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Autore: Ghevurah    26/05/2017    2 recensioni
Questa città è nata da un sogno e dei sogni possiede la materia: paure che trasudano dalle ombre, desideri che sfilano alle luci delle fiaccole. Così ci si perde e ci si trova in un riflesso capovolto, per poi perdersi ancora. Ancora e per sempre.
Dopo la rovina della Dagor Bragollach, Celegorm, Curufin e Celebrimbor si rifugiano in Nargothrond, ospiti di Finrod Felagund. Quest'è la storia della loro convivenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celebrimbor, Celegorm, Curufin, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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IV. Inspirare






Gli occhi di Curufinwë erano nei suoi, mentre le montagne bruciavano e l’Aglon rigettava fumo e altri nemici.
Tyelkormo gli sorrise, mostrando il cadavere dell’Urco su cui si era gettato. Stava assaporando un orgoglio diverso da quello che gli riempiva il petto quando Oromë assisteva a una sua caccia fruttuosa, un orgoglio diverso e forse più intenso.
Curufinwë non aveva creduto nelle sue possibilità – l’aveva udito chiamarlo, con la voce e con la mente –, e il timore di suo fratello, misto all’irritazione per ciò che egli giudicava impulsività, egocentrismo, era scorso in lui come un brivido. Guardami, aveva pensato allora. Guardami mentre smentisco le tue previsioni.
Abbandonò gli occhi di Curufinwë per osservare la proprie mani bagnate di sangue. Sorrise di nuovo, pulendosi nella casacca logora dell’Urco che giaceva sotto di lui.
Il corno di Mahalcarinië echeggiò una seconda volta: tre suoni lunghi e cupi. Un allarme.
Lui sollevò lo sguardo verso il passo. Un gruppo di cavalieri era alle pendici delle montagne, si trattava del drappello appostato lungo i crinali che dopo l’ordine di ritirata stava raggiungendo la valle. Mahalcarinië doveva essere fra loro.
Oltre alle rocce, solo coltri di vapore dividevano il gruppo di guerrieri dalla piana, ma proprio fra quei vapori potevano celarsi i nemici che avessero già violato l’Aglon.
Tyelkormo pensò di richiamare la propria cavalcatura e ricongiungersi al drappello, quando una folata gonfiò i nugoli di fumo, spingendoli nella piana.
Tutto, attorno a lui, sfumò in un grigiore denso. I rumori vennero surclassati dall’ululato del vento e un miasma di zolfo saturò l’aria, coprendo persino il tanfo dei cadaveri.
I suoi sensi erano completamente fuorviati.
Portò una mano alla cintola, ma non trovò la propria spada: l’aveva scagliata contro un Nauro prima di gettarsi sull’Urco che lo aveva attaccato.
Allora scrutò la foschia, cercando d’individuare la sagoma di Ilwaráto. Si erano allontanati assieme dal grosso delle truppe, dunque non dovevano essere troppo distanti l’uno dall’altro. Ben presto, però, si rese conto che i vapori si erano condensati tanto da impedirgli di scorgere distintamente persino le sue stesse mani, perciò gli sarebbe stato impossibile trovare il suo capitano.
Era disarmato, indifeso, calato in una realtà caliginosa: un assaggio delle Aule di Mandos.
Ma il richiamo di Curufinwë lo raggiunse ancora, balenando nella sua mente come una folgore. Tyelko! Tyelko, stai bene?
L'apprensione che percepì in quel pensiero riuscì a scaldarlo: la consapevolezza di essere così prezioso era un balsamo in cui faticava a non crogiolarsi.
Curvo, rispose prima che la sua attenzione venisse calamitata da un odore pungente. Un lezzo di marciume e sangue che emerse dall’esalazione di zolfo.
Solo dopo udì il ringhio.
Quando si voltò, le fauci del Nauro erano già spalancate, avide d’una fame bulimica e rabbiosa.
Lui pensò al Giuramento, ma molto prima pensò a Curufinwë. A Tyelperinquar. E forse avrebbe persino pregato – Eru, fa che il fumo impedisca loro di vedere – se non gli fosse sembrato troppo ipocrita.
Poi avvertì uno spostamento d’aria; qualcosa calò sulla bestia, squarciandone carne e muscoli e ossa.
Huan, si disse Tyelkormo, ma uno scalpiccìo di zoccoli lo contraddisse.
Mahalcarinië, a cavallo, fendette lo strato di fumo, comparendo dinnanzi a lui. I capelli corti e sudici incollati alle guance, il corno appeso alla cintola; nella mano destra un’ascia intrisa di sangue. E nonostante la foschia, lui notò un'ombra di delusione correre sul suo viso.
Per raggiungerlo in così poco tempo doveva aver disceso gli ultimi piedi di roccia a galoppo e aver attraversato la nube di fumo a una velocità sorprendente, una prestazione degna dello stesso Curufinwë. Ma data la sua espressione, era probabile che la cacciatrice stesse cercando Ilwaráto e si fosse imbattuta in lui per puro caso.
A quel pensiero Tyelkormo scosse il capo, increspando le labbra in un sorriso. “Troviamo tuo padre,” disse, “dovrebbe essere qui vicino.”
Il cenno d’assenso che Mahalcarinië gli rivolse fu sin troppo enfatico.
Lui colpì con un calcio i resti del Nauro e prima di addentrasi fra i vapori, si voltò verso sud.
I nembi che avvolgevano la parte meridionale della piana avevano iniziato a diradare, tanto da permettergli di scorgere Curufinwë in sella al proprio cavallo, al fianco di Tyelperinquar.
Il viso di suo fratello mostrava un coacervo di angoscia e rabbia, cristallizzato in uno sguardo limpidissimo.
Curvo, lo chiamò Tyelkormo aprendo la menta alla sua, ma non ebbe risposta.






Il tonfo del vambrace che scaglia a terra viene attutito dai tappeti. Lui li calpesta senza riguardo, ignorando il fango di cui sono intrisi i suoi stivali. Biascicando un’invettiva, strattona le giunture dell'armatura.
I passi di suo fratello rintoccano rapidi lungo l’androne, nel salotto. Ma Tyelkormo lo ignora come ha ignorato il caos di voci e presenza che l’ha travolto, quando le porte di Nargothrond si sono richiuse alle sue spalle e la città è tornata a ingoiarlo.
“Spiega,” l’incalza Curufinwë con tono autoritario.
Un ringhio risale la gola di Tyelkormo, vibrando di un’irritazione mal trattenuta.
Suo fratello, indifferente, lo sprona ancora: “Abbiamo poco tempo, Findaráto ti vuole parlare subito.”
Tyelkormo smette di lottare con le cinghie dell’armatura. Stringe i denti. Le caverne si serrano attorno a lui, ladre d’ossigeno e libertà.
“Turko,” lo chiama suo fratello, cercando di esternare un’ascendenza che la sua presunzione gli fa credere di poter evocare.
Ma Tyelkormo, ora, non può sopportarlo.
La frustrazione accumulata in quei giorni ferve sotto pelle, tanto da fargli carezzare il pensiero di sfogarla lì, su Curufinwë che si è arrogato il diritto, l’autorità, di richiamarlo a un ordine a cui non vuole tornare.
Sepolto e castrato e ammansito: è così che suo fratello lo vuole. È così che vuole chiunque. E ciò che è accaduto durante la ritirata dall’Aglon ne è un chiaro esempio. Un esempio che si è riverberato sulla sua missione all’esterno.
Si volta. Pugni chiusi lungo i fianchi, unghie a incidere i palmi e vene gonfie di un’ira selvaggia.
Curufinwë non si scompone: affronta il suo sguardo con un’espressione seccata, e Tyelkormo pensa di infilare una mano sotto la cascata nera dei suoi capelli, di trovare il collo – bianchissimo – e stringervi le dita fino a sentire quel sangue che li unisce pulsare disperatamente.
Immagina il viso di Curufinwë irrigidirsi, arrossarsi; le labbra schiudersi alla disperata ricerca di un’aria rubata – allora sì che capirebbe.
Ma poi chiude gli occhi, inspira. Richiama il ricordo del vento sulla pelle, il sapore della pioggia sulla punta della lingua.
“È sorto un problema,” riesce a mugugnare infine, allontanandosi il più possibile da suo fratello.
Curufinwë inarca un sopracciglio. Questa volta, però, non ignora la sua reazione e rispetta la distanza impostagli.
“Che genere di problema?”
Nella domanda striscia un biasimo che Tyelkormo accoglie con un altro ringhio. “Non usare quel tono. Non dopo aver avuto la folle idea di consegnare a Findaráto l’oggetto del nostro ricatto!”
La fronte di Curufinwë s’increspa appena, ma null’altro sembra mutare nella sua espressione. “Di questo abbiamo già parlato prima che tu partissi. Ora dimmi cos’è accaduto là fuori.”
Tyelkormo scaccia il ricordo della loro discussione. Si gratta il capo e le sue dita incontrano frammenti di foglie rimasti impigliati ai capelli.
“Sono voluti tornare perché abbiamo trovato un messaggero in fin di vita,” dice così, a brucia pelo.
E non ha bisogno di guardare Curufinwë per sapere che il suo viso, ora, si è contratto. Una tensione accennata, un guizzo della mandibola che i più neppure noterebbero, ma che lui sa riconoscere e interpretare.






Oltre le caverne, oltre la gola in cui s’apriva l’ingresso della città, il Narog scrosciava fra le rocce, e l’odore d’incenso che ancora impregnava la pelle si perse nell’aria gelida e frizzantina del fiume.
Tyelkormo la respirò a occhi socchiusi, le labbra arcuate in un sorriso che i guerrieri di Nargothrond non potevano comprendere.
Nell’acqua galleggiavano sottili frammenti di ghiaccio, venivano sospinti dal vento che sferzava le rapide, sollevando una pioggia finissima. Oltre di essa si scorgevano sponde trapuntate di alberi: abeti imperlati di brina, faggi spogli e lugubri. I morsi dell’inverno si stavano allentando, ma la terra non aveva ancora iniziato il proprio risveglio.
Il drappello risalì verso nord-ovest, costeggiando le anse del fiume e i fianchi ripidi degli Andram.
Tra le ombre delle montagne trapelavano lame di una luce troppo pallida per scaldare, ma Tyelkormo le guardava come la più splendente delle rivelazioni.
Dopo aver guardato le acque ghiacciate del Ringwil, proseguirono verso ovest, sino a uscire da Taur en Faroth.
La piana che correva dalla foresta ai Boschi di Núath era nuda, chiazzata di nevischio che andava sciogliendosi sotto i raggi timidi del sole.
E dinnanzi a quello spazio aperto, vastissimo, Tyelkormo si sentì del tutto libero. La tentazione di spronare il cavallo per galoppare via – il vento sul viso, il corpo teso in uno sforzo accolto come un sollievo –, pizzicava le corde del suo istinto.
Ma infine il suo sguardo si rivolse a nord-ovest e tutto cambiò.
Delle corone montane che avevano dominato gli orizzonti del Beleriand non si scorgeva nulla, al loro posto strati di nubi oscuravano cielo e terra, e sembrava impossibile sperare che sotto di essi vi fosse ancora vita.
Una rabbia conosciuta invase l’animo di Tyelkormo. Non si era mai sentito piccolo o terrorizzato davanti al potere di Moringotto, solo furente. Come un cane affamato, legato a un traliccio, al quale si getta cibo che non può raggiungere.
Si voltò verso Ilwaráto e lo vide guardare là, dove si sarebbe dovuto avvistare l’Himring. Nei suoi occhi Tyelkormo aveva sempre scorto il riflesso dei loro giorni da cacciatori, nel Valinor; ma in quel momento non riuscì a vedervi nulla: erano vacui come quelli d’un morto.
Gli si avvicinò in silenzio, sino a sfiorare una sua gamba con la propria. I loro cavalli che si annusavano. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma sapeva di non averne il diritto.
Proseguirono, attraversando il Narog nel punto in cui il Ginglith vi confluiva e l’acqua scorreva cheta e meno profonda.
I guerrieri di Nargothrond procedevano tesi, sempre in allarme per la possibile presenza di nemici. Tyelkormo fiutava la loro angoscia; vedeva la loro gestualità nervosa, sentiva il loro bisbigliare inquieto.
I Moriquendi gli avevano sempre ricordato prede terrorizzate, incapaci di fare altro se non fuggire o nascondersi, ma tra quei guerrieri vi erano anche Ñoldor, e certo un simile atteggiamento non era un tratto distintivo della loro natura.
Forse quel comportamento dipendeva dall’aver vissuto in una realtà protetta come il Nargothrond. Lontana dalla minaccia di Moringotto, la città aveva alimentato un’illusione di pace, un’illusione brutalmente incrinata dall’esperienza alle Paludi di Serech. E il trauma subito allora continuava a segnarli.
Il secondo giorno la Taleth Dirnen si dispiegò dinnanzi a loro: erba rada, ancora gelata, e alture che intramezzavano l’orizzonte. Più a sud la catena degli Andram tornò a mostrarsi e un suono simile al richiamo d’una beccaccia echeggiò nella piana: era il segnale di via libera delle spie appostate su Amon Ethir.
Fu quando sfilarono nei pressi del colle, che Tyelkormo mandò Huan a nord, in ricognizione.
Prima di lasciare Nargothrond aveva concordato con i propri cacciatori un modo per distaccarsi dai guerrieri di Findaráto e oltrepassare il Sirion, dirigendosi quanto più possibile verso le Marche.
Arrivati a Bar Erib, mentre gli esploratori di Nargothrond prendevano contatto con gli abitanti del fortino, alcuni cacciatori avrebbero finto di avvistare un possibile pericolo. Tyelkormo, Ilwaráto e pochi altri si sarebbero allontanati con il pretesto di una perlustrazione per poi ricongiungersi a Huan che, nel frattempo, avrebbe dovuto trovare la strada più breve e sicura per raggiungere l’Est Beleriand.
Ma quando il fortino di Bar Erib si stagliò all’orizzonte, velato da una nebbia serica, Huan tornò da nord.
Aveva il muso sporco di sangue fresco, gli occhi accessi dalla violenza d’uno scontro.
Tyelkormo gli domandò cosa fosse accaduto e i suoi pensieri fluirono in lui. Terra e nevischio sotto le zampe. Lo scroscio di un grande fiume più a est. Alberi radi e alcune alture. Poi l’odore: zolfo e morte.
Nauror,” mormorò lui, incurante di usare una lingua proibita, e tutti, compresi i guerrieri Sindar, capirono. Le creature di Moringotto si erano spinte troppo a sud; era probabile che le Marche fossero cadute completamente.
Tyelkormo rivolse lo sguardo all’orizzonte assediato dalle nubi, mentre una rabbia atavica tornava a ribollirgli dentro.
Al suo fianco Ilwaráto era specchio di simili sentimenti, e lui cercò d’ignorare la consapevolezza che quella sua furia non fosse rivolta al solo Moringotto.
Strinse le briglie, lasciandosi sprofondare in un istinto di rivalsa: “Huan, portaci da quegli abomini.”
I guerrieri di Nargothrond accolsero le sue parole con incertezza; alcuni di loro cercarono di opporsi, di richiamarlo, ma ben presto le loro voci si persero nell’ululato del vento.
La piana scorse sotto gli zoccoli dei cavalli, intervallata da colline rigogliose, forse quelle su cui sorgevano i presidi di Nargothrond abbandonati dopo la caduta del Dorthonion. E quando da est provenne lo scrosciare del Sirion, Huan annusò l’aria e cambiò direzione.
Tyelkormo lo seguì con prontezza. Vedeva le sue orecchie tendersi come quando erano a caccia e qualcosa di nuovo attirava la sua attenzione. Istintivamente portò una mano all’elsa della spada, mentre Ilwaráto, dietro di lui, impugnava l’arco per coprirlo.
Poi Huan emise un brontolio basso, appena accennato, e subito dopo Tyelkormo avvertì un odore di sangue.
Senza frenare il proprio destriero, lanciò uno sguardo d’intensa a Ilwaráto, infine sollevò una mano per far segno a coloro che li avevano seguiti sin lì di fermarsi.
Lui e il suo capitano proseguirono più lentamente, attenti a produrre il minor rumore possibile.
Gli abeti che impuntivano la piana iniziarono a infittirsi, ma l’odore della loro resina non riusciva a mitigare quello metallico del sangue. Dal suolo s’alzavano spettri di foschia e a un tratto, velato da essi, scorsero una sagoma distesa sul terreno.
Era un Elda. Il volto emaciato, sporco di terra e sangue ormai secco; le labbra dischiuse in un rantolo.
Tyelkormo lasciò scivolare lo sguardo sul suo corpo. Aveva l’addome squarciato, dai lembi aperti della ferita affioravano viscere irrorate di sangue. Nulla che non avesse già visto.
L’Elda indossava un’armatura leggera, tuttavia gli abiti che si scorgevano sotto di essa parevano foderati, adatti a un clima rigido: poteva provenire da nord.
Tyelkormo smontò da cavallo e gli si avvicinò, scacciando le mosche che già ronzavano nell’aria.
“Da dove vieni?” Gli domandò in Sindarin e poi in Quenya, sperando di avere una reazione.
Lo sconosciuto non rispose; rimase a fissare il vuoto, mentre il suo respiro agonizzante riempiva il silenzio.
“Parli con chi è già in Mandos!” Grugnì Ilwaráto, frustrato, ma Tyelkormo l’azzittì sollevando una mano.
“Passami l’acqua, Ilwo.”
Il capitano gli porse la propria borraccia con gesti bruschi. Tyelkormo si bagnò due dita e inumidì le labbra livide dell’Elda.
“Da dove vieni?” Gli domandò di nuovo e questa volta scorse un guizzo di vita nei suoi occhi.
Il respiro accelerò, una voce roca e sconnessa, simile al lamento d’un fëa già sottoposto al giudizio di Námo, raggiunse le orecchie di Tyelkormo.
“Siamo… siamo assediati,” ansimò lo sconosciuto in un Quenya perfetto.
Tyelkormo si ritrovò a stringere le labbra, il pensiero che quell’Elda provenisse dalle Marche si fece pressante. Con una certa impellenza provò a ricordare i guerrieri dei suo fratelli – una carrellata di volti lontani, sfumati.
I suoi pensieri vennero interrotti da Ilwaráto che lo affiancò all’improvviso, chinandosi sullo sconosciuto. “Chi è assediato? Dove?" Domandò, afferrandolo per le spalle.
Le palpebre dell’Elda fremettero, i suoi occhi scivolarono all’indietro, e Tyelkormo allontanò il proprio capitano con una spinta.
L’imprecazione di Ilwaráto si perse nel respiro crepitante dell' Elda. Tyelkormo gli bagnò ancora il viso. Polvere e sangue colarono sotto le sue dita umide.
Lo sconosciuto gli rivolse uno sguardo sofferente, lontanissimo, ma infine strinse le labbra e sollevò un braccio. Indicò il proprio fianco, coperto dalla giubba foderata che indossava.
Tyelkormo sollevò la stoffa. Sopra a una cinta di cuoio era legata una fusciacca, su di essa era ricamato lo stemma verde e oro di Arafinwë.
Lui prese un lembo della fascia fra le dita, strofinando il tessuto decorato. A esclusione di Findaráto e Artanis, che le voci dicevano in Lestanorë, solo un membro della casata di Arafinwë era ancora in vita.
“Artaher?” Tentò dubbioso.
Lo sconosciuto annuì con fatica. Poi le sue labbra si schiusero alla ricerca di un’aria che non sembrarono trovare. Gli occhi tornarono a offuscarsi, il respiro affannato cessò.
Tyelkormo guardò le sue pupille assottigliarsi, perdendosi nella fatuità d’un corpo ormai vuoto.
“Un messaggero da Minas Tirith,” sospirò infine.
Ilwaráto fece schioccare la lingua, muovendo qualche passo nell’erba. “Che facciamo, ora?”
Tyelkormo si stropicciò il viso per poi scacciare con un gesto stizzito le mosche che avevano ripreso a ronzare, affamate, attorno alla ferita esposta del cadavere.
Huan rivolse il muso a sud e spostò lo sguardo su di lui. Uggiolò – scalpitio di zoccoli, odore di Quendi e cavalli –: il resto del drappello li stava raggiungendo.
Un'imprecazione sgusciò tra i denti serrati di Tyelkormo: ormai era tardi per nascondere il corpo del messaggero, ma fortunatamente solo lui e Ilwaráto erano venuti conoscenza dell’assedio di Minas Tirith. Un'informazione da maneggiare con cura.
Scostò la giubba del cadavere, slacciandogli la cintura di stoffa che portava in vita. La piegò, allentò le giunture del proprio pettorale e nascose la fusciacca fra l’armatura e la casacca che indossava.
Quando si alzò, vide Ilwaráto scrutare l’orizzonte da cui stavano emergendo gli esploratori. Lo sguardo acceso di rabbia.
“Ora non possiamo evitare di tornare,” disse Tyelkormo, e come nelle settimane trascorse in Nargothrond tacque quelle scuse che avrebbe voluto rivolgergli.
“Tu mantieni il silenzio su ciò che il messaggero ci ha rivelato.”
Ilwaráto scrollò le spalle, stizzito. “Credi ci sia bisogno di dirmelo, condo?”






Slaccia le cinghie del pettorale e la fusciacca è lì, pressata contro il suo petto, inumidita dal suo sudore.
La sfila, soppesandola. Dita incrostate di terra ad arricciare lo stemma di Arafinwë.
Sa che anche Curufinwë sta osservando la lingua di stoffa, il ricamo dorato su cui le sue dita indugiano.
“Agli altri esploratori,” dice Tyelkormo senza sollevare il capo, “abbiamo detto di aver trovato il messaggero morto.”
In risposta ha solo l’irritante eco di voci e musiche, al di là delle pareti di pietra. Allora stringe la fusciacca in pugno, alza lo sguardo. “Non credo dovremmo rivelare a Findaráto dell’assedio a Minas Tirith.”
Gli occhi di Curufinwë sono specchi oltre i quali s’addensa una nebbia fosca. Tira le labbra in una piega sottile, le morde appena. Sta riflettendo.
“Se gli rivelassimo dell’assedio cosa credi farebbe?”
Tyelkormo scrolla le spalle e allenta la stretta della propria mano, per poi lasciar cadere la fusciacca sul divano.
“Ignorerebbe quelle sciocchezze riguardo la sicurezza di Nargothrond per mandare rinforzi a Minas Tirith. E le Marche passerebbero in secondo, se non in terzo piano.”
L’aria si fa più pesante; le rocce celate dagli arazzi, guarnite dagli stucchi, sembrano avere coscienza, una volontà a lui ostile. L’impulso di correre via, fuori, verso il nord e la propria vendetta, torna a farsi pressante.
“Findaráto non è un Moriquende, per quanto a volte sembri gli piacerebbe esserlo. Non lascerà che Moringotto gli strappi anche suo nipote.”
Curufinwë cammina sino al tavolo posto al centro della sala e vi si appoggia con un'espressione assorta. “Sì,” dice infine, “non basterà l’esperienza alle Paludi di Serech a frenare i propositi di Findaráto. Forse sarà più prudente, ma non rinuncerà a inviare soccorso a Minas Tirith.”
“Dunque evitiamo di parlargli dell’assedio e bruciamo la cintura.”
Questa volta Curufinwë solleva il capo, le labbra arcuate in un sorriso che Tyelkormo conosce bene. “Perché tacerglielo? Quando Findaráto verrà a sapere dell’assedio vorrà mandare rinforzi, ma difficilmente il consiglio accetterà di sacrificare ancora una volta la gente di Nargothrond per tentare il salvataggio di un membro della Casata di Arafinwë.”
Tyelkormo pensa agli esploratori che hanno insistito per ritornare in città e riportare al loro sovrano i dettagli dell’esplorazione fallita. Pensa all’ammirazione che il nome di Findaráto richiamava.
“I sudditi di Nargothrond gli sono fedeli,” chiosa, ma il sorriso di suo fratello s’affila.
“Credi che la fedeltà basterà a sedere la memoria delle Paludi di Serech?”
Tyelkormo sbuffa, inarcando un sopracciglio, e Curufinwë continua: “Lasceremo che Findaráto si condanni da sé. Diremo all’intera Nargothrond dell’assedio e quando il suo re deciderà di inviare rinforzi, ci opporremo alla scelta per garantire la sicurezza della città, dei suoi sudditi. A quel punto il consiglio propenderà per noi.”
“Noi che premevamo affinché s’inviassero esploratori a nord?”
“L’abbiamo fatto per assicurare una prospettiva alla città, per avere informazioni sui pericoli che la circondano. Vogliamo la salvaguardia di Nargothrond che ora protegge anche noi, i nostri guerrieri. La nostra famiglia.”
Tyelkormo si massaggia il collo per poi raggiungere le giunture dello spallaccio. Le parole di suo fratello sono un debole eco fra desideri di libertà e vendetta. Fra riverberi d’angosce – l’incubo di un altro Losgar, di un altro Thangorodrim. Pensieri che escludono la gabbia d’oro in cui Curufinwë sembra voler piantare radici politiche.
Le sue dita si stringono attorno a una delle fibbie. La slaccia con un movimento brusco, improvviso. “Stai perdendo di vista il nostro obbiettivo principale: ritornare a nord.”
Curufinwë socchiude gli occhi – due cristalli di fumo velati da ciglia scure. Lo sta studiando, evocando particolari di lui che neppure Tyelkormo conosce: ognuno di loro possiede la chiave che manca all’altro per decifrare i segreti del proprio animo.
Poi suo fratello gli si avvicina piano, sul viso un’espressione comprensiva che ne ammorbidisce i tratti, facendolo apparire il ragazzo d’un tempo. “Affatto,” mormora, la voce più bassa e insinuante.
Tyelkormo sa cosa sta cercando di fare, per questo si concentra sulle cinghie che ancora fissano lo spallaccio.
Ma Curufinwë scivola dietro di lui, ignorando l’odore acre del suo sudore. Con tocchi leggerissimi gli scosta i capelli dalle spalle, lasciandoglieli ricadere sul petto.
“Se il consiglio sarà dalla nostra parte,” dice, mentre le sue dita – così abili – iniziano a slacciare le ultime fibbie, “ci sarà più facile organizzare delle spedizioni a nord.”
Tyelkormo sbatte le palpebre, combattuto tra l’istinto di abbandonarsi al suo tocco e quello di rimanere all’erta, focalizzato sul discorso.
“Ci basterà concedere ai consiglieri il tempo di assimilare questa nuova prospettiva,” continua Curufinwë. Ma lui trova la forza di isolare la sua voce, il tocco delle sue dita che lo stanno liberando dalla fastidiosa costrizione dell’armatura.
E allora le avverte, le grotte opulenti di Nargothrond che strappano fiato e libertà, così come hanno fatto le nubi accalcate a nord.
Si volta all’improvviso, intrappolando le mani di Curufinwë nelle proprie.
“Non abbiamo tempo,” scandisce. “Io voglio sapere se nelle Marche ho ancora dei fratelli in vita. Voglio saperlo il più presto possibile.”
Sente suo fratello irrigidirsi, eppure lo trattiene lì, contro di sé, mentre il suo sguardo torna a farsi freddo e distante.
Tyelkormo è cosciente del fatto che condividono lo stesso desiderio di vendetta, le stesse paure, ma ormai non gli è più sufficiente sapere: vuole sentirglielo dire, ne ha bisogno.
Curufinwë, però, non concede nulla. Volge il viso di lato, così da riuscire a sfuggire almeno ai suoi occhi.
E dinnanzi a quel rifiuto Tyelkormo non può far altro che recriminare: “Sai quanto mi sia costato dire a Ilwaráto che saremmo tornati così, senza nessuna nuova dalle Marche?”
Suo fratello sussulta nella sua presa. Non torna a guardarlo, ma lui scorge comunque il sorriso sprezzante che gli increspa le labbra. “Allora è questo,” dice con amarezza, “è sempre stata questo.”
Tyelkormo stringe i denti.
Da quando si sono lasciati inghiottire dal Nargothrond è la prima volta che affrontano un simile argomento. Per settimane l’ha sentito aleggiare fra loro come uno spettro, ma forse ha deciso di dargli corpo nel momento meno opportuno: le Marche potrebbero essere cenere sotto un cielo di piombo; Findaráto lo attende, agguerrito, nella sala del trono e i suoi consiglieri sono banderuole pronte a volgersi verso una o l’altra parte.
O magari il problema sono solo le sue debolezze, la memoria del tocco di Curufinwë che persiste sulla pelle, fra i capelli, in un eco troppo suadente.
Con un grugnito libera le mani di suo fratello, mettendo nuova distanza fra loro.
Curufinwë gli rivolge uno sguardo insondabile, e lui riprende a slacciare le cinghie della propria armatura in silenzio.
Si era illuso di essere tornato a respirare, ma in verità sta compiendo solo metà dell’azione: i suoi polmoni si riempiono d’aria senza rilasciare nulla all’esterno. Inspira, trattenendo ogni cosa dentro di sé.
“Dirò a Findaráto dell’assedio,” mormora alla fine, prima di lasciar cadere lo spallaccio sul divano e raccogliere la fusciacca lì abbandonata.






“È probabile che l’Himring sia bruciato,” disse Curufinwë, la voce chiara e ferma nonostante il galoppo. “Ma se c’è una possibilità che questo non sia avvenuto, dobbiamo far sapere a Russandol della caduta dell’Aglon.”
Tyelkormo corrugò la fronte: quella prospettiva era sale su ferite aperte.
Alle spalle dell’esercito in movimento, volute di fumo avevano divorato le montagne, e nonostante piane imbiancate si stagliassero dinnanzi a loro, l’aria invernale si era fatta troppo calda e pesante.
Tyelkormo incrociò lo sguardo di Ilwaráto che guizzava da lui a Curufinwë per poi posarsi su Mahalcarinië, poco distante. E nel notare quel particolare i suoi pensieri volarono a Tyelperinquar: sapere che si trovava nell’avanguardia, il più distante possibile dalle nubi accalcate a nord, lo rassicurava.
Strinse le briglie e tornò a rivolgere la propria attenzione a Curufinwë.
“Dobbiamo inviare un messaggero,” sentenziò questi senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.
Tyelkormo corrugò la fronte. Le vette dell’Aglon erano un profilo scuro fra i vapori; l’Himring, più a est, dove le fiamme s’erano abbattute come flutti d’un mare in tempesta, sembrava un mero ricordo. Ordinare a un messaggero di raggiungerlo equivaleva a condannarlo a morte.
“Il nostro miglior cavaliere,” aggiunse suo fratello, la presa salda sulle briglie della propria cavalcatura, il viso immobile, animato solo dalle ciocche di capelli che gli sferzavano le guance.
Tyelkormo scollò il capo con scetticismo e Ilwaráto si fece loro più vicino. “Data la situazione,” disse rivolto a Curufinwë, “persino tu, condo, o Oromë in sella a Nahar sareste un regalo alle Aule di Mandos!”
Curufinwë non lo degnò d’uno sguardo, ma le sue parole furono la stoccata gelida che mancava a quell’inverno di fuoco: “Non c’è bisogno di scomodare me o un Vala, tua figlia è un cavaliere altrettanto capace: andrà benissimo per questo compito.”
Allora Tyelkormo ricordò il suo sguardo oltre il fumo dell’Aglon, la rabbia e l’angoscia che vi si erano condensate.
Strattonò le redini, portando il proprio cavallo ad accostarsi a quello di Curufinwë. “Curvo,” lo chiamò con urgenza, “Mahalië mi ha salvato la vita!”
Le labbra di Curufinwë si tesero in un sorriso. Una lama spietata, beffarda, che s’apri e scosse l’animo di Tyelkormo come una faglia.
“Ha messo in pericolo la tua vita e poi l’ha salvata per un mero caso, non credere che non me ne sia accorto. Il segnale del suo corno è giunto in ritardo, quando ormai l’avanguardia nemica si era celata nella nube di fumo.”
Tyelkormo strinse i denti. Accanto a lui Ilwaráto taceva, le mascelle contratte, lo sguardo incupito da una rabbia bruciante.
Ma la frustrazione data dalla ritirata, da quel momento di debolezza che l’aveva esposto all’aggressione del Nauro, accesero in Tyelkormo un sentimento altrettanto caustico.
Ilwaráto prima e Mahalcarinië poi gli avevano giurato fedeltà; erano i suoi guerrieri, i suoi cacciatori strappati alle Foreste del Valinor: gli appartenevano come sarebbero appartenuti allo stesso Oromë.
Con un movimento improvviso si spinse verso suo fratello, quasi avesse intenzione di disarcionarlo – e una parte di lui l’aveva davvero.
Le piastre del suo vambrace cozzarono contro lo spallaccio di Curufinwë, emettendo un clangore fastidioso. “Non permetterò a nessuno di strapparmi uno dei miei guerrieri. Neppure a te.”
Vide il profilo di Curufinwë fremere; lo vide stringere le labbra, forse sofferente per il colpo che gli aveva assestato. Ma quando si voltò per fronteggiarlo, una fiamma acida bruciava nei recessi del suo sguardo.
Per un attimo a Tyelkormo mancò il fiato. Curvo, pensò, Atarinkë, sforzandosi di non lasciarsi ingannare da una somiglianza viscerale.
“Se alcuni dei nostri fratelli sono vivi,” soffiò Curufinwë, “è fondamentale avvisarli, questo dovresti comprenderlo anche tu. Ma mandare uno dei miei uomini sarebbe come non mandare nessuno. I tuoi cacciatori sono scaltri, veloci e possiedono una maggiore resistenza: hanno certamente più speranze di raggiungere le Marche. E alcuni fra loro ne hanno più di altri.”
Lui s’udì ringhiare di frustrazione. Non poteva accantonare la speranza che i loro fratelli fossero ancora in vita, e Curufinwë aveva ragione: per dare e avere notizie di loro era indispensabile inviare qualcuno a nord. Qualcuno che avesse possibilità di arrivarci.
“Se questo è il problema, andrò io.”
Tyelkormo si voltò. Ilwaráto lo fronteggiava con determinazione, la collera convogliata nei pugni – nocche bianche e vene in rilievo – stretti attorno alle redini.
Curufinwë sorrise alla sua proposta come si sorride all’utopia d’un bambino: “Sappiamo entrambi che tua figlia cavalca meglio di te.”
Ilwaráto increspò la fronte. Un istante e arrestò il proprio cavallo dinnanzi a quello di Curufinwë, bloccandogli la strada.
Tyelkormo si fermò a sua volta, facendo correre lo sguardo dall’uno all’altro, guardingo.
Suo fratello voleva punire Mahalcarinië, Ilwaráto. Lui. Voleva cauterizzare strappi d’orgoglio con la fiamma della propria presunzione. Allo stesso tempo, però, intendeva fare la cosa giusta: avvisare le Marche della caduta dell’Aglon.
Forse era un caso che simili propositi combaciassero; forse era stata l’abilità d’oratore di Curufinwë a fargli credere che fosse così. Ma lui, ora, non vedeva alternative.
“Ilwo,” chiamò, e prima che potesse aggiungere alcunché un nitrito nervoso si alzò nell’aria.
Mahalcarinië li raggiunse, affiancandosi al proprio padre.
“Andrò,” disse, “andrò io.” Una mano a strattonare il braccio di Ilwaráto, troppo vicino a Curufinwë.
Lei gli gettò un’occhiata che trasudava chiaro disprezzo, ma le sue parole, poi, suonarono pacate.
“Ha ragione,” ammise, rivolgendosi al proprio padre, “tu avresti meno possibilità di raggiungere le Marche.”
E in quel momento Tyelkormo capì che non sarebbe riuscito a ordinarle di restare.
Ilwaráto artigliò le spalle di Mahalcarinië, mentre la sua maschera di compostezza s’incrinava del tutto. “Non lascerò che tu lo faccia!”
Sua figlia scosse il capo, senza sottrarsi alla sua presa. “Se non andrò io, faranno andare te.”
Tyelkormo abbassò lo sguardo: lei aveva capito. Il Giuramento, i loro fratelli, erano più importanti di qualsiasi altro legame, di qualsiasi orgoglio di condottiero o controverso senso di possesso.
Ilwaráto cercò di ribattere, ma Mahalcarinië gli afferrò le braccia che aveva allungato verso di lei.
“Sei tutto ciò che ho,” disse, ignorando la presenza dei loro signori, delle nubi e delle fiamme. “Se tu morissi, io morirei a mia volta, dunque quale differenza ci sarebbe?”
Ilwaráto annaspò. Si allungò in avanti, appoggiando la fronte contro quella di lei. Parole a tremare sulle labbra: “Cosa credi abbia, io?”
“Hai i ricordi di Valinor,” sussurrò Mahalcarinië, “di mia madre.”
Tyelkormo sperò che non aggiungesse altro, ma lei continuò: “Hai lui,” disse indicandolo con un cenno fugace.
Allora Ilwaráto alzò il capo e lo guardò con occhi colmi di disperazione. La stessa che gli aveva mostrato sulla nave-cigno, dopo che il mare aizzato dal Fratricidio si era preso la sua sposa.
E una parte di Tyelkormo si domandò se un vero capobranco – se Oromë – avrebbe chiesto ai propri seguaci simili sacrifici.
Quando Ilwaráto abbracciò Mahalcarinië, tornò a distogliere lo sguardo, ma l’avvertì comunque chiamarla bambina, baciarle il capo; scongiurala di tornare.
A differenza sua, Curufinwë era impassibile: non mostrava disagio né soddisfazione per aver ottenuto ciò che desiderava.
Mahalcarinië si scostò dal proprio padre e si voltò verso di loro.
“Porterò notizie alle Marche,” sentenziò, “e se saranno polvere quando arriverò a nord, tornerò sui miei passi, tornerò da mio padre.”
Tyelkormo cercò nei suoi occhi i riflessi che animavano quelli di Ilwaráto, le screziature smeraldine della Foresta di Oromë, ma lo fece inutilmente: nello sguardo di Mahalcarinië albergava solo l’impietosa oscurità di Endórë, quella che tutti loro avevano scelto.













Note:

Nonostante la ritirata, le truppe dei Fëanoriani non sono mostrate in totale balia degli eserciti di Melkor, perché ne Il Silmarillion è esplicitato che quest’ultimi presero il passo di Aglon “a costo di gravi perdite”.

I riferimenti a Curufin in quanto abilissimo cavaliere non derivano da un mio headcanon, ma si rifanno a passi de Il Silmarillion. Anche la geografia delle terre attorno al Nargothrond è per la maggior parte canonica.

Il nome Quenya Mahalcarinië è composto da mahtar “guerriero”, alcarin “glorioso”/“brillante” e da nië “lacrima”.
Mi rendo conto che sia un nome alquanto curioso per un personaggio femminile, ma nel mio immaginario si tratta di un ataressë tardivo, dato da Ilwaráto alla figlia ancora bambina dopo la morte della madre e la partenza da Aman.
A scarso di equivoci vorrei anche specificare che Mahalië è nata in Aman, ma era molto piccola quando i Ñoldor lo lasciarono, dunque non ne conserva memorie.



Al solito mi scuso per il ritardo cronico: di questo capitolo, che considero uno dei più “difficili” di tutto il racconto, e della storia da qui in avanti ho elaborato due versioni parallele, il problema è stato scegliere la più adatta (che potrebbe anche NON essere questa).

Vi ringrazio per la pazienza e per aver letto.



   
 
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