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Autore: Circe_    26/05/2017    10 recensioni
[Storia interattiva. Iscrizioni aperte fino al 2 Giugno]
Sono passati dieci anni dalla sconfitta di Gea, dieci anni di pace e relativa tranquillità, ma una nuova minaccia incombe sul Campo Mezzosangue e una nuova generazione di semidei dovrà affrontarla mentre antiche credenze vacilleranno sull'orlo dell'abisso.
Dal prologo
« Non capisci, tesoro,» esclamò Kitty con una certa urgenza non da lei. E allora Rory poté percepire l’esatto istante in cui le sue viscere si compressero nello stomaco, la paura aberrante a schiacciarla come il peso del cielo faceva con Atlante da migliaia di anni.
« Kitty, che sta succedendo?»
Il respiro concitato della sua migliore amica non lasciava adito a dubbi e rimostranze. Doveva afferrare una sacca e dirigersi verso il Campo, sperando e pregando le Moire perché non incontrasse troppi mostri sul suo cammino.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Apollo, Gli Dèi, I sette della Profezia, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Prologo
 
Aurora aveva sempre trovato l’espressione scivolare in un sogno abbastanza ridicola. I sogni erano visioni che gli dei inviavano alla propria progenie in formato gerbillo per la pura e semplice voglia di beffarsi della loro mortalità, dei loro desideri più reconditi, dei loro timori più aberranti.
Forse per i mortali il sogno era un’attività piacevole, creativa, quasi divina, ma per i semidei voleva dire soltanto una cosa: guai in vista. E di guai Aurora incominciava ad averne abbastanza.
Avanzava nella nebbia della visione con la forza motrice di un Panzer russo all’attacco, decisa com’era a scoprire dove suo padre aveva deciso di condurla quella volta. Si potevano imputare ad Aurora Gallagher mille difetti più uno, ma non che non fosse determinata. Era sempre stata sin troppo impulsiva, per i gusti calmi di sua madre, pronta a gettarsi a capofitto in situazioni senza via d’uscita, che la intrappolavano con la stessa infida malignità dei rampicanti e delle sabbie mobili. Non a caso il suo luogo preferito al mondo era il Labirinto di Dedalo. 
La nebbia le si era attaccata alla pelle come una ragnatela di brina che la fece tremare. Sembrava sin troppo reale, quel sogno. Suo padre si era superato. La ragazzina la diradò con un colpo secco, scrollandosela di dosso passandosi le mani sulle braccia lasciate nude dal peplo dorato che indossava. L’abito era splendido, un tocco di nobiltà che ben si sposava con i capelli dorati e la pelle mielata. Sembrava essere fatta interamente d’oro come una statua del Re Mida. Una sensazione di terribile disagio le attraversò le membra, ma fu lesta a ricacciarla nell’angolo più nascosto della sua mente. Non era da lei istigare le paranoie della sua anima.
Diradandosi, la nebbia lasciò spazio a una mattinata assolata, un paesaggio splendido e lenitivo. Il carro di suo padre doveva essere arrivato al suo Zenit perché i raggi illuminavano l’intera vallata circostante, ma non era in basso che doveva guardare. Le sue gambe, mosse dalla visione, la portarono in alto, verso la cima del monte. Avanzava senza fatica come se la gravità non esistesse, lei che era incline all’esercizio fisico quanto un bradipo in sovrappeso e i fianchi morbidi,  così come le gote piene e rotonde, potevano ampiamente dimostrarlo.
Quando arrivò in cima, la mano corse a coprirsi il naso per il tanfo improvviso mentre gli occhi lacrimavano per quell’odore acre e forte. Le orecchie ronzavano come se stesse per svenire, ma era ancora salda sulle gambe. Con orrore si accorse che il frastuono era fuori dalla sua testa. Proveniva da centinaia di mosche che banchettavano sui dei corpi dilaniati. 
Il sangue era ovunque.
Sangue che bagnava l’erba fresca e profumata; sangue sulle pietre aguzze che celavano i colori del cielo quando tuonava ed era pronto a inondare il mondo; sangue sui tronchi degli alberi; sangue che macchiava irrimediabilmente quello scenario da cartolina.
Sembrava un quadro del Caravaggio, uno di quelli più cruenti e dalle tinte più fosche. Il Sole alto non faceva che stridere con quel dipinto grottesco. Per un attimo fu tentata di urlare a suo padre di smetterla, di coprire il Sole, di portarlo via e lasciare soltanto il buio del dolore per quelle vite stroncate.
Una donna giaceva inerme sul terreno, i lunghi capelli neri e lucidi come piume di corvo cadevano sulle spalle esili, incrostati di sangue rappreso e strappati in più punti come se li avesse afferrati con foga per infliggersi un dolore fisico che non rappresentava neanche la metà di quello dell’anima. La pelle era macchiata come tutto il resto, ma s’intraveda il biancore marmoreo come se l’avesse immersa nel latte per renderla perfetta. Il peplo meraviglioso era infangato e al ventre stringeva il capo di una fanciulla splendida quanto lei, le labbra schiuse e gli occhi aperti in un muto grido di orrore.
La donna sollevò lo sguardo, come se avesse capito d’essere osservata. Aveva il viso levigato delle statue, troppo perfetto per essere reale, naso sottile, labbra carnose e rosse, occhi grandi e neri senza nessuna traccia di grigio o di marrone. Era bellissima e terribile, tanto terribile che Aurora si ritrovò a tremare senza neanche riuscire a nasconderlo, le labbra frementi di domande e turbamenti, gli occhi azzurri lucidi di pianto mal trattenuto. Le braccia erano corse ad abbracciarle il petto perché un vento gelido s’era sollevato e persino le mosche avevano abbandonato le loro alcove.
« Pagherete per questo,» ringhiò la donna con un ghigno ferino a distorcerle i tratti nobili come quelli di una Regina. Non c’era benevolenza nei suoi occhi, né misericordia. Era la rabbia terribile di un lupo famelico.
« No… non…» biascicò Aurora sconvolta e incapace per la prima volta di articolare una frase di senso compiuto. Non poteva riferirsi a lei. Lei uccideva mostri, non ragazzi inermi, e non era neanche brava a combattere.
« Assassini.»
Quell’accusa sibilata pesava come un macigno sulla sua anima turbata mentre scuoteva il capo per scacciarla, il pianto che le rigava le gote.
« Io non sono un’assassina,» soffiò con l’ultimo respiro che le era rimasto, cercando di convincere se stessa per prima.
« Guarda le tue mani, mostro.»
E Aurora abbassò gli occhi, sciogliendo l’abbraccio con cui s’era incatenata a stessa per non permettere all’anima di sfuggirle. Il meraviglioso peplo dorato era scomparso. Grondava sangue. Sangue non suo. Era ovunque. Sui seni piccoli, sul ventre florido, sulle gambe tornite. Sulle braccia e sulle mani. Era come se avesse fatto il bagno nel sangue di quei giovani. Il solo pensiero le fece salire la bile lungo l’esofago. Chiuse gli occhi di fiordaliso per non vedere, per scacciare quella visione, continuando a boccheggiare e a biascicare che non era reale, che non poteva esserlo. E l’oblio, il dolce e compassionevole oblio, l’accolse tra le sue braccia.
 
Aurora Gallagher si risvegliò di scattò, portandosi a sedere e cercando di riprendere a respirare, il petto bloccato come se un gatto ci avesse dormito sopra. Scostò le coperte con un calcio e un crampo improvviso la riportò in sé. Era tutto un sogno. Era a casa e non c’erano montagne con giovani morti e dilaniati in Florida.
La ragazzina abbassò lo sguardo sulle proprie mani, il cuore che batteva con l’incedere ritmico di una fanfara da battaglia. Mielate, lisce, pulite, vene che s’intravedevano appena, un anellino d’argento a spezzare l’oro della pelle perennemente abbronzata. Nessuna traccia di sangue. Quasi sospirò dal sollievo.
Si massaggiò il polpaccio nudo per sciogliere il crampo e si guardò intorno. Non era al Campo Mezzosangue, il suo Paradiso tascabile, a portata di mano, qualcosa che aveva scoperto soltanto quattro anni prima e che aveva amato dal primo momento. Il Campo era libertà dalla scuola e dai mostri che la inseguivano sin da bambina, era il piacere di riempire di frecce la faretra del maestro Chirone e di ricevere il suo benevolente sguardo paterno per ricompensa, era combattere con il maestro Percy e rincorrere Buford, il tavolino delle meraviglie del maestro Leo.
Era nella sua stanza a Sarasota, le pareti dipinte da lei stessa a sei anni con le sue scene preferite delle fiabe. Di fronte a lei c’era Belle intenta a sfiorare la rosa del Principe.
Suo padre non le aveva trasmesso che quel talento. I suoi disegni sembravano essere vivi, i personaggi respiravano quasi e parevano tanto reali che, se da un momento all’altro avessero incominciato a parlare, nessuno se ne sarebbe stupito. Per compensare era una frana in tutto il resto. Le sue frecce non riuscivano a colpire neanche il bersaglio ideale, non sapeva impugnare la spada e soprattutto non era in grado neanche di guarire la più misera tra le ferite. Davvero molto utile quando si ritrovava dinanzi a qualche mostro. Il massimo che avrebbe potuto fare era chiedergli se volesse un ritratto. Aurora scacciò quel pensiero. Non era da lei commiserarsi.
Poteva sentire sua madre canticchiare What kind of man, i cui toni si rincorrevano nell’ultima strofa con una potenza che ebbe il potere di ridestarla da quelle fantasticherie ad occhi aperti.
Alcune madri di semidei riuscivano ad andare oltre quell’avventura mitica che le aveva coinvolte in gioventù, a crescere, a costruirsi un futuro che non fosse occupato da dèi e da mostri, ma Wendy non aveva mai dimenticato Apollo. Aurora, che aveva ereditato la sua stessa sfortuna per le compagnia maschili, riusciva a capirla sin troppo bene. Era stata una cantante alquanto famosa prima che lei nascesse, una piccola stella nel panorama nazionale, ma una bambina piccola a cui badare le aveva impedito di emergere e Wendy s’era riciclata come cameriera. Cantava ancora perché era la sua grande passione. Cantava sempre per Aurora e non s’era pentita per la sua scelta, ma la ragazza non poteva evitare di pensare che, se Apollo non l’avesse amata, in quel momento sua madre sarebbe stata molto più felice. Gli dèi sapevano essere così egoisti e suo padre era di certo il più egocentrico di tutti.
Le note potenti di Smell Like Teen Spirit invasero la camera, scuotendola dal torpore in cui era caduta. Afferrò il cellulare, o meglio il Leophone, posato sul comodino e abbassò lo sguardo sul display. Il Leophone era stata, per molti, l’invenzione più utile del maestro Leo, un cellulare per semidei non captabile dai mostri. Rory non aveva ben presente come ci fosse riuscito, ma non le importava. Era bello assomigliare a una ragazza normale qualche volta, sebbene rimanesse Buford la sua invenzione preferita. Niente poteva competere con quel tavolino magico. Sul display, con l’Oceano sullo sfondo, era apparso soltanto un nome: Kitty. Quanto poteva contenere un minuscolo agglomerato di lettere. Ekaterina Moskovskaja, la semidea più iperattiva di tutti i tempi. Poteva rubarti il portafogli con una mano mentre con l’altra si arrabattava con le carte da gioco per spillarti ancora più denari. La prima volta che l’aveva vista Aurora aveva pensato che fosse la reincarnazione di Robin Hood, ma al contrario del ben più noto arciere, Kitty rubava ai ricchi per dare a se stessa.
« Kitty,» esclamò con affetto dopo aver accettato la chiamata, ignorando il messaggio promozionale del maestro Leo che la invitava a provare la Valdezpulta, la versione rinnovata e trenta volte più stupefacente dell’onagro romano. Il sogno era quasi scomparso del tutto dalla sua mente.
« Stai bene?» domandò concitata la sua più cara amica, l’accento russo e marcato che spuntava soltanto quando era davvero preoccupata. Rory rimase in silenzio per un attimo, gli occhi spalancati e il respiro che incominciava a farsi più corto e concitato. Non era da Kitty mostrarsi tanto angosciata. La sua amica era indolente come un gatto randagio. Se Rory tendeva ad estraniarsi e dar troppo conto al parere altrui, mai soddisfatta di se stessa, il mondo di Kitty si limitava alla sua persona. Era l’asse e il baricentro del suo pianeta personale e ciò che pensavano gli altri di lei valeva meno di un granello di sabbia. Come fossero diventate così amiche per Rory a volte rimaneva un mistero.
« Ehm… sì?» ribatté Rory stranita, passandosi la mancina tra i capelli biondi per scostarli dagli occhi. La coda si doveva essere allentata durante la notte e la sciolse del tutto permettendo alle onde dorate di posarsi sulle spalle.
« Al Campo sta succedendo qualcosa di terribile,» spiegò la russa frettolosa. Rory poteva immaginarla mentre si mordicchiava il labbro inferiore e gli occhi azzurri, più chiari dei propri, divenivano enormi come quelli di un cerbiatto.
« Terribile?» ripeté la bionda, boccheggiando in una perfetta imitazione di un pesce neanche troppo intelligente. Il maestro Percy sarebbe stato fiero di lei in quel momento.
« Rory, ascoltami bene. Devi venire subito a Long Island.»
« Arrivo domani come sempre,» pigolò la bionda. Si concedeva sempre due mesi all’anno lontana dal Campo perché sua madre le mancava immensamente e i messaggi Iride non erano abbastanza. Aveva bisogno degli abbracci e dell’affetto di Wendy, della sua voce calda che cantava in cucina, del sorriso sincero e splendente che le bagnava le labbra ogni volta che posava lo sguardo su di lei. Kitty, che una madre non l’aveva mai conosciuta, non poteva comprenderlo, ma rispettava quel desiderio.
« Non capisci, tesoro,» esclamò Kitty con una certa urgenza non da lei. E allora Rory poté percepire l’esatto istante in cui le sue viscere si compressero nello stomaco, la paura aberrante a schiacciarla come il peso del cielo faceva con Atlante da migliaia di anni.
« Kitty, che sta succedendo?»
Il respiro concitato della sua migliore amica non lasciava adito a dubbi e rimostranze. Doveva afferrare una sacca e dirigersi verso il Campo, sperando e pregando le Moire perché non incontrasse troppi mostri sul suo cammino. Di solito se la cavava con l’astuzia tramortendoli con la sua parlantina da attrice provetta, ma non tutti i mostri erano tanto sciocchi da fargliela passare liscia.
« Non posso dirtelo per telefono. Per favore, mettiti subito in viaggio.»
E riattaccò.
« Incredibile,» sbottò Rory, balzando sul pavimento e cominciando ad afferrare vestiti a caso per poi gettarli sul letto. Nietzsche sosteneva che bisognasse avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante e Rory aveva sempre apprezzato la filosofia tedesca. Si sposava bene con i pensieri che maceravano nella sua mente.
« Tutto bene, cara?»
Come tutte le madri, Wendy non bussava mai prima di entrare in camera di sua figlia, qualcosa che aveva condotto a situazioni non poco imbarazzanti quando Rory si perdeva a contemplare il soffitto dipinto con la scena della barca di Ariel ed Eric. Ed Eric somigliava a un certo eroe che abitava i suoi sogni più inconfessabili. Quegli occhi verdi erano un marchio di fabbrica sin troppo riconoscibile.
« Mi ha chiamato Kitty. Devo andare subito al Campo,» mormorò voltandosi ad osservarla. Sua madre era semplicemente splendida. Tutti dicevano che Rory le somigliava immensamente, ma la ragazza stentava a crederci. Wendy sapeva essere bella anche in quel poncho vecchio che fungeva da pigiama e con ai piedi le pantofole a forma di gatto che le aveva regalato lei un annetto prima. Aveva raccolto i capelli chiarissimi in uno chignon disordinato e spettinato che faceva risaltare il suo bel viso abbronzato su cui spiccavano gli occhi color nocciola.
« Lo so. Tuo padre è stato qui stanotte,» le comunicò senza intonazione apparente, rivolgendo lo sguardo chiaro verso la borsa aperta sul letto dalla quale spuntavano delle lapis e dei carboncini accanto a un paio di jeans.
« Mamma,» esclamò Rory scandalizzata, lasciando cadere sul pavimento la decina di maglietta che teneva in mano, « Mamma, che schifo,»  ripeté con un disgusto troppo esagerato per essere vero.
« Mi ritengo offeso,» borbottò una voce maschile alle spalle di sua madre. Wendy si scostò per lasciarlo entrare nella stanza e Rory sollevò lo sguardo sino ad immergersi in uno uguale al proprio. Per una volta suo padre non indossava i suoi occhiali da Sole, rigorosamente Ray-Ban, e questo lo faceva apparire più giovane e più bello che mai. Rory ancora si stupiva del fatto di essere nata da due genitori del genere.
« Apollo,» esclamò sua madre, sfiorandogli il braccio lasciato nudo dalla t-shirt con sopra stampato il logo di Innuendo. Aveva buon gusto in fatto di musica, non c’erano dubbi.
« Salutala e lasciala andare, Wendy, » mormorò il dio, sfiorandole la guancia con le nocche della mano destra con fare dolce. Rory incominciò a sentirsi a disagio nel vederli insieme. Perché Apollo se ne sarebbe andato di lì a breve, sarebbe ritornato sull’Olimpo, nel suo palazzo meraviglioso, con la sua lira e il suo arco mentre sua madre sarebbe rimasta in quel bilocale minuscolo, a piangere un po’, debole, triste e sola.
« Non puoi accompagnarla tu?» sospirò Wendy chinando il capo e abbracciandosi come s’era abbracciata lei dinanzi a quella visione di morte, come per tenere insieme i pezzi della sua anima spezzata.
« Non mi è concesso, lo sai,» ribatté suo padre frustrato e turbato insieme, le sopracciglia inarcate come se stesse prendendo la mira su un bersaglio che l’aveva fatto arrabbiare. Si chinò a sfiorare la fronte di sua madre con un bacio dolce e privato.
« Che diamine sta succedendo?» tuonò Rory che incominciava ad averne abbastanza di tutti quegli sciocchi e torbidi segreti. Sua madre sobbalzò nel sentirla così arrabbiata sebbene fosse abituata alla mancanza di grazia della ragazzina. Suo padre, invece, la osservò come se la vedesse per la prima volta. La guardò negli occhi di fiordaliso e sembrò sondare la sua anima. Quello che vide dovette piacergli perché annuì con un gesto secco, facendo oscillare i ricci biondi con decisione.
« Figliola, temo che tu l’abbia capito ormai. Sii forte. Anche per loro.»
 
 
 

Angolo dell’autrice
Ciao a tutti e benvenuti in questa piccola avventura. Nell’attesa di leggere The Dark Prophecy mi è venuta in mente questa storia senza pretese ambientata 10 anni dopo le vicende di Gea. Apollo ha superato le sue prove ed è tornato sull’Olimpo da almeno cinque anni e tutto sembra andare per il meglio al Campo, ma non sarebbe una storia di semidei senza qualche mostro e qualche profezia.
What kind of Man è una canzone dei Florence and the machine, Smeel like Teen Spirit dei Nirvana e Innuendo è un album dei Queen. La Valdezpulta è un piccolo riferimento a Il sangue dell’Olimpo mentre il Leophone è una mia invenzione, o meglio è di Leo.
Detto questo passerei al regolamento:
  • Le schede vanno inviate come messaggio privato. E, da regolamento di EFP, le recensioni non possono limitarsi soltanto alla prenotazione. Vorrei leggere delle critiche/suggerimenti, dei consigli, i vostri pareri.
  • Accetto semidei greci e romani.
  • Non accetto figli di divinità vergini come Era/Giunone, Minerva, Estia/Vesta, Artemide/Diana.
  • Non accetto figli di Giganti o di Titani che sono stati nemici delle divinità olimpiche.
  • Accetto volentieri Cacciatrici di Artemide. Ne avrei proprio bisogno. Accetto anche auguri romani, ma non Oracoli. La nostra Rachel è ancora in piena attività.
  • Non accetto figli greci di Apollo. Ne accetto di romani, però.
  • Potete creare quanti OC preferite, ma sappiate che probabilmente ci sarà una selezione. Avete tempo fino al 2 Giugno a mezzanotte per inviare le schede.
  • Essendo un’interattiva, potrei porgervi alcune domande. Quindi non sparite, per favore.
 
Scheda:
Nome completo con eventuale soprannome:
Età (arrivo al Campo/Attuale):
Genitore divino e rapporti:
Genitore morale e rapporti:
Storia personale:
Descrizione caratteriale e psicologica (vorrei che fosse qualcosa di organico, quindi no alle liste di aggettivi buttati lì):
Descrizione fisica:
Prestavolto:
Armi/Poteri/Abilità (non eccessivi):
Debolezze/fobie/paure:
Cosa ama:
Cosa odia:
Difetto fatale:
Orientamento sessuale ed eventuale relazione (descrivete i caratteri):
Frase che lo caratterizza:
 
Spero vogliate partecipare in molti. Vi aspetto.
Circe_
   
 
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