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Autore: PawsOfFire    22/05/2017    4 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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I giorni passarono.
Lento ed inesorabile, Luglio si abbatté con pesantezza immane su di noi.
Tutto sommato i mesi precedenti non erano stati così drammatici. Giugno era corso con una spaventosa tranquillità, di quelle a cui costa fatica credere, pensare di essere ancora in guerra.
Ricordo ancora chiaramente un giorno particolare in cui il sole picchiava forte sulla terra ed ancora aspra ed inaridita dal lungo inverno. Eravamo distesi in una piana di erba e terra umida e sopra non avevamo altro che l’immensità del cielo, azzurro e limpido come non mai.
Da lontano scoppi e schianti ci appesantivano i cuori.
Eravamo ad un battito di ciglia dalla morte.
Nessuno di noi voleva pensarci. Volevo solo ammorbidire le suole delle mie scarpe dure come il cemento, riparato in un’isba* abbandonata, diroccata per metà. Mensole e mobilia era ridotta in poltiglia ma, scavando, eravamo riusciti a trovare due sedie di paglia dall’aspetto invitante, seppur ammaccate. Ci passammo l’intera giornata.
Quando verso mezzogiorno venne servito il rancio, nessuno di noi voleva crederci. Spezzatino di salsicce, patate e fagioli, unto ed invitante, con i pezzi di lardo enormi che emergevano dall’impasto bruno. Doveva esserci sicuramente anche del vino.
Più ne chiedevamo e più venivamo serviti. Ne ricevemmo ben due scodelle a testa. Alcuni ebbero una doppia razione di sigarette. Altri, di cioccolata.
Di quella buona, vera. Gli stomaci di alcuni soldati, avidi ed oramai poco avvezzi ai piatti unti, rigettarono gran parte di quella bontà, costringendoli a forzati ricoveri dalla durata di pochi giorni.
Io, in quanto saggio uomo di fronte, centellinai le gavette calde e ne ebbi a sazietà tutto il giorno senza particolari problemi.
In serata qualcuno riuscì a captare in radio la bellissima voce di Anita Blume. Conservavo ancora con affetto la sua scarpa con il tacco, rossa ed elegante, che mi aveva donato come pegno d’amore.
I nuovi arrivati erano così felici. Giocavano come dei bambini a rincorrersi e rotolarsi nell’erba cullati dai canti dei grilli che trillavano più forti dei mitragliatori. I più calmi, forse rassegnati, giocavano a carte e scrivevano lettere.
Era tutto così bello...ma era un’illusione, nulla di più.
Bisognava tenere alto il morale delle truppe: Gli uomini delle pernici avevano deciso di mandarci a morire in massa.
Ma io sono Bastian Faust, sublime Capitano e capocarro della Furia Nera, vero prodigio della tecnologia.
Come ero riuscito sapientemente ad evitare l’assedio a Stalingrado probabilmente avrei saputo evitare anche questo, che si preannunciava un mattatoio.
“Un macello di ferraglia” Convenne il Comandante quando mi presentai alla sua tenda dopo svariate ore di attesa. Non ricordo più come si chiamasse. Era un uomo austero e fiero, con un petto ossuto ed un naso aquilino sormontato da piccoli occhiali rotondi. Il cappello da ufficiale cascava sulla sua fronte bassa e calva, coprendogli quasi gli occhi.
“Capitano, Capitano Faust...” l’uomo mi squadrò torvo mentre facevo scivolare mezza tacca di Pervitin** tra le mie labbra.
“Ottima scelta. Lo prendo spesso anche io. Per il mio compleanno ne avevo chiesto una confezione formato famiglia ma temo abbiano perso il mio pacco. Siano dannati i postini.”
Dopo un lungo monologo sull’inefficienza del sistema e su tutte le fiducie che ripone sul Reich alla fine della guerra (tra cui quella di poter spendere la pensione in una casetta in Toscana a bere Chianti e mangiar Finocchiona tutti i giorni) finalmente ebbi l’esito della mia richiesta.
“Non posso accettarlo, mi spiace. E poi guardi, che bella croce di ferro di prima classe. Potrebbe ottenerne una seconda. Non le pare un ottimo incentivo?”
Un suono strozzato uscì dalla mia gola. Provai a far leva, ancora un’ultima volta, sulla caccia al temibile disertore che avrei dovuto seguire mesi fa.
“Era un incarico di estrema importanza, Signor Tenete Colonnello. Mi era stata assegnata personalmente dal Generale Sauer...”
“Dimesso dal suo incarico. Non lo sapeva forse, Herr Faust?”
Fu come un freddo proiettile in tempia. Balbettai qualcosa ma le parole faticavano ad uscire dalla mia bocca arida.
“Mi scusi, cosa significa...”
“Il fronte non ha bisogno di uomini come lui. Favoritismi. Missioni prive di senso...ad un certo punto ricevemmo perfino una soffiata interessante, pareva che, non solo desse inutili direttive, ma che evitasse di uccidere intenzionalmente il nemico, preferendo brindare con lui...”
L’uomo non alzò mai lo sguardo. Continuò a sistemare carte e cartacce a vuoto, con una freddezza che non lasciava spazio a repliche. Hermann Sauer era un grande amico di mio padre, combatterono la Grande Guerra assieme, sulle Alpi, fianco a fianco con l’esercito austroungarico. Mio padre gli salvò la vita e quell’uomo gli promise che, un giorno, si sarebbe sdebitato.
Quando venni chiamato a prestare servizio militare... mio padre fece carte false per spedirmi sotto la sua ala buona. Non sono mai stato un volontario, in realtà. Ho sempre mentito, anche a me stesso. Se lo ripeti tante volte alla fine anche la più palese bugia diventa una verità. E’ così romantico pensare al soldato che difende la patria come un leggendario cavaliere che salva il suo paese dal drago, ma alla fine non c’è niente di eroico.
Mi congedai con una fitta allo stomaco, salutando alto e fiero come un vero tedesco. L’ufficiale rimase impassibile.
Uscì dinnanzi a quel campo di grano, giallo come il sole e rosso come il fuoco ed improvvisamente mi sentii solo, abbandonato nella vastità della Terra.
Per tutta la notte non riuscii a chiudere occhio. I miei uomini dormivano della grossa, con Tom che si succhiava il dito e Klaus che russava profondamente. Maik aveva preso la strana abitudine di dormire in piedi abbracciato al suo fucile. Carico. Un giorno gli suggerii di andare per donne e gli pagai i servizi di una certa Galina, una nota prostituta dalle mani di fata.
“L’unica donna della mia vita è Marina la Carabina” rispose, accarezzando con premura la canna gelida del suo fucile.
“Marina è fedele e non mi tradisce. Inoltre adora giocare al rimpiattino con i russi. Canta quando colpisco un bersaglio. Vuole sentire la sua voce, Capitano?”
Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di quello che fu il mio superiore, di tutte le figuracce che avevo fatto davanti a lui, le improponibili richieste e tutti i perdoni, i congedi, le promozioni e le mie parole migliori. Me lo immaginavo chiuso in qualche cella a Berlino, ad aspettare un processo. Spero solo che ad un grande eroe di guerra abbiamo donato una fucilazione indolore, non una corona di canapa attorno al collo.
Mi svegliai stanco e sudato. Di lì a poco saremmo dovuti partire ed a stento riuscivamo ad avere il tempo per andare in bagno e masticare un pezzo di pane nero.
Il paradiso era finito, i trucioli tornarono ad essere parte integrante dei nostri pasti. Il gusto era terribile ma dovevo impormi di mangiare. Chissà quanto tempo sarebbe trascorso prima di poter mettere qualcos’altro in bocca.
Lunghe file di carri popolavano la nostra piccola zona sicura: nuovi e splendenti, riconoscevamo in essi le corone ferrate degli aggiornati Panzer IV e...qualcosa di nuovo, di mirabolante.
“Lo sforzo bellico è impressionante” ammise il Capocarro Joseph davanti a quella maestosa fila di mezzi muovi che da giorni si ammassavano in una specie di deposito all’aperto. Avevano consegnato il loro T-34 rubato e stavano per ricevere un carro di ordinanza, nuovo di zecca.
“Il progetto è stato approvato in pochissimo tempo” commentò un soldato, pulendosi le mani con uno straccio bisunto. “Sono nuovi, velocissimi e resistenti. Signori, vi presento i nuovi Panzer V “Panther”, coloro che ci porteranno alla vittoria”
Joseph e Chagall si scambiarono due lunghi sguardi colmi di gioia e curiosità mentre ricevevano quella nuova meraviglia. Il pazzo mi chiamò per mostrarmi da vicino il nuovo giocattolo.
“Guarda che bello. Ci disegnerei una grossa pantera che sbrana un pollo rosso” tracciò un lungo segno con la saliva, come per rendere partecipe la ferraglia del suo nuovo ed infelice destino.
“E’ indubbiamente un ottimo corazzato” Commentai, senza lasciar trapelare alcun segno di invidia dalla mia voce “Ma i Tiger sono enormemente più efficienti”
“Sarà anche vero” proseguì Chagall “Lo sapremo solo quando la battaglia finirà. A quel punto vedremo davvero quale sarà il carro migliore”

Cinquantesima divisione Panzer dello Heer, sesta compagnia.

Partimmo alla buon’ora. Viaggiavamo in file ampiamente distanziate l’una dall’altro, nascondendo dietro gli enormi scafi metallici piccoli gruppi di fanteria. Inizialmente vi fu un surreale clima di gioia. Le giovani reclute cantavano ancora, ebbri della gran pacchia dei giorni precedenti. Gli altri, silenziosi, procedevano con gli occhi gonfi per colpa della droga. Il nemico era lontano, ma chi ci assicurava che nessuno ci avrebbe sentito? Il rumore dei motori copriva le nostre voci quindi, per ora, potevano stare tranquilli.
Il sole di luglio batteva incredibilmente forte su di noi. Arrotolavamo le maniche delle nostre divise nere fino ai gomiti, cercando l’impossibile refrigerio. Se io, in qualità del mio ruolo, potevo permettermi di stare fuori  gli altri, inscatolati dentro la Furia, sudavano in modo decisamente più copioso.
Marciammo per un po’ nella fitta boscaglia, ascoltando gli uccelli cinguettare lietissimi. Quando ricevemmo l’ordine di disperderci, nella fanteria piombò il silenzio.
“Voi” insignì un giovane Tenente, spegnendo una sigaretta lasciata a metà.
“Seguite il carro numero due...”
“Furia Nera, prego.” Lo corressi, voltandomi verso la povera fanteria che incespicava per mantenere la baldissima velocità del carro.
“Inoltre” continuai, mentre i soldati si guardavano attoniti e perplessi “ Non sono secondo a nessuno, io”
“Ma signor Capitano, intendevo il numero del carro...” il Tenente sembrava quasi mortificato ed io ne ebbi gioia.
“Irrilevante. Si ricordi chi sono, quando verrò investito di gloria intramontabile. Who-hoo!”
Un grido di gioia disperata vale il prezzo per entrare nella Storia.

 

~

Sfondammo in un campo di grano arso dal sole. La pianura si perdeva a vista d’occhio, lasciando i nebbiosi profili delle colline sfumare a distanza inimmaginabile.
In casi come questi dovevo essere gli occhi e le orecchie del gruppo e non avevo altro di cui coprirmi se non un minuscolo coperchio che mi copriva la schiena. Furbescamente mi ero adagiato lasciando coperte più parti possibili del corpo ma nulla mi avrebbe salvato da un tiratore particolarmente buono.
“Capitano, cosa vede?” chiese Tom.
“Del grano maturo” risposi candidamente. Sentii con chiarezza il suo sbuffo irritato mentre si accingeva a chiedermi: “Lo vedo anche io. Tracce di russi? Ci sono carri in vista? Della fanteria?”
Avevamo un raggio d’azione veramente eccezionale, per cui potevamo tranquillamente fermarci il più lontano possibile dal nemico per sparare.
Ma avevamo un problema.
Un grosso problema.
Nella pianura non esiste nulla con cui ripararsi.
Non sarebbe stato un grande problema contro la fanteria ma, con altri carri in azione, poteva rivelarsi mortale.
O con gli aerei, che in massa iniziarono a ronzare sulle nostre teste.
“Merda!” un soldato sbottò ad alta voce. Incazzato, accese sia una sigaretta che una lite furibonda, con i suoi compagni che intimavano non solo di spegnere il fumo, ma anche di tacere.
“Se quelli ci vedono siamo fottuti!” ringhiò un giovane, prendendo l’altro per il colletto.
“Ehi, tranquillo, sono i nostri. Sono Stuka” lo udii borbottare. La tensione si abbassò e tornò a regnare il silenzio, interrotto solo dal ronzio fastidioso e costante di decine di aerei che serpeggiavano sulle nuvole in compatte squadriglie.
Furono i primi ad attaccare. Planavano a gruppi di quattro a sfiorare la terra, spezzando il grano con l’urto dell’aria. Fischiavano le bombe sulla terra, arando il campo da uomini ed erba. Poi risalivano, in formazione perfetta, quasi coreografica.
Il vento portava grida strazianti mentre l’avanzata continuava. Uomini si fecero avanti, oltre di noi, catapultandosi nelle buche create dalle bombe, adesso trincee di fango e membra. Vivi e morti ospitavano gli stessi spazi, i più giovani vomitavano colti dalla nausea, dall’odore pungente del fumo e dei visceri.
A distanza, adesso, potevamo scorgere i primi scafi verdi dei carri russi. I nuovi Panther erano decisamente più veloci e sfuggevoli in caso di ritirata. Noi, immensi e pesanti, non avevamo altra forma di difesa se non la corazza impenetrabile.
Ma questo non è un carro normale, è la Furia!
“In basso a destra” Comunicai con i miei uomini. Martin caricò il cannone con un proiettile a frammentazione. Con i miei fidi binocoli osservavo i movimenti del nemico in una temibile caccia tra preda e predatore, i ruoli sottili e facilmente scambiabili.
Ci fermammo. Immobili, non potevamo permetterci di mostrare il fianco al nemico cosa che, altrettanto, lui non avrebbe fatto.
Con la torretta ruotata verso sinistra il T-34 pareva ignorarci, preferendo abbattere con la mitragliatrice barricate di fanteria che avanzava urlando.
“La torretta. Mirate alla torretta.” Spostata verso sinistra e noncurante, ci fornì l’attimo perfetto per colpire.

Bam.

“Caricate!”

Bam.

Il carro non sparò più. Con la torre fracassata e fumosa dal relitto bollente uscì una parte dell’equipaggio in preda al terrore, spora e ferita, guidata solo dall’istinto di fuga.
Non c’era tempo da perdere. Una grossa cannonata colpì la parte superiore del muso, incassando brutalmente il colpo senza ferirci.
“Dannazione!” Tom fece ripartire il carro. Sopra di lui il metallo friggeva dal colpo, emanando il fetore caldo del ferro fuso.
Pervitin e terrore scivolava nelle nostre gole come acqua, bruciando come fuoco. A nulla servivano i pochi sbocchi d’aria: il caldo diventava sempre più insopportabile ad ogni metro che riuscivano a conquistare.
Poco distante da noi uno StuG*** prese fuoco. Dalla struttura a casamatta**** usciva un rigurgito di fiamme nel duro acciaio che lentamente si scioglieva. Una fiammella si staccò dal fuoco emettendo un grido abominevole. Fece qualche metro prima di crollare su sé stessa.
Il campo di grano iniziò ad ardere. Quelli che inizialmente erano fuochi isolati si propagarono tra le spighe gialle che lentamente sfumavano al nero, prima di divenire cenere sospinta dal vento.
“Capitano” La voce di Tom era ridotta ad un lamento straziato.
“Il fumo sta iniziando ad alzarsi...”
Mi portai un fazzoletto alla bocca. Faticavo a respirare. La fuliggine bruciava gli occhi ed annebbiava la vista. Piangevo dallo sforzo.
Mi portai per alcuni secondi il fazzoletto alle guance per asciugare lacrime e sudore.
Era diventato nero.
“Dobbiamo avanzare”

~
 

Il tempo iniziò a cambiare. Un flebile venticello scuoteva i nostri animi mentre lentamente mutava in uragano. Verso mezzogiorno il cielo iniziò a diventare scuro, portando con sé nuvole nere gonfie di pioggia.
Mentre il fumo veniva spazzato via ed io recuperavo lucidità, capii.
“Lanciafiamme!”
I T-34, sfuggevoli ed abilissimi, alimentavano le spire di fuoco muovendosi in una sorta di zig-zag incendiario.
E noi, immensi nel nostro carro da distanza, faticavamo ad ingaggiare un combattimento.
Arretrammo, almeno per un po’. Quando caricammo per aprire il fuoco notammo, con immenso disappunto, che i Panther erano decisamente più agili negli scontri ravvicinati.
Con la coda dell’occhio mi parve di scorgere il carro di Joseph e del matto del pittore.
In primis nessun panzer avrebbe mai fatto una sgommata a trottola in mezzo al campo, sparando alla cieca con la mitraglietta per poi rimettersi in asse e far scoppiare un carro nemico con precisione chirurgica.
Secondo, nessuno dei nostri carri possedeva, questa volta colorato con la vernice, una grossa pantera nera che sbranava un pollo rosso. Era un disegno orribile e grossolano, talmente brutto che avrebbe potuto far morire i nemici dal ridere. Mi strappò un sorriso in quel mare infernale.
Verso l’una la prima pioggia iniziò a scendere, scrosciante e potente come non mai. Lampi squarciavano il cielo nero, seguiti dal possente ruggito del tuono. Dall’inizio dell’attacco eravamo avanzati di circa dieci chilometri. Una nullità, contando i venticinque che, tecnicamente, avremmo dovuto conquistare. Le fiamme si diradavano, lasciando spazio al grottesco lascito dello scontro.
Tra i rivoli d’acqua ed il vento spirante la fanteria sciabordava un gorgoglio di suoni confusi in una disperata avanzata. Strisciavano sul suolo fangoso e fumoso che ancora emanava il terribile fetore di metallo fuso e carne bruciata. Dovevamo muoverci con estrema cautela, perennemente vigili di fronte al nemico cingolato o all’amico strisciante. Bastava una manovra sbagliata ed avremmo potuto asfaltare una decina dei nostri.
Che, sporchi da capo a piedi, faticavamo a riconoscere.
All’estremo delle mie forze, ancora una volta, mi adagiavo sulla torretta della Furia con i binocoli in mano.
Altri carri erano intervenuti da sud, sfondando la linea del nemico. Viaggiavano a cuneo, con i pesi medi in prima linea ed i carri pesanti nelle retrovie: avrei scommesso qualsiasi per dire che si trattavano delle teste di morto argentate****
Le bocche di fuoco ricambiarono nuovamente il favore ai russi, ripagandoli con la stessa moneta di alcune ore prima. Coltre di pece nera e sfiammate scarlatte sfoltirono la fanteria mentre noi, ancora una volta, caricavamo e colpivamo da lontano i carri nemici, confusi e sbandati dall’investimento, forse anche eccessivo, di mezzi pesanti.
Puntare, caricare, sparare. Somigliava più ad una precisa esecuzione rispetto ad un duello vero e proprio. Quando capirono l’ovvia e mai usata trappola a tenaglia in cui erano capitati, i carri nemici stridettero ancora una volta verso di noi, spingendo i motori al massimo fino a farli ululare dallo sforzo. Grosse palle di cannone tornarono a sferzare l’aria umida e sfrigolante.
Stavamo per caricare un secondo colpo quando la nostra visuale venne coperta quasi totalmente da uno strano oggetto metallico.
Solo bestemmie uscirono dalle nostre bocche quando capimmo che era la torretta di un Tiger esploso che vorticava in nostra direzione.
Tonnellate di acciaio si abbatterono sulla Furia a velocità impressionante, provocando un urto talmente forte da farci arretrare di mezzo metro.
Fu questione di un secondo. La vista si coprì di sangue. Divenne nero.
Forse urlai. Tutto si dissolse.

Belgorod, campagna circostante, 5 Luglio 1943

Non riuscivo ad aprire gli occhi. Mi sfregai le palpebre incrostate di sangue. Fuori era buio – i grilli cantavano lieti tra le granaglie annerite – e tutto sembrava essere finito.
Non so cosa sia successo, forse devono averci scambiato per un nemico abbattuto ed averci lasciato in pace. La Furia ha un fianco aperto con un buco grosso quanto un pallone da calcio. Mezzo cannone è stato piegato dall’urto, così come parte della torretta e del muso.
Mi fischiavano le orecchie, Provai a muovermi ma fitte di dolore impedivano qualsiasi movimento. Dovevo essermi rotto qualcosa. Costole. Una gamba, forse.
Indistintamente sentivo delle voci. Il dolore mi annebbiava i sensi, così provai a tendere l’orecchio.
Era una nota acuta e nasale...Tom! Sembrava spaventato ma non riuscivo a capire le parole.

“E ora cosa ne facciamo? Lo seppelliamo qua?”
“Io direi di mangiarcelo” questa frase riuscii a capirla. Una voce bassa ed animale come quella di Maik era inconfondibile.
“Potremmo fingerci morti anche noi” il tono comprensivo e pacione di Klaus venne interrotto dal confuso e balbettante: “Così potremo disertare senza problemi” di Martin.
Dai miei polmoni uscì una risata dolorosa e gutturale.
“Credevate che fossi morto, non è così? Sono stato in condizioni migliori...ma adesso mi porterete in braccio fino al primo ospedale in lettiga come un nobile romano...”
Li sentii fremere. Agitati e confusi si arrampicarono sulla carcassa della Furia oramai defunta, sporgendosi un poco per ammirarmi a turno come una santissima reliquia.
“E’ vivo! Sono passate...penso dieci ore. Pensavamo fosse morto...”
“Stolti che siete” un gorgoglio dolorante uscì dalla mia bocca.
“Sono troppo magnifico per morire”
Sforzandosi immensamente riuscirono a tirarmi fuori dalla Furia.
Oramai andata.
Questa volta per sempre.
D’altronde siamo numeri, tanti piccoli numeri  cuciti nel colletto di una giacca. Ma alcuni numeri sono più importanti di altri.
E quei numeri, quelli vivi, reali, erano tutti con me, con i loro arti rotti ed i lividi pulsanti.
Questo è ciò che conta per davvero. 

Note: 

* Casetta tipica russa
**Metanfetamina. Veniva data ai soldati sottoforma di pastiglie
***Cacciacarri dal profilo molto basso
**** speciale struttura fortificata. In alcuni caccicarri sostituisce, come forma, la torretta.


 

   
 
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