raccattare una vecchia stufetta elettrica da qualche vecchio collega che gli doveva un favore, sicché il pericolo del freddo era stato momentaneamente sventato. Momentaneamente, pensò Poppo avvicinandosi al planisfero appeso alla parete di fondo della vecchia base che utilizzava quando era bambino, inclinando il busto a fissare un punto preciso della mappa con sguardo soddisfatto. A breve si sarebbe concluso il contratto con il tizio a cui aveva dato aiuto per tutta l'estate e quasi l'intero autunno, poi finalmente sarebbe partito alla volta di sabbie bianche e sole cocente finché il modesto gruzzolo che aveva risparmiato glielo avrebbe permesso. Era solo questione di tempo, poi addio Giappone!
Si infilò gli abiti da lavoro e sedette al piccolo tavolo che, all'occorrenza, diventava comodino e anche cucina. Bevve un caffè in lattina con una smorfia disgustata in viso, avvicinando a sé la stufetta prima posta vicino al letto. Mangiò dei biscotti da un pacco aperto in precedenza e afferrò qualche altra schifezza poco salutare, infilandone alcune in tasca nel caso avesse avuto bisogno di energie durante la giornata. Dette una rapida sistemata ai suoi miseri oggetti personali e cercò le chiavi del motorino tra le pile di alcuni giornalini destinati agli adulti che circondavano il piccolo divanetto. Una volta trovate, infilò un vecchio cappotto - anche quello regalo di un vecchio conoscente - e si diresse verso lo scooter che, ultimamente, aveva preso la briga di parcheggiare all'interno della tana per evitare che si bagnasse in caso di eventuali scrosci notturni.
Non si era mai trattenuto in Giappone così a lungo: solitamente, all'apertura delle scuole lui era già bello spaparanzato in qualche luogo esotico e tropicale. Non amava il freddo, prediligeva i posti caldi che permettevano camicie leggere dai colori sgargianti e cocktail a base di frutta, magari conditi da graziose cameriere in bikini, ragion per cui il suo armadio e i suoi oggetti personali non comprendevano abiti e necessità adatte alla stagione del gelo. La verità era che Poppo detestava l'inverno: non era questione di temperature, era uno spirito libero e versatile, si adattava a qualsiasi situazione e clima senza problemi; era invece una repulsione viscerale, un sentimento radicato in profondità e a cui non riusciva porre controllo. Proprio come non riusciva a tagliare il cordone ombelicale con la piccola capanna nel bosco. Semplicemente, arrivata la stagione doveva andarsene. Una specie di tiro alla fine che durava da anni.
Aprì il piccolo uscio con slancio, trascinandosi dietro il compagno fidato di mille avventure e preparandosi all'ennesimo cielo uggioso che avrebbe contornato la giornata. Il respiro gli si mozzò in gola, e la presa sul manubrio del veicolo vacillò nel constatare la situazione esterna. Era decisamente anomalo, inaspettato: erano gli ultimi giorni di Ottobre, non poteva essere, non così presto, non ora.
Mosse un passo e la scarpa produsse un calpestio tra la neve che echeggiò nella solitudine del bosco. A fatica, trascinò nello spiazzo aperto il vecchio veicolo, che slittò sul suolo morbido e bagnato rischiando di cadergli addosso. Pensò al lungo tragitto immerso nella boscaglia e appurò che non era affatto sicuro mettersi in moto di un catorcio simile con il terreno ricoperto di nevischio. Borbottò un’imprecazione e lo lasciò lì dove lo aveva collocato: al diavolo se si fosse bagnato, era in ritardo e la giornata non avrebbe potuto iniziare in una maniera peggiore. Per una volta avrebbe preso i mezzi pubblici.
Sollevò la collottola della giacca e, con le mani in tasca, si incamminò lungo il sentiero. Le scarpe, non equipaggiate, affondavano nel terreno restituendogli brividi di freddo lungo tutta la colonna vertebrale, il suo incedere spedito era l’unico rumore che percepiva. I rami si appigliavano ai vestiti come artigli desiderosi di trattenerlo tra le loro grinfie e il respiro esalava in nuvole di vapore. Ovunque si voltasse il bianco della neve gli accecava lo sguardo. Si costrinse a guardare a terra, concentrando l’attenzione sul colore dei suoi indumenti, uniche macchie in mezzo al candore che aveva preso possesso di tutto il bosco. Si sentiva un punto di matita disegnato nel mezzo di un foglio intatto: non distingueva il cielo dal suolo, un lieve capogiro lo fece barcollare e inciampare su una radice sporgente. Deglutì passandosi una mano sul viso e percependo la fronte leggermente imperlata di sudore. Avanzò di diversi metri, svoltò un paio di volte e, con stupore, si accorse di aver smarrito la direzione del passo. Sebbene fosse la prima volta che percorreva la strada sommersa nella neve, si era addentrato in quei boschi così tante volte tanto da eseguirla in automatico, senza il bisogno di pensarci troppo. La conosceva fin da quando era bambino e si riteneva quasi esperto, di casa, eppure per la prima volta ebbe il vivido terrore di perdercisi e venirne inghiottito. Cercò qualche segnale o punto che potesse essergli famigliare, ma non riuscì a scorgere nulla che non fossero tronchi spogli e bianco.
Si accostò di lato e prese qualche respiro, sentendo crescere l’ansia sotto la pelle. Quanta neve poteva essere caduta in una sola notte per fargli perdere l’orientamento?
Si sedette su un masso sporgente e, con la testa tra le mani e un vivido senso di vertigine, gli arrivò alle orecchie un suono molto famigliare. Aguzzò l’udito e cercò la fonte, si mosse di qualche metro e, tenendosi saldamente ad una pianta inzaccherata di neve, si sporse leggermente in avanti da un ripido pendio della collina, intravedendo sotto di sé il conosciuto ruscello che gorgogliava ininterrottamente.
Il colore scuro, quasi nero del torrente spiccava tra le linde pendici. Le correnti d’acqua si susseguivano alle altre in giochi acrobatici e imprevedibili, risucchiando qualsiasi cosa intralciasse il loro imperterrito cammino, come serpenti lucidi sibilavano in direzione della preda; i mulinelli, come bocche affamate e profonde, inghiottivano acqua e detriti che sparivano in un baleno dalla vista. Poppo sentì il sangue raggelarsi nelle vene, trattenne il fiato e si mosse per allontanarsi da quel luogo maledetto, affondando però nella morbida neve e scivolando con la gamba a terra. Urlò con quanto fiato aveva in gola, afferrò per istinto un ramo sporgente scorticandosi le mani e si tenne saldo, mentre bastoni secchi e rocce spinte dalla brusca caduta rotolarono lungo il pendio finendo con un tonfo nelle profonde e rapide acque oscure. Il suono fu netto e limpido nella mente, la caduta impetuosa: vide ruzzolare quell’ammasso bianco con violenza e senza poter muovere un muscolo, scontrarsi con i residui del bosco e urlare nello scontro, tuffarsi nell’acqua ed essere inghiottito, in silenzio, senza emettere più alcun suono, senza più apparire in superficie, sparire.

Menma.

Pietrificato, solo il rumore del ruscello riempiva l’aria circostante. Prese un profondo respiro, lasciandosi sfuggire un violento lamento dalla bocca. Si portò una mano al viso, quasi a non capacitarsi di aver emesso un suono simile, e constatò di avere le gote bagnate di calde lacrime, brucianti a contatto con la pelle fredda. Tremante e sudato, fece forza nelle braccia e si mise in piedi, sconvolto per l’inaspettata piega degli eventi. Il senso di nausea era forte, si sentiva addirittura febbricitante.
Decise di tornare al rifugio, di non andare al lavoro, di lasciarlo prima del preventivato e partire con i risparmi guadagnati fino ad allora. Prese fiato e lentamente proseguì in direzione opposta a quella del fiume, riconoscendo il sentiero e raggiungendo la piccola capanna. Entrò e si infilò nel letto, afferrò il telefono e compose il numero del suo titolare, avvisandolo dell’impossibilità di raggiungerlo.
Perdonami… non ce l’ho fatta, perdonami…” mormorò alla cornetta, stille che si rincorrevano lungo le gote, mentre la persona dall’altro capo ascoltava confuso.









1442 parole.
Grazie per l'attenzione.

hibou.

  
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